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Fenomenologia del neoliberismo

di redazionale - 18/07/2008

 

I sistemi di potere che si sono succeduti nella storia moderna e contemporanea, hanno cercato legittimazione in un’ideologia, diffusa a livello di massa, non avendo e non potendo avere – per la sua stessa genesi e per la natura delle finalità perseguite – la gerarchia da loro espressa e beneficiaria di un potere concreto sugli uomini e sulle risorse, una superiore e intangibile investitura.

Ideologia fu il comunismo, ma anche il nazionalismo, che spesso si sposò ad una forma di stato apparentemente “etica”.

L’ultimo sistema di potere in via di costituzione – funzionale agli interessi dei “nuovi feudatari globali”, perfetta realizzazione dei più arditi sogni massoni e destinato a segnare in modo indelebile la storia dell’umanità presente e futura – fonda la sua dominazione, oltre che sul controllo della moneta, del cibo e dell’energia, sulla diffusione del neoliberismo, risibile complesso di dogmi, spesso utilizzati dai media mainstream come slogans pubblicitari, che nasce dai cascami di una discussa teoria economica – il liberismo – e che sembra sancire definitivamente la “superiorità” dell’economia sulla politica, sulla morale, su tutti gli aspetti del vivere sociale, con il superamento della ormai inattuale e datata teoria politica liberale – il “vecchio” liberalismo, di matrice ottocentesca, non più confacente agli interessi e gli scopi dei nuovi dominatori – dalla cui progressiva dissoluzione ha tratto linfa vitale.

Parliamo, in questo contesto, esclusivamente di teoria politica sui generis, di ideologia e dogmi, e non organicamente di scienza, tanto meno di conoscenza.

Il compromesso liberal-democratico , sul piano politico, e la diffusione delle teorie del liberismo economico ne sono alla base, ovviamente, ma il neoliberismo va oltre, pretendendo di riassumere nelle sue formule e nei suoi dogmi dal sapore falsamente magico e totalizzante – mercato, libera concorrenza, efficienza, globalismo – ogni aspetto della vita umana sulla terra.

Ridotte le risorse offerte dall’ambiente naturale, nell’ottica del peggior cartesianesimo, e lo stesso essere umano a semplici fattori della produzione, ambedue da sfruttare pienamente e ambedue riproducibili [il primo, grazie all’avanzamento della scienza e alle nuove tecnologie che ne garantirebbero illimitata riproducibilità , come troppo spesso erroneamente si è creduto, il secondo grazie alla manipolazione degli aspetti culturali, alle politiche demografiche, ai flussi migratori e all’immigrazione, e entrambi grazie alla piena libertà di spostamento dei capitali], il piano della lotta per l’eliminazione di tutte le barriere all’esercizio effettivo del potere si è concentrato contro i vecchi stati nazionali e le federazioni, persino contro le gerarchie religiose e, comunque, contro tutti quegli ostacoli culturali che generano resistenze, per affermare la superiorità dei meccanismi di auto-regolazione del mercato – progressivamente sottratti a normative nazionali, nonché internazionali, di vera delimitazione e controllo, ai limiti di norme morali e religiose preesistenti – ed estesi ben oltre i possibili, e tradizionali, confini politici.

Una potente spinta al successo, sia dell’idea di mercato quale supremo regolatore e senza confini, sia della nascente ideologia neoliberista nel suo complesso, che la incorpora e ne fa il centro del suo universo dogmatico, è stata data dal crollo di quel regime, frutto di un assetto sociale e politico apparentemente alternativo al “capitalismo”, ma anch’esso fondato sul mito della sovra-produzione e della crescita illimitata, nonché sull’oppressione dei popoli, che più di ogni altro ha rappresentato i vizi e le storture del comunismo novecentesco: l’Unione Sovietica.

Molto è dovuto al vuoto generato dal cedimento del così detto sistema sovietico, unitamente alla progressiva scomparsa di idealità – ma anche all’indebolimento sostanziale di tradizioni anteriori all’età moderna e benefiche dal punto di vista identitario – la cui persistenza e condivisione profonda, da parte di ampie fasce della popolazione, ed in particolare di quella dell’Occidente del pianeta, avrebbero potuto impedire, o almeno mettere un argine alla diffusione di questo unico pensiero, finalizzato ad “aprire” il mondo – scardinandone i confini interni – agli interessi privati di nuova e mera colonizzazione economica, i quali, non trovando più ostacoli di rilievo davanti a sé e nell’euforia della incruenta vittoria “sul comunismo”, ad un certo punto della storia si sono materializzati nelle forme ben note dell’internazionalizzazi one del capitale, della de-localizzazione dell’industria – seguendo la logica apolide della comparazione dei costi e della massimizzazione dei profitti – degli accordi commerciali internazionali per promuovere il libero commercio globale, dal Messico al Canada, dall’Unione Europea all’Oriente.

Affinché tali interessi potessero essere soddisfatti, serviva anche “l’agibilità” dei territori e degli immensi potenziali – fino ad allora quasi non espressi – di Cina e India, nonché l’altrettanto immensa riserva di mano d’opera a basso costo che questi paesi garantivano.

Sostenere i consumi, creandone di nuovi e creando nuovi consumatori, allo scopo di sostenere la produzione, in una discesa continua dei costi per unità di prodotto, ha avuto il fine di esorcizzare lo spettro dei profitti stagnati o addirittura in caduta.

L’accumulazione capitalista, concepita in funzione dell’esaltazione dell’interesse privato, non può ammettere tassi di profitto stazionari o, peggio, in regresso.

A questo scopo, oltre che “recuperare al mercato” anche i paesi dell’est europeo, orfani della dominazione sovietica e delle sue imposizioni economico-politiche , è stato portato l’attacco allo stato sociale che aveva assunto forme avanzate soprattutto in Europa occidentale – visto unicamente come puro costo e un ostacolo all’internazionalizzazi one dell’economia, e quindi da smantellare completamente – accantonando, nel contempo, il così detto compromesso fordista, che ha contribuito a creare, in Occidente, un nuovo e vasto strato di piccola e media borghesia [il ceto medio, ancor oggi evocato con un’enfasi messianica da certi politici occidentali in cerca di consensi], che assicurava quantomeno un tenore di vita materiale e aspettative future crescenti.

Questi attacchi hanno avuto indubbio successo, nell’ottica perversa di arrivare, nel prossimo futuro, alla completa “brasilianizzazione” della società di un mondo unificato da regole commerciali, dal mercato e dalla moneta, con pochi dominanti, ai quali sono riservate le decisioni strategiche, un piccolo strato di collaboratori di rango più basso – nel ruolo di nuovi valvassini e valvassori, con un peso numerico inferiore al dieci per cento della popolazione complessiva e un oceano di disperati, alla completa mercé dello spietato potere globale.

Accanto ai ricordati dogmi, e nonostante i guasti provocati, ovunque nel mondo, dal libero mercato globale e dal dominio della dimensione finanziaria, resiste il falso mito del “progresso”, che ha il suo centro e il suo motore nel culto di quella che qualcuno ha chiamato la tecno-scienza.

Con chiare parole:

«La società proposta è una società in progresso, una società che cerca nuove soluzioni, nuove tecniche, e le innovazioni sono sempre viste come potenziali strumenti per il miglioramento. Una società lanciata verso il futuro, con un grande passato, ma senza il presente.»

Ma la realtà delle cose è ben diversa, come ci suggerisce la nostra stessa esperienza quotidiana:

«Il progresso porta innovazioni finalizzate per gran parte al lucro; non richieste dalla collettività esse non rispondono alle necessità né ai desideri diretti, insinuano invece nuovi desideri e necessità. Il ritmo dell’evoluzione risponde all’evoluzione del capitale, e non a quello degli uomini, alla ragione di dover guadagnare di più, alla ragione di dover muovere sempre più le merci e questa frenesia definisce un tempo che, anch’esso, non risponde al tempo degli individui.

Una società che progredisca in questo modo è una società infelice.»

Assieme ai tassi di inquinamento crescente, ad un avanzato livello di destrutturazione delle comunità, al diffondersi dell’ingiustizia sociale e dell’esclusione di ampie fasce della popolazione dai benefici di un supposto “progresso”, si genera infelicità nei singoli – creando potenziali e diffusi focolai di rivolta – ed è proprio per questo che l’azione propagandistica dei media prezzolati, la diffusione ossessiva dei vuoti e truffaldini slogans neoliberisti, l’esaltazione, oltre che delle virtù “taumaturgiche” del mercato, del necessario compendio politico rappresentato dalla democrazia di matrice liberale acquista un’importanza strategica, qualificando il condizionamento per via mediatica come una delle più importanti armi utilizzate dai signori della mondializzazione, al fine di stabilizzare il loro potere nelle aree in cui è ormai radicato, come il settentrione del continente americano e l’Europa occidentale, nonché di estenderlo a nuovi paesi, dall’est europeo all’estremo oriente, e plasmare ovunque un nuovo individuo atto a servirlo docilmente.

Nel prossimo futuro, un “salto di qualità” nel controllo dell’essere umano, ma anche di molte altre specie viventi non umane [per ragioni sostanzialmente legate agli interessi e ai profitti dell’industria alimentare e O.G.M., strumento di dominio di prima importanza], sarà rappresentato di certo dalle applicazioni offerte dalla genetica – una forma di condizionamento alla fonte, quindi, che non lascerà scampo –, scienza che ha raggiunto, e si appresta a valicare rapidamente, limiti etici che i nostri antecessori hanno creduto inviolabili, per prerogativa divina.

La manipolazione dell’individuo ha come fine quello di ridurre al minimo il rischio della nascita di alternative culturali, e quindi politiche, fondate su valori tradizionali sopravviventi od anche su vecchie ideologie – che si presentano volutamente come ormai completamente sconfessate dalla storia – ed evitare estesi e diffusi moti di rivolta, tali da mettere in pericolo la stabilità delle democrazie vecchie e nuove, fondate su una rappresentatività artefatta e inquinate dal monitoraggio di poteri esterni e sovra-nazionali, nonché lo spietato nuovo ordine sociale che si va ovunque delineando.

L’impossibilità della scelta, a livello dei singoli come a livello degli organismi statuali, è condicio sine qua non per il successo dei processi di mondializzazione economica, “culturale” e politica in atto.

In questa ottica rientrano i continui richiami, da parte della grande stampa e dei canali televisivi più seguiti, nonché sempre più spesso diffusi attraverso siti internet e giornali online compiacenti, ai “diritti umani” da tutelare in ogni dove, se occorre manu militari, alla “democrazia” come supremo valore imposto [che con gli evanescenti “diritti umani” dovrebbe affermarsi di pari passo, fin nelle foreste del Borneo o nei più sperduti angoli della Birmania], alla “società aperta” – contrapponendola, di fatto, alla difesa delle identità culturali e alla dignità del lavoro dei membri delle comunità – e, soprattutto in passato, al mitico e benefico “villaggio globale”, che accoglierà tutto il genere umano dopo la sua inevitabile omologazione.

Gli organismi statuali, allo stesso modo delle persone e delle comunità portatrici di valori diversi, sono visti come un ostacolo, lungo questo percorso, il quale dovrebbe portare l’umanità – a detta di qualche visionario liberal-democratico – al cruciale appuntamento con la fine della storia, in una sorta di tensione escatologica che lega il destino ultimo del mondo e dell’uomo all’avvento del mercato globale e della liberal-democrazia.

Ci accorgiamo di alcune significative analogie con il portato ideologico e le illusioni del comunismo novecentesco, la cui sconfitta ha spianato la strada al nascente neoliberismo:

1)     Alla fine del percorso storico umano, iniziato con fatica e sofferenza nelle nebbie del neolitico, in luogo della realizzazione compiuta del socialismo – con le sue indubbie suggestioni di giustizia e armonia sociale, di scomparsa delle classi e di emancipazione dei lavoratori, evocate dalla nota frase “da ciascuno secondo le sue possibilità, a ciascuno secondo i suoi bisogni” – vi è l’avvento del mercato in tutto il pianeta, come supremo regolatore della vita umana nonché, in parallelo, la diffusione di un unico pensiero e la conseguente affermazione della democrazia liberale.

2)     La scomparsa dello stato – non più necessario nella fase finale del socialismo e destinato, quindi, ad una miracolosa dissoluzione – o quantomeno la sua riduzione ad entità secondaria, incaricata di gestire l’ordinaria amministrazione senza interferire con il supremo meccanismo regolatore, è qui implicita nell’attesa di un unico “governo mondiale”, in cui le componenti più influenti saranno rappresentative di quei grandi interessi privati, di natura squisitamente economico-finanziar ia, che da tempo sono impegnati a colonizzare il pianeta, piegandolo alle loro ragioni. Questi governanti, come si è detto, esistono già e stanno solo aspettando che i tempi maturino, stringendo la morsa del controllo sulla moneta, sull’energia, sull’informazione, sulle tecnologie militari, sulla genetica e persino sul cibo. Cosa sarà dunque una simile entità, in cui discendenti di potenti famiglie americane, protestanti o ebrei, siederanno accanto a europei mediterranei e qualche arabo? Una sorta di grottesca e degenerata caricatura, priva di investiture sovramondane, di quel Sacro Romano Impero che ha cercato, senza riuscirvi, di restituire definitivamente all’uomo la perduta grandezza dell’Impero Romano, oppure una distopìa riconducibile soltanto agli aspetti più inquietanti di due opere letterarie, non sufficientemente ricordate agli albori del terzo millennio, e partorite da uno strano connubio fra fantasia e preveggenza che ispirò George Orwell e Aldus Huxley? O non si tratterà, piuttosto, di una nuova e sofisticata forma di feudalesimo, senza referenti più alti dell’egoismo umano, dell’avidità che connota il mercante e priva di adeguati meccanismi di selezione dell’aristocrazia – diversi da una nascita fortunata e dalla disponibilità di immensi patrimoni finanziari – in cui l’applicazione spregiudicata della tecnoscienza, la docilità di schiavi condizionati e la dimensione mondiale degli scambi saranno alla base del potere, garantendone la perpetuazione?