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Pervenire alla conoscenza di sé, per Schopenhauer, è il presupposto per negare la volontà di vivere

di Francesco Lamendola - 18/07/2008

Nel 1819, mentre in Germania furoreggia la filosofia di Hegel, impostata sul concetto della sensatezza dell'Essere quale dispiegamento del Logos nella storia, vede la luce un'opera di uno sconoscuito filosofo originario di Danzica: Il mondo come volontà e come rappresentazione, di Arthur Schopenhauer, che è la più radicale negazione dell'ottimismo e del razionalismo hegeliani e che, pur passando quasi inosservata, in un secondo momento giungerà ad acquistate un'influenza sempre più grande sul clima spirituale europeo.

Per Schopenhauer, le cose sono prive sia di fondamento, sia di ragione. Rifacendosi a Kant (e, in parte, a Platone, ma piegandoli entrambi alle proprie esigenze), sostiene che le cose non possiedono una realtà indipendente dal soggetto, e che i fenomeni che cadono sotto i nostri sensi, altro non sono che semplici apparenze. Tra noi ed esse vi è un velo di Maja che ci impedisce di coglierne la realtà (come accadeva per il noumeno kantiano, ma senza che ciò incrinasse la fiducia di Kant nell'autosufficienza del fenomeno). Questa apparenza è, per lui, la rappresentazione del mondo; mentre la cosa in sé è la volontà. Le cose non esistono come prodotti del soggetto, come vorrebbe l'idealismo; tuttavia è da esso che ricevono il loro senso.

Ma che cos'è, allora, la conoscenza? Non certo la conoscenza dell'essenza profonda delle cose, bensì la pura e semplice descrizione dei fenomeni, utile per i bisogni pratici della vita. Per Kant, scienza e conoscenza era un'unica  cosa; e, appunto per questo, egli aveva negato all'uomo la possibilità di attingere la conoscenza fuori dell'ambito empirico, quello del fenomeno. Schopenhauer, però, non è d'accordo; per lui, l'uomo possiede un organo capace di proiettarlo al di là della sfera empirica: l'intuizione, mediante la quale egli può accrescere la sua conoscenza. Poi, accanto all'intuizione, vi è la coscienza della propria corporeità, che consente all'uomo di riconoscere in se stesso un groviglio di impulsi e di istinti che sono l'espressione della volontà. Anzi, il corpo non è che volontà oggettivata, così come lo sono tutti i corpi e tutti i fenomeni fisici che si producono nell'universo.

Ma che cos'è, esattamente, codesta volontà?

 

Ecco come la descrive lo storico della filosofia  Sergio Moravia (Educazione e pensiero, Le Monnier, Firenze, 1983, vol. 3, p. 197):

 

Che cos'è la volontà per Schopenhauer? È l'oscura e terribile energia del mondo, che si obiettiva in forme sempre diverse e disposte secondo una scala di complessità crescente. È una forza cieca, non riducibile entro le consuete forme spazio-temporali, e dunque non suscettibile  di controllo scientifico. Se da un lato alimenta la vita di tutti gli esseri, dall'altro è anche sorgente di conflitto e di guerra permanente. Tale «lotta universale» raggiunge il livello massimo nel regno animale, dove ogni essere tende ad annullare l'altro: talché qui «la volontà di vivere divora perennemente se stessa». Simile alla libido freudiana, la volontà non obbedisce né alla guida della ragione, né alle prescrizioni della morale. Essa non persegue altri fini che la pura e semplice affermazione di sé: ma la sua tragedia è che non riesce mai a realizzarsi compiutamente.

 

Come per Leopardi (con il quale presenta notevoli analogie, anche se all'epoca questi ebbe una minore risonanza a livello europeo), anche per Schopenahuer vi è un fondamentale squilibrio ontologico nella natura umana, una sproporzione incolmabile fra volontà e bisogno, ossia fra il desiderio inesausto di sempre nuovi oggetti da inseguire, e una fondamentale mancanza da cui l'uomo è strutturalmente caratterizzato, per cui la volontà risulta sempre inadeguata e il desiderio ne esce perennemente insoddisfatto e frustrato. Come per il poeta di Recanati, la vita dell'uomo oscilla incessantemente, monotonamente, fra il dolore e la noia.

Che cos'è, dunque, la storia, se non la futile ripetizione di una commedia già scritta e messa in scena innumerevoli volte? Nel secolo che, più di ogni altro, esalta la filosofia della storia, facendo perno sull'idea di progresso - idea di matrice illuministica, ma non ripudiata dai filosofi romantici -, Schopenhauer proclama, senza batter ciglio, che tutta la storia è assurda e inutile; che non esiste miglioramento né progresso; che, nelle vicende umane, non vi è alcuna ombra di senso, di scopo, di fine.

Quanto alla vita del singolo individuo, essa è una spossante lotta per l'esistenza, il cui esito scontato è la morte (e viene alla mente la metafora del vecchio, scalzo e lacero, che si affretta tra mille fatiche e pericoli verso l'abisso oscuro che lo inghiottirà per sempre, nel Canto notturno di un pastore errante dell'Asia). L'intera vita umana non è altro che una morte temporaneamente rinviata; e il tempo, divoratore dei giorni, è parte della struttura essenziale dell'uomo stesso. Chissà se Schopenhauer aveva letto Orologio da rote del poeta friulano Ciro di Pers, uno dei migliori e più seri marinisti, tutta dominata dall'ansia e dall'angoscia per l'avvicinarsi della morte, che il suono cupo dell'orologio meccanico scandisce con inesorabile regolarità. Di certo, anche se la convinzione che l'uomo è un essere-per-la morte non è stata affatto «inventata» da Schopenhauer, egli l'ha posta con forza e coerenza inusuali, e ha dato origine a un filone nichilista che, passando per Freud, Heidegger e Sartre, non si è più arrestato e continua a incombere - più o meno esplicito, più o meno sullo sfondo - sul paesaggio spirituale del mondo contemporaneo.

 

È pur vero che Schopenhauer ha delineato le possibili forme di liberazione dal «male di vivere». Individuando nella cieca volontà la radice dell'attaccamento e, quindi, del dolore, egli ha indicato nella conoscenza, nell'arte e nell'etica - nelle sue tre forme ascendenti della giustizia, della compassione e dell'ascesi - le vie di fuga dal mondo e gli strumenti per trasformare la volontà in nolontà, ossia negazione radicale di se stessa.

Ma sono proposte che convincono poco, e non solo per la scarsa coerenza dimostrata da Schopenhauer, nella sua vita privata, rispetto ad esse, e specialmente a quella etica. Certo, immergendosi nel mondo delle idee e in quello della bellezza, l'uomo oblia se stesso e si avvicina a una temporanea, benefica sospensione della cieca volontà di vivere. E, a maggior ragione, ciò accade negli atti della vita etica, nel prendersi cura del prossimo sofferente, nella rinuncia totale alle manifestazioni dell'ego, quale si realizza nella vita ascetica.

Ma vi è una nota falsa nella pars costruens del pensiero di Schopenhuer, una nota che non convince.

La conoscenza, l'arte, l'esercizio della giustizia a dispetto dei propri interessi egoistici, la compassione verso il prossimo, la rinuncia al mondo fatta dall'asceta: tutte queste cose sono in grado di offrire, certamente, degli strumenti di liberazione dal dolore e dalla noia; ma tale liberazione è l'effetto da esse provocato, e non l'obiettivo primario che può prefiggersi, come fossero delle mere tecniche,  colui che le pratica. Né l'arte, né la giustizia, né la compassione e tanto meno l'ascesi, possono essere utilizzate come dei narcotici per indebolire e ottundere la volontà di vivere; come una scorciatoia per sottrarsi al male del mondo.

Al contrario, solo un profondo amore per il mondo e per la vita può guidare i passi di colui che sceglie di dedicarsi, anima e corpo, al perseguimento della conoscenza, dell'arte, delle forme più nobili dell'etica. La liberazione dal dolore giunge come un premio in certo qual modo inatteso, e comunque non perseguito, a coloro che hanno saputo obliare se stessi, non per paura di vivere e di soffrire, ma per una sovrabbondanza di amore per la vita e di pienezza esistenziale, che li hanno spinti a donarsi senza riserve a una passione più grande del proprio io.

 

A questo punto, crediamo sia utile ascoltare la viva voce di Schopenhauer e seguire il ragionamento conclusivo delle sua opera fondamentale.

 

Scrive, dunque, Arthur Schopenhauer al termine de Il mondo come volontà e rappresentazione (titolo originale: Die Welt als Wille und Vorstellung, 1819; traduzione italiana di Paolo Savj-Lopez e Giuseppe De Lorenzo, Laterza, Bari, 1986, vol. 2, pp. 532-536:

 

…giunta la nostra indagine al punto da farci vedere nella perfetta santità la negazione e l'abbandono d'ogni volere, e quindi la redenzione da un mondo, la cui essenza intera ci si presentò come dolore, tale condizione ci appare come un passare al vuoto nulla.

A questo proposito devo in primo luogo osservare, che il concetto del nulla è essenzialmente relativo, e si riferisce sempre ad alcunché di determinato, ch'esso nega. Codesta relatività fu attribuita (specie da Kant) soltanto al nihil privativum, indicato col segno - in opposizione al segno +, il qual segno -, capovolgendo il punto di vista, poteva diventare +; e in contrasto con quel nihil privativum, si stabilì un nhihl negativum, che fosse il nulla sotto tutti i rapporti, per esempio, del quale si cita la contraddizione logica, distruggente se stessa. Ma, guardando più da vicino, un nulla assoluto, un vero e proprio nihil negativum non si può neppure immaginare: ogni nihil negativum, guardato più dall'alto o sussurrato ad un più alto concetto, rimane pur sempre un nihil privativum. Ciascun nulla è pensato come tale solo in rapporto a qualche cosa, e presuppone codesto rapporto, ossia quella cosa. Perfino una contraddizione logica è un nulla relativo. Non è un pensiero della ragione: ma non perciò è un nulla assoluto. Imperocché essa è un'accozzaglia di parole, è un esempio del non pensabile, di cui nella logica si ha bisogno per mostrar le leggi del pensare: quindi, allorché si ricorre con quel fine a un esempio siffatto, si bada all'insensato, che è la cosa positiva di cui si va in cerca, trascurando il sensato, come negativo. Così adunque ogni nihil negativum, un nulla assoluto, quando venga subordinato a un concetto più alto, apparirà sempre qual semplice nihil privativum, o nulla relativo, che può sempre scambiare il suo segno con ciò ch'esso nega sì che questo diventi a sua volta negazione, ed esso viceversa diventi posizione. Con noi s'accorda anche il risultato della difficile indagine dialettica intorno al nulla, che Platone istituisce nel sofista (…)

Ciò ch'è universalmente ammesso come positivo, che noi chiamiamo l'ente, e la cui negazione è espressa dal concetto del nulla nel suo significato più universale, è appunto il mondo della rappresentazione, che io ho indicato come oggettità, specchio della volontà. E questa volontà e questo mondo sono poi anche noi stessi, e al mondo appartiene la rappresentazione in genere, come una delle sue facce: forma di tale rappresentazione sono spazio e tempo, quindi ogni cosa, che sotto questo riguardo esista, dev'esser posta in qualche luogo e in qualche tempo. Negazione, soppressione, rivolgimento della volontà è anche soppressione e dileguamento del mondo, ch'è specchio di quella. Se non vediamo più la volontà in codesto specchio, invano ci domanderemo dove si sia rivolta; e lamentiamo allora ch'ella non abbia più né dove né quando, e sia svanita nel nulla.

Un punto di vista invertito, qualora fosse possibile per noi, scambierebbe i segni, mostrando come il nulla ciò che per noi è l'ente, e quel nulla come l'ente. Ma, finché noi medesimi siamo la volontà di vivere, il nulla può essere conosciuto da noi solo negativamente, perché l'antico principio d'Empedocle, potere il simile esser conosciuto soltanto dal simile,  ci toglie qui ogni possibilità di conoscenza; come viceversa poggia su quel principio la possibilità di tutta la nostra conoscenza reale, ossia il mondo come rappresentazione o l'oggettità della volontà. Imperocché il mondo è l'autocognizione della volontà.

Quando si volesse tuttavia insistere nel pretendere in qualche modo una cognizione positiva di ciò, che la filosofia può esprimere solo negativamente, come negazione della volontà, non potremmo far altro che richiamarci allo stato di cui fecero esperienza tutti coloro, i quali pervennero alla completa negazione della volontà; stato al quale si son dati i nomi di estasi, rapimento, illuminazione, unione con Dio, e così via. Ma tale stato non può chiamarsi cognizione vera e propria, perché non ha più la forma del soggetto e dell'oggetto, e inoltre è accessibile solo all'esperienza diretta né può essere comunicato altrui.

Noi, che restiamo fermi sul terreno della filosofia, dobbiamo qui contentarci della conoscenza negativa, paghi d'aver raggiunto il limite estremo della positiva. Avendo riconosciuto nella volontà l'essenza in sé del mondo, e in tutti i fenomeni del mondo null'altro che l'oggettità di lei; avendo quest'oggettità perseguito dall'inconsapevole impulso delle oscure forze naturali fino alle più lucide azioni umane, non vogliamo punto sfuggire alla conseguenza: che con la libera negazione, con la soppressione della volontà, vengono anche soppressi tutti quei fenomeni e quel perenne premere e spingere senza meta e senza posa per tutti i gradi dell'oggettità, nel quale e mediante il quale il mondo consiste; soppressa la varietà delle forme succedentisi di grado in grado, soppresso, con la volontà, tutto intero il suo fenomeno, poi finalmente anche le forme universali di quello, tempo e spazio; e da ultimo ancora la più semplice forma fondamentale di esso, soggetto e oggetto. Non più volontà: non più rappresentazione, non più mondo.

Davanti a noi non resta invero che il nulla. Ma quel che si ribella contro codesto dissolvimento nel nulla, la nostra natura, è anch'essa  nient'altro che la volontà di vivere. Volontà di vivere siamo noi stessi, volontà di vivere è il nostro mondo. L'aver noi tanto orrore del nulla, non è se non un'altra manifestazione del come avidamente vogliamo la vita, e come niente siamo se non questa volontà, e niente conosciamo se non lei. Ma rivolgiamo lo sguardo dalla nostra personale miseria e dal chiuso orizzonte verso coloro, che superarono il mondo; coloro, in cui la volontà, giunta alla piena conoscenza di sé, se medesima ritrovò in tutte le cose e quindi liberamente si rinnegò; coloro, che attendono di veder svanire ancor solamente l'ultima traccia della volontà col corpo, cui ella dà vita. Allora, in luogo dell'incessante, agitato impulso; in luogo del perenne passar dal desiderio al timore e dalla gioia al dolore; in luogo della speranza mai appagata e mai spenta, ond'è formato ogni sogno di vita d'ogni uomo ancor volente: ci appare quella pace che sta più in alto di tutta la ragione, quell'assoluta quiete dell'anima pari alla calma del mare, quel profondo riposo, incrollabile fiducia e letizia, il cui semplice riflesso nel volto, come l'hanno rappresentato Raffaello e Correggio, è un completo e certo Vangelo. La conoscenza sola è rimasta, la volontà è svanita. E noi guardiamo con dolorosa e profonda nostalgia a quello stato, vicino al quale apparisce in piena luce, per contrasto, La miseria e la perdizione del nostro. Eppur quella vista è la sola, che ci possa durevolmente consolare, quando noi da un lato abbiam riconosciuto essere insanabile dolore ed infinito affanno inerenti al fenomeno della volontà, al mondo; e dall'altro vediamo con la soppressione della volontà dissolversi il mondo, e soltanto il vacuo nulla rimanere innanzi a noi. In tal guisa adunque, considerando la vita e la condotta dei santi, che raramente ci è concesso invero  d'incontrar nella nostra personale esperienza, ma che dalle loro biografie e, col suggello dell'interna verità, dall'arte ci son posti sotto gli occhi, dobbiamo discacciare la sinistra impressione di quel nulla, che ondeggia come ultimo termine in fondo a ogni virtù e santità e di cui noi abbiamo paura, come della tenebra i bambini. Discacciarla, quell'impressione, invece d'ammantare il nulla, come fanno gl'Indiani, in miti e in parole prive di senso, come sarebbero l'assorbimento in Brahma o il Nirvana dei Buddhisti. Noi vogliamo piuttosto liberamente dichiarare: quel che rimane dopo la soppressone completa della volontà è invero, per tutti coloro che della volontà ancora son pieni, il nulla. Ma viceversa per gli altri, in cui la volontà si è rivolta da se stessa e rinnegata,  questo nostro universo tanto reale, con tutti i suoi soli e le sue vie lattee, è - il nulla.

 

Non è piccola la responsabilità che Schopenhauer si è preso, di condannare in modo radicale non questa o quella forma di esistenza; non questa o quella situazione storica: ma la vita e il mondo intero in quanto tali, proclamandoli totalmente insensati e unicamente caratterizzati, per l'essere umano, dalla sofferenza e dalla noia.

Nessun filosofo si era mai spinto così avanti nella denigrazione della vita e nella denuncia di una totale insignificanza dell'universo.

La conclusione più logica che ci si aspetterebbe da Schopnahuer è che egli ammetta, anzi auspichi, la liberazione dalla vita mediante il suicidio; ma ciò non avviene perché, dice il filosofo, il gesto di togliersi la vita è, al contrario, l'estrema manifestazione della volontà di vivere (cfr. il Dialogo di Plotino e di Porfirio nelle Operette morali di Leopardi).

 

Scrive, a questo proposito, Wanda Bannour (in Storia della filosofia a cura di François Châtelet, vol. V, La filosofia e la storia, Hachette, Paris, 1973; traduzione di Libero Sosio, Rizzoli, Milano, 1976, pp. 147-148):

 

Così, a tutti i livelli, il pensiero di Schopenhauer aggredisce la vita, attivando il nichilismo masochistico che alloggia nel sottosuolo del pensiero europeo. Mortificando la volontà, il pensatore si situa nella tradizione fedoniana del corpo concepito come tomba. C'è anche molto di Malebranche in questo falso indù i cui figli, da Dostoevslkij a Bernanos a Simone Weil, non hanno finito di moltiplicarsi. Il mondo come volontà e rappresentazione è il racconto di una lenta agonia voluta, l'agonia dell'ultimo uomo che, per paura della vita, ha scelto di morire piuttosto che di vivere.

Quanto a noi, ci è impossibile guardare con occhio impassibile l'effetto di questo pensiero nel corso di un secolo ricco di sconvolgimenti, che le meditazioni di Heidegger ci fanno decifrare come una conseguenza del destino dell'essere. Proseguendo la fatica del Socrate del Fedone, la nevrosi di Pascal, il grande nihil schopenhaueriano che tenta di «suicidare» la volontà di vita si prolunga nel Thanatos freudiano. Qualcosa della terribile aggressività di Schopenhauer risuona ancora nelle opere scientifiche degli analisti moderni. Noi subiamo la pesante eredità del pensatore «pessimista» che, non potendo vivere nella Gioia, la battezzò privazione e mancanza (un intero aspetto della filosofia di Sartre si trova già contenuto in questo a priori affettivo), che trasformò l'ardore in disperazione, calunniò la vita, facendo del dolore l'essenza del desiderio e della vita al fine di poter soffocare il desiderio e assassinare la vita; che eresse al di sopra dell'umanità l'immagine del fachiro pietrificato e del Cristo in croce, dando così una garanzia pseudofilosofica ai fantasmi sanguinanti dell'inconscio masochista; che osò decidere, a nome dell'uomo vivente, a nome dell'essere, che l'esistenza è un «dolore terribile» e che divulgò, sotto il nome di buona novella, un invito a imbarcarsi in direzione delle rive del nulla.

 

Sartre, per molti aspetti, sembra aver fatto (fortunatamente) il suo tempo; e, quanto ad Heidegger, sono altri gli aspetti della sua filosofia che appaiono, oggi, ancor vivi e vitali.

Invece il maggiore e più diretto «discepolo» di Schopenhauer, Freud, domina ancora il campo della cultura europea e la sua diabolica invenzione, la psicanalisi, continua a trasmettere l'idea che la vita sia una ben misera cosa e che la parte più profonda dell'uomo sia costituita da pulsioni cieche e terribili, che egli non osa neppure guardare in faccia per non restarne pietrificato; e che l'unica alternativa al loro selvaggio dispiegarsi sia la repressione sistematica della parte più autentica del nostro essere, mediante la pesante impalcatura della «civiltà». Grazie ad essa, da belve bramose di commettere incesto con la madre (o con il padre) e parricidio, gli  esseri umani riescono a trascinare un'esistenza socialmente accettabile.

Tuttavia, la bestia che sonnecchia in essi può risvegliarsi ad ogni istante e, se ciò avviene, c'è ben poco che si possa fare per tenerla a bada, se non rimestare nel fondo più torbido della palude e riportare a galla le cose più turpi e vergognose, che vi giacevano sepolte ma non mai realmente dimenticate.  Tanto più che una forza oscura e paurosa, un istinto di morte che erompe dalle profondità dell'inconscio con la stessa cieca forza della volontà di Schopenhauer, sembra incombere su ogni nostro atto, pronta ad avvelenare ogni nostra gioia e consolazione, a intorbidare ogni lieta disposizione dell'animo nostro.

Abbiamo già parlato, in altra sede, di questo (cfr. F. Lamendola, Una forma di magia nera: la psicanalisi, consultabile sul sito di Arianna Editrice), per cui non torneremo a ripetere cose già dette. Ai fini del presente discorso, ci basta aver sottolineato come la visione dell'uomo elaborata dalla psicanalisi sia stata legittimamente ereditata da quella di Schopnehauer: debito che Freud ha sempre, e in più occasioni, apertamente riconosciuto.

 

Che altro dire?

A noi pare che la filosofia di Schopenhauer sia stata l'espressione di una reazione legittima alla astrattezze e al presuntuoso e ingiustificato ottimismo storicistico di quella di Hegel («ciò che è razionale è reale; ciò che è reale è razionale»); ma, trascinato da una vis polemica che confinava con l'odio fisico (e non si può definire in altro modo il sentimento che il primo nutriva verso il secondo), il filosofo di Danzica si è spinto molto al di là del bersaglio, con esiti cupi e paradossali. Una cosa, infatti, è criticare la pretesa di conoscere le vie segrete di un Logos che dispiega nella storia umana il massimo della razionalità; un'altra, e ben diversa, è negare che il mondo, e l'uomo con esso, abbiano il benché minimo valore, il benché minimo scopo, e che possano offrire altro che una monotona alternanza di noia e di dolore.

Se si vuol cercare veramente l'anti-Hegel, non lo si troverà - crediamo - in Schopenhauer, che del suo detestato rivale ha acquisito molti aspetti, e non dei più piacevoli: il dogmatismo, l'arroganza intellettuale, la convinzione di aver detto l'ultima e definitiva parola di verità sul mondo e sulla condizione umana.

Il vero anti-Hegel è stato un pensatore molto più problematico, molto più poliedrico, molto più sottile e sfumato; molto meno roso dalla gelosia e dall'invidia per Hegel e molto più proteso a costruire una via alternativa (e non semplicemente oppositiva) a quella di lui: un isolato pensatore danese, che trascorse quasi tutta la sua vita nell'atmosfera provinciale di Copenaghen, innalzandosi però più in alto di tutti i filosofi europei del suo tempo: Sören Kierkegaard.

Anche di lui ci siamo occupati, in più di una occasione (cfr. i nostri articoli: Kierkegaard, maestro del ritorno in noi stessi, è la guida per uscire dalla palude; Il paradosso della fede: «Timore e tremore» di Kierkegaard»; È la perdita dell'ingenuità la «malattia mortale» del mondo moderno; e La donna, schiava della moda fino a lasciarsi mettere l'anello al naso?: tutti e quattro consultabili sul sito di Arianna Editrice).

Nel rimandare, pertanto, a quei lavori,  non ci stanchiamo di richiamare il ruolo positivo che l'esistenzialismo di Kierkegaard - come, più tardi, quello di Gabriel Marcel - ha esercitato sul pensiero moderno, come antidoto non tanto alle boriose vanterie dell'hegelismo, già smentite ampiamente dai fatti, quanto alle tetre diagnosi del nichilismo contemporaneo, il cui veleno sottile continua a distillare nel cuore di una società sempre più disorientata e di una cultura, dispiace dirlo, sempre più dominata dalle facili mode del momento, le quali sono tanto più acclamate e riverite,  quanto più spargono a piene mani pessimismo, angoscia e scoraggiamento.