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La Palestina come il Sudafrica dell'apartheid?

di Mario Braconi - 21/07/2008

 
 

A rompere il tabù nazionale era stato il primo ministro israeliano, il quale, in un’intervista rilasciata al quotidiano Haaretz a fine 2007, si era detto convinto che il possibile fallimento della “soluzione dei due stati” avrebbe potuto scatenare iniziative di lotta finalizzate al riconoscimento dell’uguaglianza di diritti di voto per palestinesi e israeliani sul tipo di quelle che in Sud Africa avevano messo in crisi il regime dell’apartheid: in quell’occasione Ehud Olmert ha riconosciuto che nemmeno gli americani riuscirebbero a mantenere il proprio appoggio ad Israele se esso si dimostrasse “incapace di garantire democrazia e parità di diritti a tutte le persone che vi risiedono”. Se Olmert si è spinto paragonare lo stato che rappresenta al Sud Africa dell’apartheid, cioè ad usare un argomento che in Israele è visto come il fumo negli occhi, lo ha fatto certamente per provocare lo choc necessario a coagulare consenso attorno al proseguimento dei negoziati israelo-palestinesi.

Eppure l’odioso accostamento ritorna, sia pure veicolato con toni pacati e ragionevoli, nelle dichiarazioni dei membri di una ONG sudafricana (la South African Human Rights Delegation, SAHRD) impegnata in questi giorni in una missione in Israele e nei Territori occupati: un itinerario che ha toccato diversi punti di interesse storico e politico (il muro che separa palestinesi ed israeliani, il museo dell’Olocausto, la città di Hebron) e che prevede un’agenda di incontri con ONG pacifiste palestinesi o israeliane (Peace Now, Combatants for Peace) nonché con il locale ufficio delle Nazioni Unite per il coordinamento delle questioni umanitarie (OCHA).

Tra gli inviati sudafricani Nozizwe Madlala-Routledge e Fatima Hassan. Nozizwe Madlala-Routledge, quacchera comunista, infermiera e membro dell’African National Congress ai tempi della clandestinità, viene chiamata da Mbeki a fare il viceministro della Sanità nel suo governo: in questo ruolo entra immediatamente in conflitto con il suo capo, Manto Tshabalala-Msimang, detta “Manto dell’aglio”, per le sue singolari posizioni sull’AIDS: in un paese dove ogni giorno muoiono di questa malattia 800 persone e ne vengono infettate altre 1.000, “Manto dell’aglio” era solita dichiarare senza alcun imbarazzo che una dieta a base di aglio, barbabietole e patate africane è assai più efficace dei farmaci retrovirali. La carriera governativa di Madlala-Routledge finisce quando a fine 2006 accompagna un giornalista in un ospedale rurale con tassi di mortalità infantile particolarmente elevati, definendo le sue condizioni igienico-sanitarie “un’emergenza nazionale”. Anche nel nuovo Sudafrica, purtroppo, il potere si dimostra allergico alla verità.

Fatima Hassan, nata nel 1971, come avvocato “anziano” dell’AIDS Law Project (ALP) coordina le azioni legali contro il governo e le multinazionali del farmaco al fine di garantire la non-discriminazione e l’accesso a cure accessibili e sostenibili per le persone sieropositive o malate di AIDS sudafricane.

Benché in nessun comunicato stampa ufficiale del gruppo vi sia un esplicito paragone tra la situazione nei Territori occupati e quella del Sudafrica dell’epoca razzista, e nonostante non siano mancate parole distensive da parte di diversi suoi autorevoli membri, i commenti raccolti dal quotidiano britannico The Independent lasciano pensare. Ad esempio, riferendosi ai dati registrati nella sua visita alla città di Hebron, dove 800 coloni hanno provocato la chiusura di circa 3.000 tra attività commerciali ed abitazioni palestinesi, Nozizwe Madlala-Routledge ha affermato: “perfino con il sistema dei permessi, perfino con i limiti agli spostamenti impostici dal governo in Sudafrica [ai tempi dell’apartheid] nemmeno noi abbiamo subito le limitazioni alla libera circolazione che vedo qui”.

Sulla stessa lunghezza d’onda Fatima Hassan: “Il fatto che vi siano strade separate [per israeliani e palestinesi], targhe diverse a seconda della nazionalità di chi le possiede, lo scandalo del dover esibire un permesso ogni volta che un soldato lo chieda, e di aspettare in lunghe code sotto il sole cocente per poter entrare nella propria città: tutto questo, credo, è peggio di quello che abbiamo provato durante l’apartheid”. Non molto diverso, quindi, da quello che provano i palestinesi.