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Le prove generali israeliane dell'attacco all'Iran

di Ilvio Pannullo - 21/07/2008

 
 

Il nome in codice era “Glorious Spartan 08”, il teatro operativo era il tratto di mare a sud est dell’isola di Creta. È in questo splendido angolo di Mediterraneo che l’aviazione israeliana ha simulato - dal 28 maggio al 18 giugno di quest’anno - l’attacco all’Iran. Oltre cento caccia F16 e F15, con l’ausilio di aerei per il rifornimento in volo, hanno condotto una missione di 1.500 chilometri; la stessa distanza che divide lo Stato ebraico dall’impianto nucleare di Natanz, in Iran. I jet hanno sganciato bombe, condotto raid contro i radar e attuato manovre evasive. In loro supporto anche velivoli per la guerra elettronica ed elicotteri che trasportavano i commandos dell’unità speciale 5101, conosciuta come Shaldag, e gli incursori della Sayeret. Gli israeliani, di solito estremamente riservati su quello che combinano, hanno passato al New York Times le informazioni su “Spartan 08” accostando le manovre a un possibile blitz contro l’Iran. E hanno spiegato, con l’abituale pragmatismo, quali fossero gli obiettivi. Il primo - tecnico - era quello di esercitarsi in un raid a lungo raggio. Il secondo - politico - era ribadire agli Stati Uniti e ai governi occidentali che l’opzione militare non è poi così lontana. Se i ripetuti tentativi negoziali falliranno, non resterà che la forza. E gli israeliani sono pronti.

Le fughe di notizie, i “piani” rivelati dai giornali, gli scenari dei think thank, fanno parte di una accurata regia per preparare le opinioni pubbliche. Il punto, quindi, non è più “se” ma piuttosto “quando” ci sarà l’assalto. Quello che in occidente si teme, in Israele è infatti già realtà. Vuoi per ragioni ideologiche e religiose, vuoi per motivi di vicinanza geografica il tanto paventato attacco all’Iran, oramai, è molto più che una semplice minaccia, molto più di un semplice strumento per mobilitare le diplomazie e velocizzare le trattative.

Preoccupato per questi sviluppi, Mohammed El Baradei, il direttore dell’Aiea, l’ente per l’energia atomica dell’Onu, ha più volte ribadito il suo dissenso arrivando ad affermare che si dimetterà nel caso di un attacco contro l’Iran: “Secondo me, è la peggiore opzione possibile. Trasformerebbe la regione in una palla di fuoco... Se l’Iran non sta già costruendo armi nucleari, lancerà un corso accelerato con la benedizione di tutti gli iraniani”. Persino il nostro splendido Ministro degli Esteri Frattini, nonostante il suo filo atlantismo, ha dichiarato che un’azione ostile diretta contro il regime khomeinista sarebbe “un disastro”. Non si può non dargli ragione.

Tutto questo dopo che fonti dell’intelligence USA, già nel corso del 2007, lasciarono trapelare notizie che confermavano il pieno attivismo dello Stato Maggiore americano nel progettare un attacco all’Iran. Un progetto che appariva, però, del tutto innovativo. Dopo l’Afghanistan e dopo l’Iraq, infatti, non è più immaginabile l’apertura di un terzo fronte. Le due guerre che sembravano vinte prima ancora di essere combattute, viste le proporzioni delle forze in campo, ormai perdurano da più tempo del secondo conflitto mondiale. Mancano gli uomini, quindi, ma questa guerra si deve comunque fare.

Ed ecco il piano: 1600 siti, sia militari che civili, già individuati da bombardare tramite l’utilizzo degli incrociatori al largo del golfo Persico. Il tutto senza dimenticare il sicuro appoggio israeliano. Si tratta di ponti, raffinerie, industrie oltre, ovviamente, alle centrali nucleari. In questo contesto gli iraniani non rimangono certo a guardare.

Agitando le sciabole agli israeliani hanno, infatti, anche voluto accentuare le inquietudini degli ayatollah, ormai da tempo sotto una forte pressione psicologica e diplomatica. Ogni giorno Teheran dovrà chiedersi se la formazione di jet in avvicinamento sono l’ennesima simulazione o il colpo di maglio. Se l’inasprirsi dei toni e il rallentamento delle trattative diplomatiche poteva, facendo lievitare il prezzo del greggio, essere per loro addirittura un vantaggio; ad oggi, gli iraniani temono seriamente che ai loro confini si stia preparando qualcosa.

Se l’ayatollah Ahmad Khatami minaccia conseguenze “terribili”, il presidente Ahmadinejad, dopo aver già acquistato tecnologia militare russa, ha dato modo d’intendere di voler acquistare le nuove batterie antiaeree S-400. Secondo quanto sostenuto dagli stessi produttori, una volta operativa, la nuova batteria antiaerea dovrebbe essere in grado di abbattere veivoli, missili cruise e missili balistici di media e corta distanza in un raggio di 400 chilometri. Una prospettiva questa che fa rabbrividire i militari israeliani, tanto da far pensare ad un attacco preventivo non appena avuta la notizia dell’acquisto.

Quello che però è necessario sottolineare è che, se questa guerra si farà, l’Europa vi verrà coinvolta con o senza la sua volontà. L’Iran non è l’Iraq: è un paese con più di 70 milioni di persone e può contare su di una economia forte, oltre ad avere riserve infinite di petrolio. Se attaccato, l’Iran risponderà e risponderà con tutte le sue forze. Questo significherà che tutte le petroliere nel Golfo Persico verranno abbattute e gli oleodotti chiusi. Tempo massimo due mesi e l’Europa si troverà senza petrolio. Uno scenario agghiacciante.