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Vietnam, storia di un insuccesso americano. La perfetta incarnazione del modo d'agire statunitense

di Luigi Carlo Schiavone - 21/07/2008

 

Vietnam, storia di un insuccesso americano. La perfetta incarnazione del modo d'agire statunitense



«L’immagine della più grande superpotenza del mondo che uccide o ferisce gravemente un migliaio di civili alla settimana, mentre cerca di sottomettere una piccola nazione arretrata alla base di una questione i cui meriti sono altamente controversi, non è delle più belle». Il quadro fornitoci dalle parole di Robert S. McNamara, segretario alla Difesa statunitense nel corso delle presidenze Kennedy e Johnson, può considerarsi un valido sunto dell’operato statunitense in Indocina e, allo stesso tempo, una giusta analisi dell’origine del discredito che né derivò in campo internazionale per coloro che in più di un’occasione si sono innalzati a “difensori del mondo libero”.
Ma quali furono i reali motivi che spinsero gli Stati Uniti ad adoprarsi in maniera così intensa per evitare che l’intero Vietnam si unificasse sotto il vessillo comunista? La risposta a questo interrogativo non è delle più facili anche perché analizzando attentamente le diverse presidenze che si susseguirono, in quegli anni, alla guida degli Stati Uniti ci si può facilmente rendere conto che varie furono le motivazioni che spinsero gli inquilini della Casa Bianca ad non allentare gli sforzi in quella angusta regione del mondo.
Sostituitisi ai francesi, pesantemente sconfitti a Dien Bien Phu nel 1954, il primo presidente americano ad assumere un’iniziativa nei confronti del Vietnam fu Dwight Eisenhower che, nel 1955, consapevole che il Congresso non gli avrebbe avallato nessuna forma di ingerenza negli affari di una nazione nel frattempo divisa in due Stati dagli accordi di Ginevra del 1954, costituì la Missione Militare di Saigon affidandone il comando al colonnello Edward Lansdale col compito di “intraprendere operazioni paramilitari e di condurre una guerra politico-psicologica” al fine di evitare un espansione comunista anche nel Sud del Vietnam. Nel corso della presidenza Eisenhower, infatti, veniva ancora ritenuta valida la tesi sviluppata dai consiglieri di sicurezza nazionale statunitensi che consideravano il blocco comunista come un “monolite” fondato sull’asse sino-sovietico. Un’ idea questa, sviluppata al tempo di Stalin, che non teneva conto, però, delle diverse crepe che andavano già maturando nei rapporti che intercorrevano fra gli Stati a regime comunista e che diventeranno lampanti nel corso della presidenza Nixon.
Nel 1960 ad Eisenhower successe il democratico John Fitzgerald Kennedy. La consegna che il suo predecessore gli affidò era di evitare che il Laos cadesse in mani comuniste perché il verificarsi di un tale evento avrebbe accelerato – secondo l’opinione dell’establishment di Eisenhower - la caduta sotto lo stesso vessillo del Vietnam del Sud; Kennedy, scottato dal fallimento dell’esperimento dello sbarco alla Baia dei Porci dell’aprile 1961, però, decise di perseguire l’obiettivo di garantire la democraticità del Laos seguendo la sola strada della diplomazia ed ottenendo come risultato la caduta del suddetto Stato nell’orbita comunista. Sotto la presidenza Kennedy, tuttavia, si verificò sia la crescita del numero di consiglieri militari “prestati” al Vietnam del Sud, che raggiunse, nel 1965, la cifra delle 23.000 unità, che il costante “foraggiamento” da parte della Cia delle Forze Speciali Vietnamite che, divenute una sorta di esercito privato per Nhu, il fratello del dittatore Ngo Din Diem, furono il fulcro su cui si basò il colpo di stato che portò, il 1° novembre del 1963, al rovesciamento del dittatore. Dopo la morte di Ngo Din Diem gli Stati Uniti non furono più in grado di “favorire” l’insediamento di un governo stabile in Vietnam del Sud in grado di sostenere le proprie strategie per evitare l’avanzamento delle truppe di Ho Chi Minh e contenere l’azione dei vietcong.
Dopo l’assassinio di Kennedy, il 23 novembre 1963, la “patata bollente” passò nelle mani del presidente Lyndon Johnson. E fu proprio sotto costui, che gli americani considerano come “l’usurpatore” (in quanto reo di aver prestato giuramento da presidente nell’aereo che trasportava la salma di Kennedy da Dallas a Washington al fianco della moglie Jacqueline col vestito ancora macchiato del suo sangue) che la guerra del Vietnam assunse per gli americani i connotati del disastro.
Fautore della Tonkin resolution, varata in seguito agli “incidenti” dell’agosto del 1964 nella Baia di Tonchino dettati da quella “strategia della provocazione” elaborata nel 1963 come un programma atto a dar vita a “tentativi deliberati di indurre la Repubblica Democratica del Vietnam a prendere provvedimenti cui gli Stati Uniti avrebbero reagito con campagne aeree sistematiche”, la suddetta risoluzione rappresentava, di fatto, un mandato in bianco che autorizzava il Presidente a impiegare, come meglio credeva, le forze armate per evitare l’affermazione del comunismo in Vietnam. Una scelta questa che si dimostrò fondamentale per Johnson che voleva evitare, ad ogni costo, di apparire “soft on Vietnam” e che lo porterà fino alla drastica decisione che diede vita all’escalation militare americana nel nord Vietnam.
Vittorioso nelle elezioni presidenziali del 1964 contro il senatore dell’estrema destra repubblicana Barry Goldwater, Johnson s’apprestò, infatti, ad attuare una serie di manovre che avrebbero portato all’ “americanizzazione” della guerra in Vietnam; nonostante egli abbia in più di un’occasione ribadito che “non avrebbe inviato ragazzi americani a fare quello che dovevano fare i ragazzi asiatici”, fu proprio nel corso del suo mandato che si verificò l’incremento esponenziale delle forze americane di stanza nel Vietnam. Profondamente terrorizzato della “cospirazione comunista” che aleggiava sul Sud del Vietnam, Johnson giurò che avrebbe fatto di tutto per evitare che l’intero Vietnam cadesse nelle mani del fantomatico asse sino-sovietico. Votato alla missione di non rendere, con l’inazione, l’Oceano Pacifico un “oceano rosso” ed deciso ad eliminare Ho Chi Minh, considerato un “nuovo Hitler”, Lindon Johnson, approfittando dell’attacco di Pleiku del 7 febbraio 1965 avvenuto ad opera dei vietcong e che provocò la morte di otto americani e un centinaio di feriti, diede vita a quella escalation che le “colombe”, ossia la parte dell’opinione pubblica americana che si opponeva alla guerra, temeva da tempo. Dapprima ci fu un intenso attacco aereo sul Nord del Vietnam mentre, il 9 marzo del 1965, sbarcavano a Da Nang, con funzione “difensiva”, come ebbe a dire l’allora segretario alla difesa McNamara, i primi due battaglioni di marines. Il velo d’ipocrisia, tuttavia, cadde presto e a giugno gli americani erano già in prima linea con l’esercito sudvietnamita. Nel frattempo nell’isola di Guam veniva creata un’apposita base per i B-52 che avevano il compito di distruggere, mediante bombardamenti mirati, i rifugi dei vietcong nel delta del Mekong. A luglio, inoltre, venne annunciato l’invio in Vietnam di altri 158.000 marines a cui si sarebbero aggiunte altre 100.000 unità nel 1966; una situazione questa, che vide Johnson godere, nella prima parte dell’escalation, dell’appoggio di buona parte dell’opinione pubblica americana che andò via via regredendo proporzionalmente all’aumentare del numero dei marines morti in Vietnam e dei fallimentari risultati della strategia “seek and destroy”.
Dalla fine del 1965 le proteste contro la guerra in Vietnam aumentarono vistosamente; gli scontri, come i sit-in finalizzati alla distruzione della cartoline di precetto per il Vietnam, erano all’ordine del giorno nei campus universitari; le “colombe” che chiedevano il ritiro senza alcuna condizione dal Vietnam continuavano a portare i loro attacchi contro i “falchi” che, al contrario, sostenevano prese di posizioni più drastiche contro il Nord del Vietnam come quelle del generale Curtis Le May, comandante dello Strategic Air Command, che proponeva di bombardare il Nord del Vietnam fino a farlo tornare “alle condizioni dell’età della pietra”. Questo clima sarà ulteriormente scosso dall’“offensiva del Tet” del gennaio 1968. In quest’occasione, infatti, 80.000 guerriglieri vietcong, approfittando della festività, attaccarono e tennero sotto scacco, per diverse settimane, oltre trenta “capitali provinciali” inclusa Huè, ed riuscirono ad occupare, per parecchie ore, perfino parte del comprensorio della stessa ambasciata americana a Saigon. Questo evento, sebbene si fosse risolto in breve tempo con il ripristino del controllo militare americano segnò, di fatto, la fine dell’avventura presidenziale di Johnson che, abbandonato dall’opinione pubblica americana scossa dal contraccolpo psicologico scaturito dall’offensiva del Tet, decise di annunciare, il 31 marzo 1968, la sua volontà di non ricandidarsi alla guida della nazione. L’escalation voluta da Johnson risultò un vero fallimento; alla fine del 1968 il numero dei marines impiegati nel Sud del Vietnam superava le 600.000 unità e, nonostante il forte dispiegamento di forze, il governo Usa non riuscì in quegli anni a raggiungere nessuno degli obiettivi prefissati. Oltre all’ampio costo in termini di vite umane va aggiunto che Johnson nel corso della sua presidenza destinò alle operazioni in Vietnam più di 107 miliardi di dollari. Un dispiegamento economico questo che fu di fatto sottratto al suo programma di riforme sociali denominato “Great Society” che il Presidente aveva varato nella falsariga del New Deal roosveltiano nella speranza di raggiungere la stessa fama che colui che egli definiva come suo maestro aveva tratto dalla propria riforma. Purtroppo per Johnson (e per i vietnamiti), però, tale aspirazione non si realizzò e il suo nome sarà per sempre legato al fallimento dell’epopea vietnamita.
Le elezioni del 1968 consacrarono come successore di Johnson alla guida degli Stati Uniti, Richard M. Nixon, repubblicano, che nel 1960 aveva perso per soli 118.000 voti la presidenza in favore di John F. Kennedy. Campione di quella che molti libri di storia definiscono la “maggioranza silenziosa”, composta da quel settore della società civile statunitense stufa degli eccessi provocati dallo sviluppo della “controcultura” degli anni ’60, Nixon venne investito del compito di trovare una via d’uscita “onorevole” dal pantano intricato del Vietnam.
Ostile al presupposto “eccezionalista”, che aveva per molto tempo condizionato la visione in politica estera del partito repubblicano e che fu ripreso da Reagan negli anni ’80, Richard Nixon era votato a ridimensionare l’impegno statunitense a livello internazionale. Gli Stati Uniti dovevano rendersi conto - secondo Nixon - di essere un paese singolo con risorse limitate il cui obiettivo era di salvaguardare i propri interessi nazionali e di mantenere solida la balance of power. La pace poteva essere mantenuta, infatti, solo se l‘equilibrio tra le cinque grandi potenze che reggevano il mondo – Usa, Urss, Europa, Cina, Giappone – fosse rimasto stabile. Dal punto di vista dell’ “affaire Vietnam” i negoziati tra le parti ripresero a Parigi all’inizio del 1969. Dopo diversi tentativi atti a ridimensionare l’irremovibilità dimostrata dalla Repubblica di Ho Chi Minh nel chiedere un’immediata capitolazione americana, Nixon decise di rispondere con la forza; nel marzo del 1969, infatti, aerei americani operarono massicci bombardamenti contro i “santuari” comunisti in Cambogia e nell’aprile del 1970, sperando di bloccare i rifornimenti ai vietcong, iniziarono le operazioni militari terrestri in questo territorio, provocando l’esplosione di nuove proteste negli Usa. Mentre il presidente Nixon, quindi, cercava il modo di porre “onorevolmente” fine alla guerra vietnamita vennero pubblicati, dal New York Times nel giugno del 1961, i “Pentagon Papers”. Questi ultimi altri non erano altro che dei documenti, suddivisi in 47 volumi, voluti da Robert S. McNamara, in cui si spiegava dettagliatamente il ruolo svolto dagli Stati Uniti in Indocina dalla fine della Seconda Guerra Mondiale al maggio del 1968. Il clamore che tali atti suscitarono nell’opinione pubblica americana fu molto ampio, soprattutto, perché diventava chiaro agli occhi degli americani l’inganno che per anni la loro amministrazione aveva perpetrato a loro danno. L’insieme delle mutevoli motivazioni che scandivano le fasi di un conflitto che si perpetrava pur non garantendo, in caso di vittoria, alcun genere di vantaggio effettivo agli Stati Uniti, le menzogne che si susseguirono soprattutto nel corso della presidenza Johnson per giustificare l’escalation militare, lasciarono un profondo segno nella società civile americana che riuscì a buttarselo alle spalle solo grazie al clamore suscitato dallo scandalo del Watergate.
In questo clima, intanto, Nixon lanciava la sua “diplomazia triangolare”. Approfittando della ormai assodata non monoliticità del blocco comunista e delle crepe, sempre più ampie, incrementate dagli incidenti sino-sovietici nella primavera del 1969 lungo la frontiera degli Ussuri in Siberia, Nixon e il suo consigliere per la sicurezza nazionale Henry Kissinger decisero che era arrivata l’ora per gli Stati Uniti di allacciare rapporti più forti con le singole potenze comuniste di quelli che intercorrevano fra queste due. Entrambi, infatti, erano consapevoli che, per risolvere definitivamente il problema del Vietnam, era necessario garantirsi la neutralità della Russia e della Cina. Concluso un accordo con la Cina, durante il viaggio a Shangai nel febbraio del 1972, e con l’URSS, nel maggio del 1972, il terreno poteva ormai ritenersi libero da ogni forma di ingombro. Dopo l’ennesimo blocco delle trattative di Parigi, infatti, Nixon ordinò, al fine di piegare la resistenza vietnamita, quello che è passato alla storia come il tristemente noto “bombardamento di Natale”. Un’operazione massiccia che interessò le due maggiori città del Nord del Vietnam, Hanoi e Haiphong, e che si completò con il minamento dei porti vietnamiti. Per il Vietnam, abbandonato dal punto di vista diplomatico da Urss e Cina, non restava altro che tornare al tavolo delle trattative e siglare, a Parigi il 31 gennaio 1973, un accordo per il cessate il fuoco. Gli americani, che sarebbero andati via il 29 marzo 1973, aggiunsero come postilla la promessa di ritornare e “reagire con la massima forza” in qualsiasi momento la Repubblica Democratica del Vietnam del Nord avesse minacciato l’esistenza della Repubblica del Vietnam del Sud. Ma tale giuramento non fu rispettato.
Travolto dallo scandalo del Watergate, scoppiato nel giugno del 1972, e costretto, il 9 agosto 1974, a dare le dimissioni per evitare l’impeachment, Nixon si vide costretto a lasciare la presidenza a Gerald Ford sotto la quale l’epopea vietnamita si concluderà definitivamente.
Alla ripresa degli attacchi da parte dei nordvietnamiti, che avevano approfittato del clima di instabilità politica creato negli Stati Uniti dal Watergate, la “reazione con massima forza” non ci fu. In forza al War Powers Act, varato dal Congresso nell’autunno del 1973 e che obbligava, di fatto, il Presidente a consultarsi col Congresso ogni qualvolta si dovesse decidere l’impiego di truppe americane all’estero, Ford si vide negare da parte di questa istituzione la disponibilità di stanziare nuove truppe e rifornimenti da inviare in soccorso del governo di Saigon a cui s’aggiunse, inoltre, un drastico ridimensionamento di quelli già concessi. Il 21 aprile 1975, con l’ingresso delle truppe nord vietnamite a Saigon, si concludeva definitivamente l’epopea della guerra in Vietnam la cui ultima immagine ci è data dalla fuga ignominiosa del personale diplomatico americano che, stipato negli elicotteri sulle terrazze delle ambasciate, prese la strada di casa abbandonando il paese ed aprendo le porte alla riunificazione dello stato vietnamita.
Figlia del “delirio di onnipotenza” che ha accompagnato gli Stati Uniti dalla fine della Seconda Guerra Mondiale, la guerra del Vietnam può essere considerato, non a torto, uno degli errori più madornali della recente storia mondiale. Voluta per far sì che l’immagine costruita dagli Usa di più grande superpotenza mondiale sorta dal dopoguerra non svanisse e fornendo invece la perfetta incarnazione dello Stato di “pietoso, indifeso gigante”, come furono invece definiti da Nixon, la guerra del Vietnam, con tutto il retaggio di avvenimenti che l’hanno accompagnata, traccia un solco che tutt’ora sembra invalicabile per gli statunitensi. Perpetrata nel corso degli anni dai diversi “master of puppets” che si sono succeduti alla guida della Casa Bianca, la guerra del Vietnam rappresenta la perfetta incarnazione del modo d’agire statunitense che oltre a non curarsi degli interessi e delle volontà di popoli sovrani non manca di mettere a repentaglio la vita dei propri figli al solo scopo di mantenere intatta la propria reputazione. Un modello quello dell’epopea vietnamita, che questa nazione paragonabile ad una novella Medea “abilmente” guidata dai suoi governanti non accenna ad abbandonare; oggi al “complotto comunista” da debellare è andato sostituendosi un integralismo islamico da sconfiggere a tutti costi. Ottimo paravento che permette, a suon di bombe, di ingerirsi nella vita di Stati sovrani consolidando la propria egemonia in nome della democrazia. Ma la democrazia, come qualsiasi altro processo politico, è un risultato a cui i singoli Stati possono giungere per loro legittima e autonoma determinazione. Un processo che i “liberatori” di sempre sembrano non aver mai appreso, continuando a preferire un’idea di democrazia che, dettata da interessi d’altro genere, risulta sorda e cieca, incapace di ascoltare e vedere la disperazione di quelle famiglie che, da ambo i lati della barricata, non vedranno tornare mai più i figli che ad essa sono stati sacrificati.