Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Iraq, il fiume della resistenza. Come il sogno imperiale americano è affondato in Iraq

Iraq, il fiume della resistenza. Come il sogno imperiale americano è affondato in Iraq

di Michael Schwartz* - 18/07/2008






Il 15 febbraio 2003, cittadini comuni di tutto il mondo si riversarono nelle strade per protestare contro l’invasione dell’Iraq che George W. Bush stava preparando. Manifestazioni si svolsero in tutto il globo, sia nelle grandi città che nelle cittadine, inclusa la piccola ma vivace protesta alla stazione McMurdo in Antartide. Circa 30 milioni di persone, che avevano avuto sentore dell’imminente catastrofe, parteciparono a quella che Rebecca Solnit, questa apostola della speranza popolare, ha definito “la più grande e più estesa protesta collettiva che il mondo abbia mai visto”.

La prima superficiale valutazione della storia ha bollato questa imponente protesta planetaria come un fallimento senza precedenti, considerato che l’amministrazione Bush, meno di un mese dopo, ordinò alle truppe Usa di varcare il confine con il Kuwait verso Baghdad.

Da allora è stata in gran parte dimenticata o, ancora meglio, rimossa dalla memoria ufficiale e da quella dei media. Tuttavia una protesta popolare è qualcosa di più simile a un fiume che a una tempesta; continua a scorrere in nuove aree, portando pezzi della sua vita precedente in nuovi regni. Di rado ne conosciamo le conseguenze se non molti anni dopo, quando, se siamo fortunati, ci appare infine chiaro il percorso tortuoso che ha seguito. Parlando per i manifestanti nel maggio 2003, solo un mese dopo che le truppe Usa erano entrate nella capitale irachena, la Solnit aveva dichiarato: “Probabilmente non lo sapremo mai con certezza, ma sembra che l’amministrazione Bush abbia deciso di abbandonare la strategia di bombardamenti massicci di Baghdad nota come Shock and Awe [“Colpisci e Terrorizza” NdT], perché gli abbiamo fatto capire che i costi in termini di opinione pubblica mondiale e fermento sociale sarebbero stati troppo alti. Il nostro essere milioni potrebbe aver salvato qualche migliaio o qualche decina di migliaia di vite. Il dibattito globale sulla guerra l’ha ritardata per mesi, un tempo che forse ha permesso a molti iracheni di fare scorte, scappare, prepararsi all’offensiva”.

Qualunque sia stato il giudizio della storia su quell’inaspettato momento di protesta, una volta che la guerra è cominciata, sono sorte – principalmente nello stesso Iraq – altre forme di resistenza altrettanto inaspettate. E i loro effetti sugli obiettivi più ampi degli strateghi dell’amministrazione Bush possono essere più facilmente delineati. Guardiamola in questo modo: in un Paese grande quanto la California, ma con 26 milioni di abitanti, un’accozzaglia di ba’athisti, fondamentalisti, ex membri dell’esercito, sindacalisti, laici democratici, leader tribali locali, ed esponenti religiosi attivi politicamente – spesso letteralmente pronti ad ammazzarsi fra di loro – nondimeno sono riusciti ad ostacolare i piani dell’auto-proclamata Nuova Roma, la “superpotenza”, e lo “sceriffo globale” del pianeta Terra. E questo, anche in questa prima superficiale valutazione della storia, potrebbe in effetti dimostrarsi un evento storico.

Il Nuovo Secolo Americano è andato disperso

È difficile oggi anche solo ricordare la visione originaria di George W. Bush e dei suoi alti funzionari su come la conquista dell’Iraq si sarebbe rivelata come un altro tassello della sua Guerra Globale al Terrore. Dal loro punto di vista, l’invasione avrebbe portato certamente a una rapida vittoria, seguita dalla creazione di uno stato vassallo che avrebbe ospitato basi militari Usa “permanenti” di importanza cruciale, dalle quali Washington avrebbe potuto diffondere il proprio potere da un capo all’altro di quello che amavano definire il “Grande Medio Oriente”.

Inoltre, l’Iraq sarebbe diventato velocemente un paradiso del libero mercato, zeppo di petrolio privatizzato che affluiva tassi record sui mercati mondiali. Come tessere di un domino, la Siria e l’Iran, intimoriti da una tale prova di forza americana, avrebbero fatto lo stesso, o grazie a un’ulteriore spinta militare, o perché i loro regimi – e quelli di altri 60 paesi nel mondo – avrebbero compreso l’inutilità di resistere alle pretese di Washington. Alla fine, il “momento unipolare” dell’egemonia globale degli Usa, iniziato a seguito del collasso dell’Unione Sovietica, si sarebbe dilatato in un “Nuovo Secolo Americano” (insieme con una Pax Republicana generazionale in patria).

Questa prospettiva naturalmente è oggi sorpassata, in gran parte grazie all’inattesa e tenace resistenza di ogni tipo all'interno dell'Iraq. Questa resistenza era composta non solo dall’insorgenza sunnita della prima ora, che aveva bloccato quella che Donald Rumsfeld orgogliosamente aveva definito “la più grande forza militare sulla faccia della Terra”. Non è troppo avventato affermare che, a tutti i livelli della società, normalmente a prezzo di grandi sacrifici, il popolo iracheno ha vanificato i progetti imperiali di una superpotenza.

Prendiamo, per esempio, la miriade di modi attraverso cui i sunniti hanno resistito all’occupazione del loro Paese praticamente dal primo momento in cui l’intenzione dell’amministrazione Bush di smantellare completamente il regime ba’athista di Saddam Hussein è divenuta chiara. La città a maggioranza sunnita di Falluja, come la maggior parte delle altre comunità in tutto il Paese, formarono spontaneamente un nuovo governo basato sulle strutture locali religiose e tribali. Come molte di queste città, era scampata ai saccheggi successivi all’invasione incoraggiando la creazione di milizie locali con funzioni di polizia per difendere la comunità. Ironicamente, l’orgia dei saccheggi avvenuti a Baghdad è stata, almeno in parte, una conseguenza della presenza militare Usa, che ha ritardato la creazione di tali milizie lì. Alla fine, comunque, le milizie confessionali avevano portato un po’ di ordine persino a Baghdad.

A Falluja, così come altrove, queste stesse milizie presto divennero strumenti efficaci per ridurre e – per un certo periodo – eliminare, la presenza delle forze armate Usa. Per buona parte dell’anno, trovandosi a fronteggiare gli IED [ordigni esplosivi improvvisati] e le imboscate degli insorti, l’esercito Usa dichiarò Falluja zona interdetta, si ritirò in basi all’esterno della città, e interruppe le violente incursioni nei quartieri ostili. Questa ritirata avvenne anche in altri città grandi e piccole. L’assenza di pattuglie delle forze d’occupazione risparmiò a decine di migliaia di “sospetti insorti” la violenza spesso letale che accompagna l’invasione del proprio Paese, e ai loro parenti case distrutte e familiari imprigionati.

Persino la più riuscita delle avventure delle forze armate Usa in quel periodo, ovvero la seconda battaglia di Falluja, nel novembre 2004, potrebbe anche essere interpretata, da un punto di vista del tutto diverso, come un successo della resistenza. Dal momento che gli Stati Uniti dovettero ammassare per l’offensiva una notevole porzione delle proprie brigate da combattimento (persino trasferendo truppe britanniche dal sud per compiti logistici), la maggior parte delle altre città furono lasciate in pace. Molte di queste città sfruttarono questo momento di tregua per instaurare, o consolidare, varie forme di governi autonomi e milizie di difesa, rendendo tanto più difficile per le truppe di occupazione controllarle.

La stessa Falluja fu distrutta, con il 70% dei suoi edifici ridotti in macerie, e decine di migliaia di residenti divenuti profughi – un sacrificio estremo che ebbe come inaspettata conseguenza il temporaneo alleggerimento della pressione sulle altre città irachene. Infatti, la ferocia della resistenza nelle aree a maggioranza sunnita dell’Iraq costrinsero le forza armate americane ad aspettare quasi quattro anni prima di tentare uno sforzo paragonabile a quello del 2004 per pacificare la ben organizzata resistenza sadrista nelle aree a maggioranza sciita del Paese.

La rivolta dei lavoratori dell’industria petrolifera

Spostandoci su un terreno di scontro totalmente diverso, pensiamo ai sogni dell’amministrazione Bush di legare la produzione petrolifera irachena alle proprie ambizioni in politica estera. Gli obbiettivi immediati, dal punto di vista degli strateghi americani, erano quelli di raddoppiare la produzione rispetto ai livelli precedenti la guerra e dare inizio al processo di trasferimento del controllo della produzione dallo Stato alle compagnie petrolifere straniere. Tre importanti piani energetici finalizzati a soddisfare questi obbiettivi sono stati finora vanificati dalla resistenza di quasi ogni segmento della società irachena. I lavoratori petroliferi iracheni, dotati di una buona organizzazione, hanno giocato un ruolo determinante in questo, utilizzando la loro capacità di bloccare di fatto la produzione al fine di impedire il trasferimento – solo pochi mesi dopo che gli Usa avevano rovesciato il regime di Saddam Hussein – delle attività dello scalo petrolifero di Bassora alla KBR, allora una controllata della Halliburton.

Questa e altre azioni di disobbedienza respinsero l’iniziale attacco al sistema di produzione petrolifero iracheno controllato dal governo. Tali atti posero inoltre le basi per i tentativi riusciti di impedire che venissero attuate le politiche petrolifere ideate a Washington, che intendevano trasferire il controllo delle prospezioni e della produzione alle compagnie straniere. In questi tentativi, ai lavoratori dell’industria petrolifera sono stati affiancati dai gruppi della resistenza, sia sunniti che sciiti, dalle amministrazioni locali, e alla fine anche dal nuovo Parlamento nazionale.

Lo stesso tipo di resistenza si estese anche all’intero elenco di riforme neoliberiste sponsorizzate dalla Autorità provvisoria della Coalizione (CPA), sotto il controllo degli Usa. Dall’inizio dell’occupazione, per esempio, ci furono proteste contro la disoccupazione di massa causata dallo smantellamento dello Stato ba’athista e contro la chiusura delle fabbriche statali. La gran parte della resistenza armata nacque come risposta alla violenta repressione di queste proteste nel periodo iniziale dell'occupazione.

Ancora più significativi furono gli sforzi fatti a livello locale per rimettere a posto i servizi governativi che non erano più forniti dalla CPA. Gli stessi governi locali quasi autonomi, che avevano incoraggiato la creazione di milizie armate, tentarono di mantenere in piedi o di sostituire i programmi di assistenza sociale di tipo ba’athista, spesso rubando il petrolio destinato alle esportazioni e rivendendolo al mercato nero per pagare i servizi, e accaparrarsi le risorse locali come la produzione di elettricità. Il risultato sarebbe stato la creazione di vere e proprie città-stato ovunque le truppe Usa non erano presenti, portando all’impossibilità da parte dell’occupazione di “pacificare” qualsiasi porzione rilevante del Paese.

Il movimento sadrista e l’Esercito del Mahdi dell'esponente religioso Muqtada al Sadr è stato probabilmente quello che ha ottenuto più successi – e che si è opposto maggiormente all’occupazione – tra i partiti politici sciiti dotati di milizie, e che ha tentato sistematicamente di sviluppare delle istituzioni parastatali. Esse hanno provato a venire incontro, anche se in maniera minimale, ad alcuni dei bisogni primari delle loro comunità, fornendo cibo, alloggi, e facendo da punto di riferimento per una serie di altri servizi che in un primo tempo erano stati assicurati dal governo ba’athista, ma sconfessati poi dagli occupanti statunitensi e dal governo iracheno che gli Stati Uniti avevano installato quando avevano “trasferito” la sovranità nel giugno 2004.

Gli occupanti americani si aspettavano che i loro progetti per una rapida privatizzazione e trasformazione dell’economia statalista avrebbero in effetti generato resistenza, ma essi erano convinti che questa sarebbe diminuita rapidamente una volta che la nuova economia avesse ingranato. Al contrario, mentre l’occupazione procedeva stancamente, le richieste di un cambiamento crebbero di intensità, mentre il Paese, nel caos e prossimo al collasso, divenne una prova lampante del fallimento delle politiche del “libero mercato” dell’amministrazione Bush.

Un’agenda irachena per il ritiro

I funzionari che gestivano l’occupazione si sono scontrati con le stesse problematiche in ambito politico. L'obiettivo originario dell’amministrazione Bush era quello di creare un governo stabile e filo-Usa, spogliato di qualsiasi controllo economico e politico sulla società irachena, ma che fosse un bastione di resistenza contro la potenza regionale iraniana. Tale visione, come gli aspetti economici e militari ad essa correlati, è scomparsa da lungo tempo sotto il peso della resistenza irachena.

Prendiamo, per esempio, le due elezioni irachene che tanta risonanza hanno avuto, e sono state celebrate dai media americani dominanti come un risultato eccezionale dell’amministrazione Bush nell’altrimenti perennemente autocratico Medio Oriente. All’interno dell’Iraq, comunque, esse hanno avuto tutt’altro aspetto. E' importante ricordare che gli Stati Uniti inizialmente avevano pianificato di mantenere un controllo diretto – attraverso l’Autorità provvisoria della Coalizione – fino a quando il Paese non fosse stato completamente pacificato e le riforme economiche non fossero state portate a termine. Quando la CPA divenne un simbolo odiato di un’occupazione indesiderata, i piani cambiarono e si pensò di installare un governo iracheno nominato, sulla base di riunioni delle varie comunità a cui però avrebbero potuto accedere solo coloro che erano favorevoli all’occupazione. Le elezioni generali sarebbero state posticipate fino al momento in cui non fossero  stati garantiti vincitori completamente allineati ai piani di Bush. L’esplodere di proteste nelle aree a maggioranza sciita del Paese, proteste guidate dal Grande Ayatollah Ali al Sistani, costrinsero gli amministratori della CPA a passare a una strategia basata su elezioni dirette.

Le prime elezioni nel gennaio 2005 sancirono la vittoria di una consistente maggioranza parlamentare eletta su una piattaforma politica che chiedeva un calendario rigoroso per un completo ritiro delle forze armate Usa dal Paese. I rappresentanti americani decisero allora di fare pressione sul neo-eletto governo perché abbandonasse questa posizione.

Le seconde elezioni parlamentari nel dicembre 2005 ebbero uno svolgimento simile. Questa volta, i negoziati dietro le quinte riscossero solo un risultato parziale. Il neo-Primo Ministro, Nuri al Maliki, venne meno alle promesse fatte in campagna elettorale, appoggiando pubblicamente la continuazione della presenza militare americana, e questo causò delle crepe profonde nella coalizione di governo. Dopo un anno di negoziati poco produttivi, i 30 deputati sadristi presenti in parlamento, in origine un pezzo fondamentale della coalizione al potere guidata da Maliki, abbandonarono sia la coalizione che il governo in segno di protesta verso il rifiuto del Primo Ministro di fissare una data per la fine dell’occupazione. Successive richieste da parte del Parlamento che chiedevano una data certa per il ritiro furono ignorate tanto dal governo quanto dai funzionari statunitensi. Mentre Maliki rimase al suo posto senza una maggioranza parlamentare, la controversia contribuì a incrementare la popolarità dei sadristi e a diminuire l’appoggio verso gli altri partiti sciiti di governo.

Arrivati agli inizi del 2008, con l’approssimarsi delle elezioni provinciali a novembre, c’erano pochi dubbi che i sadristi sarebbero andati rapidamente al potere in molte province a maggioranza sciita, e, cosa più importante, a Bassora, la seconda città irachena e polo petrolifero del sud del Paese. Per scongiurare questa debacle, le truppe governative irachene, appoggiate e consigliate dalle forza armate Usa, tentarono di cacciare i sadristi dalla zone principali di Bassora. 

L’uso della forza militare per evitare una sconfitta elettorale ha rappresentato solo uno dei molti segnali che il governo iracheno avvertiva la pressione dell’opinione pubblica. Un altro è stato la riluttanza da parte del Primo Ministro Maliki a mantenere un atteggiamento ostile nei confronti dell'Iran. Malgrado i ferventi sforzi dell’amministrazione Bush, il suo governo ha promosso rapporti sociali, religiosi, ed economici tra gli iracheni e gli iraniani. Fra questi c'erano la facilitazione delle visite alle città sante di Karbala e Najaf per migliaia di pellegrini sciiti iraniani, così come il sostegno ad ampie transazioni petrolifere tra Bassora e le imprese iraniane, compresi i servizi di distribuzione e raffinazione, anticipando l’integrazione delle due economie energetiche. Le autorità Usa hanno posto il veto su un accordo militare formale fra i due Paesi, ma questo non ha fatto fare marcia indietro ai legami di cooperazione.

Il fiume della Resistenza

Con il procedere dell’occupazione, l’amministrazione Bush si è trovata a dover fronteggiare un’ondata di resistenza la cui intensità era inimmaginabile in precedenza, oltre ad essere sempre più lontana dagli obiettivi che si era prefissata. Oggi, città grandi e piccole in tutto il Paese sono generalmente sotto l’influenza delle milizie sciite e sunnite che, anche quando addestrate e pagate dagli occupanti, restano fortemente ostili alla presenza Usa. Inoltre, sebbene la disastrata economia irachena sia stata formalmente privatizzata, queste milizie locali – e i leader politici con cui si relazionano – continuano a chiedere a gran voce un ampio programma di ricostruzione e sviluppo economico finanziato dal governo.

La leadership politica formale irachena, rinchiusa nella blindatissima Green Zone di Baghdad controllata dagli Usa, pubblicamente è tuttora accondiscendente di fronte ai piani dell’amministrazione Bush di trasformare l’Iraq in un avamposto in Medio Oriente – che comporterebbero anche la presenza stabile di soldati americani in una serie di mega-basi nel cuore del Paese. Il resto della burocrazia governativa e il grosso della società civile sono sempre più insistenti nel chiedere una data ravvicinata per la partenza degli americani e una generale inversione delle politiche economiche introdotte per la prima volta con l’occupazione.

A Washington, tanto per i Democratici quanto per i Repubblicani, l’idea dell’avamposto resta al centro dell’agenda politica per l’Iraq in quest’anno di elezioni, insieme con un’economia neoliberista, che vede un settore petrolifero modernizzato in cui le multinazionali possano utilizzare le tecnologie più all'avanguardia per massimizzare la produzione di petrolio del Paese che al momento ristagna.

La resistenza irachena, di tutti i tipi e a tutti i livelli, ha comunque impedito che questa visione si concretizzasse. Grazie agli iracheni, la pomposa definizione di Guerra Globale al Terrore è stata trasformata in una guerra reale e senza speranza di cui non si scorge la fine.

Gli iracheni hanno però pagato un prezzo terribile per il fatto di aver resistito. L’invasione e le politiche economiche e sociali che l’hanno accompagnata hanno distrutto l’Iraq, lasciando la sua gente sostanzialmente in una situazione di indigenza. Durante i primi cinque anni di questa guerra senza fine, gli iracheni hanno sofferto più per la loro scelta di resistere che se avessero accettato e sopportato il predominio militare ed economico americano. Coscienti o meno che fossero, essi si sono sacrificati per arrestare l’avanzata militare ed economica di Washington nel Medio Oriente ricco di petrolio, sulla strada verso un nuovo Secolo Americano che ora non ci sarà mai.

È arrivato il momento che il resto del mondo si sobbarchi almeno una piccola parte del peso della resistenza. Proprio come le proteste mondiali che hanno preceduto la guerra sono state tra le fondamenta della resistenza irachena che era lì da venire, allo stesso modo ora altri, in particolar modo gli americani, dovrebbero opporsi proprio all’idea che l’Iraq possa mai trasformarsi nel quartier generale di una presenza permanente degli Stati Uniti - una presenza che, secondo le parole di colui che scrive i discorsi di Bush,  David Frum, “darebbe all’America un controllo così totale della regione da superare quello di qualsiasi altra potenza dal tempo degli Ottomani, o forse persino dei Romani”. Dopotutto, a differenza degli iracheni, i cittadini degli Stati Uniti sono in una posizione unica per seppellire per sempre questo sogno imperiale.


* Questo saggio è stato adattato dal capitolo conclusivo del libro di Michael Schwartz War Without End: The Iraq Debacle in Context, che sarà pubblicato prossimamente.


Michael Schwartz, Professore di Sociologia presso la Stony Brook University, ha scritto molto sulla protesta popolare e l’insorgenza. Le sue analisi sull’avventura americana in Iraq sono apparse regolarmente su Tomdispatch.com, così come su Asia Times, Mother Jones, e Contexts. Il suo prossimo libro scritto per Tomdispatch, War Without End: The Iraq Debacle in Context (Haymarket), analizza come la geopolitica militarizzata del petrolio ha portato gli Usa a smantellare lo Stato e l’economia iracheni alimentando una guerra civile a carattere confessionale.


(Traduzione di Palmiro Notizia per Osservatorio Iraq)

Articolo originale