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La contestazione (a prescindere) per esistere. Che brutta fine...

di Pierluigi Battista - 21/07/2008

 

 

C’è qualcosa di grottesco e sconfortante nello psicodramma inscenato in questi giorni a San Giuliano Terme, alle porte di Pisa, per protestare contro la presentazione del libro di Antonio Carioti dedicato agli Orfani di Salò. Urla, minacce, cortei, sonore contestazioni rivolte persino all’editore Mursia. Addirittura una giunta messa in crisi dalla sinistra massimalista a causa della saggia decisione del Partito democratico locale di non negare una sala consiliare alla discussione del libro. La solita sceneggiata un po’ truce promossa da chi è allergico alla libera discussione culturale. Stavolta con un’aggravante, però: che i manifestanti non avevano la benché minima idea di che diavolo ci fosse scritto nelle pagine di Carioti. Una contestazione a prescindere dal contenuto. Solo un’occhiata al titolo, e poi il riflesso pavloviano, l’istinto incoercibile alla mobilitazione purchessia, la ripetizione lugubre del sempre uguale, gli stessi slogan appresi nel corso di una vita spesa senza requie nelle piazze della protesta, l’attaccamento morboso a una liturgia antica e collaudata.

 

Grottesco, appunto. Sconfortante. E’ stata sufficiente una parola, «Salò», per sospettare una malvagia intenzione apologetica del fascismo da parte dell’autore del libro. Come per le vittime di un sortilegio, prigioniere di un’ipnosi che travolge e cancella ogni parvenza di ragionevolezza, il suono demoniaco racchiuso in quella parola, «Salò», ha risvegliato lo spirito esorcistico di chi conosce solo due reazioni quando sembra manifestarsi la presenza insidiosa del Maligno: la scomunica e l’anatema. Nel libro di Carioti, è ovvio, non si tesse l’apologia di Salò ma si descrive, con un apparato documentario frutto di un impegnativo studio sull’argomento, l’atmosfera esistenziale e culturale che durante i primi anni dell’Italia democratica attirò nel partito dei fascisti sconfitti tanti giovani affascinati dal richiamo romantico di una causa perduta. Ma cosa poteva importare agli esorcisti della protesta? Bastava «Salò» per denunciare il sacrilegio. Non occorrevano altre fastidiose prove per biasimare in coro la «provocazione», l’«oltraggio» alla santa memoria antifascista. Grottesco. Sconfortante.

 

E deprimente. Deprimente perché questi riti risuonano oramai come fiacca esibizione epigonica di un’era che si è (fortunatamente) spenta. E sembrano richiamare, più che la febbre di un movimento comunque radicato nella coscienza diffusa di almeno una parte degli italiani (come avveniva nel passato), la disperata ostinazione di chi crede di poter accedere così, attraverso il fischio e l’urlo, a una visibilità pubblica con il passar del tempo sempre più angusta. Fischiare per esserci, o esserci almeno, in mancanza d’altro, per mezzo di un fischio. Un cartello, uno striscione, l’interruzione di un discorso odi una presentazione editoriale come antidoto alla marginalità e all’invisibilità: e non importa se il bersaglio sia mediaticamente immenso, come la visita del Papa nell’ateneo romano, o meno appariscente, come un libro dedicato agli orfani di Salò. Per scoprire, lezione amara per i professionisti della contestazione, di essere figli, più che di un’eroica età dei furori ideologici, della tanto vituperata società dello spettacolo. Una brutta fine.