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Superuomo o superfilologo? La critica di Soloviev allo Zarathustra nietzschiano

di Francesco Lamendola - 22/07/2008

 

Tra i maestri della tarda modernità, Nietzsche è stato senza dubbio uno dei maggiori; e il suo Zarathustra è stato, e per molti continua ad essere, il simbolo affascinante e suggestivo di tutti quei valori, o, se si preferisce, di quella trasvaltuazione di tutti i valori, che è stata il lascito maggiore del filosofo tedesco alla posterità.

Senonché, al di là degli indubbi - e notevolissimi - pregi letterari dello Zarathustra, che occupa un posto di primo piano nella storia letteraria della Germania moderna, è lecito e doveroso chiedersi quanto di reale, di compiuto, di concreto; o, almeno, quanto di verosimile e di possibile, vi sia nella figura di Zarathustra delineata da Nietzsche, quale nuovo Mosé della morte di Dio e della fedeltà alla terra, dell'eterno ritorno dell'uguale e della volontà di potenza. Oppure si tratta di un artificio letterario dietro il quale vi è, sostanzialmente, il vuoto; un vuoto ripetitore di eleganti aforismi e di discorsi ben torniti; e, magari, un chiacchierone con una vena kitsch, sia pure quasi impercettibile (a cominciare dal roboante nome di Zarathustra: perché non Otto o, almeno, Zoroastro?), che non ha proprio nulla da annunziare, se non massime astratte e generiche, che nessun superuomo reale sarà mai in gradi di incarnare, neppure lontanamente?

Succede ai filosofi-poeti: lo splendore della forma letteraria copre e nasconde, talvolta, la povertà o l'assenza dei contenuti del pensiero; e gli animi esaltati, leggendoli, non riescono a distinguere e separare l'uno dall'altra, sicché, stregati dalla bellezza formale, prendono per oro colato anche la parte speculativa, senza avere il coraggio - o l'onestà intellettuale - di guardarla ben dritta per ciò che essa, effettivamente, è: una gran bolla d'aria, dai colori seducenti, ma vuota di contenuto, di ragionamenti, di struttura logica.

Questo, peraltro, non significa che un filosofo non possa essere anche un poeta. Valga per tutti il caso di Platone, che in alcuni suoi dialoghi - nel Fedro, ad esempio - ha toccato i vertici della poesia insieme a quelli della filosofia; o quello di George Berkeley, che nell'Alcifrone e nei Dialoghi di Hylas e Philonous ha mostrato come si possa tenere in mano la penna da eccellente scrittore, oltre che da filosofo originale. D'altra parte, è chiaro che la maestria letteraria non può offrire un alibi alle carenze del pensiero, altrimenti si avrebbe un barare al gioco, che può far bene - forse - alla poesia, ma non alla filosofia.

 

Il problema, per quanto riguarda lo Zarathustra, non è nuovo e se lo erano già posto alcuni contemporanei di Nietzsche. Uno di essi, nietzschiano della prima ora, poi distaccatosi dal maestro, Ferdinand Tönnies, fu tra i primi ad evidenziare le inconciliabili aporie esistenti fra il Nietzsche filosofo e il Netzsche artista; e come, proprio a partire dallo Zarathustra, il secondo abbia preso il sopravvento sul primo, a detrimento del rigore logico ma, al tempo steso, suscitando uno stuolo di «Coribanti», divulgatori tanto esaltati delle sue dottrine, quanto poco seri.

In particolare, per Tönnies, Nietzsche era un pensatore che - spirito essenzialmente di artista - non aveva saputo affrontare i concreti problemi etici e sociali del suo tempo, e si era ammantato di formule scintillanti e di atteggiamenti apparentemente rivoluzionari ed estremistici, mentre, in effetti, aveva attinto al patrimonio più ottusamente conservatore della cultura e della società tedesca, facendo propri (ma senza averne l'aria) i luoghi comuni più triti del perbenismo borghese, a cominciare dal culto della forza bruta, caro alla politica bismarckiana.

Scriveva, fra l'altro, Tönnies, nel 1897 (in F. Tönnies, Il culto di Nietzsche (titolo originale: Die Nietzsche-Kultus. Eine Kritik, traduzione italiana di Enrico Donaggio, Editori Riuniti, Roma, 1998, pp. 126-129; 138-139):

 

…Nel suo delirio, che adora la forza e la potenza come tali, Nietzsche deve adorare anche la potenza del denaro, sebbene si tratti di una potenza pacifica e costumata - l'abuso non cade sotto il codice penale come altre rapine - e non si accorge di voler in realtà elogiare la forza e la salute del corpo e dell'anima come ciò che in ultima istanza consegue la vittoria; non si accorge che quelle potenze non sono in nessun modo favorevoli alla forza e alla salute del corpo, che esse addirittura .- in base alla sua stessa dottrina - si fondano in parte sulla loro rovina, in parte la cagionano. Ogni classe sfruttatrice consuma se stessa. La verità che sta dietro la declamazioni di Nietzsche è semplicemente quella della differenziazione: ogni civiltà nobile, spirituale, ogni essere umano «superiore» si è finora innalzato - anche nell'«antichità classica» - sull'ampia base di sani contadini e borghesi. Per la civiltà antica l'economia schiavistica sistematica e di massa fu una fine, proprio come la proletarizzazione sistematica e massiccia del popolo rappresenta una fine per la civiltà moderna.

D'accordo con spiriti oscuri e inaciditi, Nietzsche imputa l'altro genere di pericoli all'ideale di umanità, e dunque alle dottrine, religiose e morali, che pongono in primo piano la compassione; a esse, come già ci è noto, egli riserva il suo odio più rabbioso. (…)

In ogni modo Nietzsche, allorché raccomanda la distruzione dove hanno luogo la cura e la conservazione mantiene pienamente il punto di vista delle «idee moderne», di un modo di pensare cioè che, se non altrettanto diffuso, è però più potente dell'ideale di umanità. Nella piccola e grande borghesia dei nostri tempi, nulla è più amato dell'imprecazione contro lo «sbrodolamento umanitario». Con il nuovo sistema elettorale sassone, come con quello prussiano, con queste stupide imprecazioni si potrebbe facilmente arrivare a un mandato parlamentare.  L'ostentazione di forza - e qui la «dottrina»,nella fattispecie quella nietzschiana, è di nuovo soltanto una causa occasionale, momentaneamente concomitante - il modo di fare provocatorio, davvero molto inumano, sta tuttavia tristemente fiorendo sotto il nome della risolutezza tra noi tedeschi di oggi non soltanto nelle relazioni militari (dove è in certa misura inevitabile), ma anche da parte dei funzionari che si atteggiano a padroni, mentre sono i servitori stipendiati del popolo. Come potrebbero altrimenti gli organi di stampa del principe Bismarck caldeggiare apertamente l'istigazione premeditata della rivolta sanguinosa? Come sarebbe possibile questa «malvagità abissale» (a ragione la si chiama così) in una società che porta in sé, non voglio dire dell'umanità, ma soltanto del rispetto di se stessa e della consapevolezza? (…)

…La corda di Nietzsche era troppo tesa. Con la follia, che all'inizio di una paralisi non è qualcosa di strano, egli prese a deliziarsi di incessanti pensieri di forza, egli aveva acquisito un'idea smisurata della sua forza e si consumava in inesauribili ricorsi alla sua fantasia feconda per glorificare la forza per difenderla, per schernire come miserabile tutto ciò che è piccolo, modesto., umile.

È questo lo spettacolo sgradevole, Un tempo Nietzsche aveva scritto libri raffinati e geniali - e rimase sconosciuto. Scrisse alcuni libri semifolli - e diventò famoso.

Quando un ubriaco se ne scende per un vicolo, balbettando, insultando, alle volte gridando di gioia, quindi minacciando e imprecando, allora i ragazzi s radunano e si divertono molto, seguono i suoi passi, imitano i suoi gesti, e i suoi movimenti e, se sono ragazzi davvero cattivi, lo trascinano perfino nel fango e lo pestano con i piedi.

Di ragazzi del genere non ne mancano certo oggi in Germania. E li troverete nei vicoli e nel fango,  nelle riviste, nei settimanali, nei mensili.

Se fisse stato ancora in salute, l'animo di Nietzsche, un tempo così nobile, avrebbe avvertito come uno schiaffo vedere i bellimbusti attorno a lui chiedergli a gran voce e senza riflettere il suo vangelo della forza incondizionata, assoluta, sovrana, e rivendicare per le loro misere menti, con voci stridule, i privilegi del genio.

Povero Nietzsche! È questo in verità un destino tragico. La tua fama è quella di un uomo ebbro, predicata da fanciulli abbandonati.

Un tempo fosti degno di una fama migliore…

 

Un critico più radicale del superomismo nietzschiano fu il filosofo e scrittore russo Vladimir Sergeevic Soloviev (Mosca, 1853- Uzkoe, 1900), brillante ed enigmatica personalità di intellettuale che Dostojevskij, suo amico, raffigurò nel personaggio di Alësa ne I fratelli Karamazov. Egli fu autore, tra l'altro, dei celebri Tre dialoghi (1899) e del Racconto dell'Anticristo, una delle più belle e profonde meditazioni sul mistero del peccato, delle redenzione e della lotta fra Cristo e le forze del Male, vive e operanti nella storia.

Non è questa la sede per diffonderci sul pensiero di Soloviev, che, per la sua profondità e originalità, merita certamente una trattazione più ampia. Ci limiteremo soltanto ad accennare che egli concepisce lo sviluppo della natura e dell'umanità come un gigantesco dramma,  che inizia con la separazione del creato dal Creatore provocata del peccato originale, e prosegue con l'amore provvidenziale di Dio, che guida il creato a ritornare presso di Lui, ricostituendo l'armonia perduta. La comparsa di Cristo in terra costituisce il punto centrale e decisivo di questo dramma cosmico: Cristo che, essendo al tempo stesso vero Dio e vero uomo, ha riunito e rappacificato il creato ed il Creatore, sanando la ferita del peccato originale. Il nuovo accordo tra Dio e gli uomini è garantito ora dalla Sophia, intesa come sapienza di Dio e, al tempo steso, come elemento femminile del divino, custode della ritrovata unità.

La critica dello Zarathustra nietzschiano si sostanzia, in Soloviev, di un puntuale raffronto con quegli che solo, a suo parere, può considerarsi il vero superuomo apparso nella storia, ossia Gesù Cristo, il cui messaggio agli uomini e le cui opere - in particolare, la risurrezione - costituiscono il trionfo dell'elemento divino presente nell'uomo, proprio nel riconoscimento della radicale alterità di Dio rispetto al mondo.

Lo Zaratustra di Nietzsche, per Soloviev, è la creazione letteraria di un professore tedesco di filologia classica, imbevuto di idee libresche, che non ha nulla di vitale, nulla di concreto da offrire agli uomini, se non risonanti parole e magnifici paradossi. Più che un superuomo, Zarathustra appare come la pallida creazione di un superfilologo: tutto, in lui - a cominciare dal suo nome - sa di erudito, di libresco, di polveroso; il suo messaggio  non ha entusiasmato che i decadenti e gli psicopatici.

 

Scriveva, dunque, Vladimir Soloviev in Finzione letteraria o verità? (da: V. Soloviev, I tre dialoghi e il Racconto dell'Anticristo, traduzione italiana di Giovanni Faccioli, Marietti, Torino, 1975, pp. 249-252):

 

Uno dei fenomeni più caratteristici della vita intellettuale contemporanea e una delle sue più pericolose tentazioni è l'idea di moda circa il superuomo. Questa concezione attrae soprattutto per la sua veracità. Non ha forse ragione l'infelice Nietzsche, quando afferma che tutta la dignità, tutto il valore dell'uomo consiste nel fatto che egli è più che un uomo e rappresenta il passaggio verso qualche cosa d'altro di superiore? A dire il vero, questa verità circa l'esistenza in noi di un principio sovrumano, circa la nostra affinità e la nostra inclinazione verso l'assoluto, già non era nuova quando l'apostolo Paolo dovette rammentarla agli Ateniesi (Atti, 17).Ora Nietzsche la annuncia come una nuova grande scoperta. Per questo gli rendiamo grazie. Ma ecco qui un guaio: l'apostolo Paolo rammentò agli Ateniesi l'alta dignità e l'alto significato dell'uomo, perché volle indicare all'istante la effettiva realizzazione di questo uomo superiore, nel vero giusto risorto dai morti; parlando del superuomo egli nomina Lui, mentre l'ultimo banditore del superuomo in realtà non nomina e non indica nessuno.

Il professore di Basilea, lontano dalla fede cristiana e non ancora maturo per una fede seria sul futuro vivente Anticristo, ha preso a scrivere sul superuomo in generale a somiglianza di Tentetnikov che scriveva «sui generali in genere» secondo quanto gli assicurava Cicikov [personaggio delle Anime morte di Gogol].

Ciascuno di noi è un superuomo in potenza, ma per diventarlo in realtà, occorre, s'intende, un sostegno più solido del proprio desiderio, del proprio sentimento oppure di un'idea astratta. Lo stesso Nitetzsche, credendo di essere effettivamente un superuomo, non era che un superfilologo. Con tutto il suo talento, per il fatto che era uno scienziato di gabinetto e non aveva mai vissuto un vero dramma della vita (cine si può vedere dalla sua biografia), Nietzsche non sentiva i limiti della natura umana terrena di cui, salvo che attraverso i libri, non aveva che una conoscenza molto unilaterale ed elementare; solo gli pesavano i limiti posti dalla filologia o di ciò che egli chiamava Histoire. La sua storia particolare, non era che la riproduzione del primo monologo del Faust: una lotta viva, ma morbosa e impotente dell'anima, contro il peso di un'immensa erudizione libresca. Rimanendo tuttavia un filologo, e anche troppo filologo, Nietzsche volle oltre a ciò diventare «il filosofo del futuro», profeta e fondatore di una nuova religione. Tale problema lo condusse inevitabilmente alla catastrofe giacché per un filologo diventare il fondatore di una nuova religione è un fatto così poco naturale, come per un consigliere titolare diventare re di Spagna. Non parlo già di differenza di rango, ma di divario di capacità naturali. Una buona filologia senza alcun dubbio è assai preferibile a una cattiva religione, ma il più grande filologo non è in grado di fondare nemmeno la peggiore delle sette religiose. L'aspirazione di Nietzsche di innalzarsi sopra la Histoire e diventare un superfilologo, terminò con un chiaro trionfo della filologia. Non potendo trovare una realtà religiosa né in sé né sopra di sé, il professore di Basilea inventò una figura romantica, la chiamò «Zarathustra» e annunciò agli uomini di fine secolo: ecco il vero superuomo! La filologia dichiarava il proprio trionfo già nel nome stesso. Il vero superuomo portava un nome semplice, comune nel suo paese e che era appartenuto ad altri noti uomini del suo popolo (Gesù Navin, Gesù figlio di Josedeca, Gesù figlio di Sirach). Ma «il superuomo» inventato dal professore di Basilea non poteva chiamarsi Enrico o Federico oppure Otto, ma Zarathustra; e nemmeno Zoroastro, ma precisamente Zarathustra, affinché così sapesse di linguistica (e con tutto ciò l'animoso, coltissimo tedesco non pensava che il suo eroe correva il rischio inevitabile di essere preso per una donna da un qualche traduttore russo [in russo non ci sono gli articoli e la distinzione del genere è fatta per mezzo delle desinenze: le parole terminanti per «a» sono appunto femminili]. Nella sua sincera aspirazione a diventare un superfilologo, Nietzsche in realtà ha ottenuto soltanto il risultato di valicare i confini della filologia classica, per cadere nelle braccia della filologia orientale: dalla padella nella brace! Zarathustra, senza dubbio, non è male come nome di un nuovo superuomo: ma presenta un solo difetto è cioè che tutte invece di tutte le potenze del cielo, della terra e dell'inferno, davanti a questo nome tremano e piegano le ginocchia soltanto tutti gli psicopatici decadenti maschi e femmine di Germania e di Russia.

Il vero superuomo, prima di cominciare la sua predicazione pubblica, passò quaranta giorni nel deserto. L'esotica figura del superuomo inventata dal professore tedesco, non può certo accontentarsi di un così breve periodo di tempo: Zarathustra passa dieci anni in una grotta, vivendo in solitudine. Occorre essere ancora riconoscenti alla scuola classica per una simile moderazione, ché per i veri superuomini dell'Oriente sarebbe naturale passare nelle grotte milioni e miliardi di anni. Uscito dalla sua grotta e passato in città, Zarathustra si rivolge al popolo radunato, e annuncia il suo proposito di insegnare loro il superuomo («Ich lehre euch den Übermenschen!», «Io vi insegno il superuomo»). Se voi pensate che il superuomo è un qualche essere superiore respingete un errore di tal fata. Il superuomo non è che una materia di insegnamento universitario istituita nella facoltà di filologia. Ci sono qui cattedre di mitologia greca e romana, di archeologia, di storia della letteratura, di stilistica: ora si apre una nuova cattedra per l'insegnamento del superuomo. Ma che cosa si insegna in sostanza in questa cattedra? E qui sta il guaio, qui sta la tragedia della posizione di Nietzsche, che non ha assolutamente nulla da insegnare sul superuomo, e tutta la sua predicazione si riduce a una pura esercitazione  oratoria, magnifica per la forma letteraria, ma priva di qualsiasi contenuto reale. Nietzsche non poté sopportare un così definitivo trionfo della filologia sulle più profonde, ma impotenti aspirazioni del suo spirito e divenne pazzo. Con questo egli dimostrò la sincerità e la nobiltà della sua natura e certo salvò la propria anima. Non credo alle cause puramente fisiche delle malattie mentali e ben presto non ci crederà più nessuno. Il disordine psichico, in casi simili a quello presente, rappresenta l'estrema risorsa difensiva da parte dell'intima essenza umana, attraverso il sacrificio del proprio io cerebrale, dimostratosi incapace di risolvere i problemi morali della nostra esistenza. L'esempio di Nietzsche non produsse alcun effetto sui suoi seguaci, i quali si abbandonarono alla tentazione con entusiasmo e senza un cenno di resistenza, sostituendo alla verità una finzione letteraria e ponendo un superuomo inventato sopra un superuomo vero. Questo superuomo reale diceva: «Se voi non credete alle Mie parole, credete allora alle opere che Io compio», ed Egli è realmente risuscitato dai morti. Il superuomo inventato non possiede nulla all'infuori delle parole, ma queste parole col loro timbro squillante e la loro armonia esercitano un fascino sopra la massa semi-istruita e la costringono a dimenticare la esemplare tragedia del loro autore. Il maestro ha dimostrato senza dubbio una maggiore profondità spirituale che non i suoi discepoli. Egli ha provato vergogna ed orrore a motivo della sua falsa verità allorché ne ha scoperto il vuoto e la sterilità, ma essi continuano ad essere affascinanti dalla brillante superficie delle parole sotto le quali giace in decomposizione il cadavere della vita intellettuale. Ma in questa infatuazione vi può essere ancora qualcosa di importante e denso di significato. Il superuomo inventato dall'infelice Nietzsche e sua emanazione morale, nonostante la sua mancanza di contenuto e la sua artificiosità, non rappresenta forse il prototipo di uno il quale oltre a brillanti parole mostra anche delle opere e dei singoli anche se ingannevoli? Le esercitazioni letterarie del filologo di Basilea erano forse soltanto l'impotente espressione di un reale presentimento? In tal caso la catastrofe che l'ha colpito, avrebbe uno sfondo ancor più tragico e più istruttivo.

Chi vivrà, vedrà.

 

Anche l'interpretazione della pazzia di Nietzsche, come il risultato di un conflitto insolubile fra la volontà di creare il superuomo e la consapevolezza di esserne incapace, quindi come un conflitto interno al pensiero del filosofo, non è affatto così gratuita come potrebbe sembrare. Non si tratta di psicologismo a buon mercato, ma di una analisi lucida e verosimile dell'itinerario speculativo del cantore di Zarathustra. Certo qualche cosa di meglio di interpretazioni come quella di Joachim Köhler, della quale ci siamo già occupati, che, freudianamente, tira in ballo senza tanti complimenti la sessualità repressa del filosofo e l'impossibilità, per lui, di accettarsi, affrontando i sensi di colpa della sua educazione religiosa (cfr. F. Lamendola, L'omofilia di Nietzsche e la storia vista dal buco della serratura, consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Anche Julius Evola, partendo da tutt'altre posizioni speculative sia di Tönnies, sia di Soloviev, aveva fatto l'ipotesi che lo squilibrio psichico di Nietzsche sia stato provocato da una sorta di corto circuito fra la tensione estrema della volontà e l'incapacità, o l'impossibilità, di trasferire le energie psichiche da essa mobilitate, su di un piano superiore.

In Maschera e volto dello spiritualismo contemporaneo (Edizioni Mediterranee, Roma, 1971, pp. 163-164), Evola così si esprime:

 

Sulla malattia e la fine di Nietzsche è stata detta una quantità di sciocchezze. Si è perfino pensato che il fato psicologico stia alla base delle sue esperienze, laddove, se mai, proprio il contrario è vero. Non bisogna dimenticare che in Nietzsche la dottrina fu vita e che se la sua esistenza esteriore non ci mostra dispiegamenti da superuomo teatrale, pure la sua vita interiore fu tutta composta di superamenti, di continua, quintessenziata affermazione, di volontà pura. In realtà, la fine di Nietzsche va messa in relazione con la fine o la tragedia di vari altri, alcuni noti al pubblico, come Weininger, Michelstaedter, fors'anche Hölderlin, altri più o meno ignorati, che hanno calcato un analogo sentiero. Per tutti costoro si potrebbe usare l'espressione di Santi maledetti. Sono gli esponenti occidentali appunto dell'«ascesi per l'ascesi», che l'insegnamento tradizionale considerò come un grande pericolo spirituale, come una via che non produce né dei Liberi, né dei Liberati, ma spesso dei titani incatenati e degli «ossessi».