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Un mondo cinese? A due passi dalle Olimpiadi...

di Eugenio Orso - 23/07/2008

 

 

Qualcuno afferma che i ripetuti attacchi al governo cinese, conseguenti alla repressione in Tibet e alla repressione delle rivolte interne, nonché le minacce di boicottaggio delle prossime Olimpiadi di Pechino sono funzionali ad una propaganda di stampo filo-americano, o meglio filo-americanista, per screditare l’immagine del governo, del popolo e della cultura cinesi.

Chi afferma quanto precede dice la verità, com’è fin troppo ovvio per tutti noi, ed è facile supporre che dietro al continuo richiamo alla difesa dei “diritti umani”, all’enfasi data alla brutalità del regime e della polizia cinesi, alle libertà dei singoli “calpestate”, che hanno portato alle rivolte popolari di Wengan, nella provincia del Guizhou, e di Boluo, nella vicina provincia di Guangzhou, nonché dietro alla difesa del Tibet autonomista, se non indipendentista e ostile alla Cina, vi è un disegno propagandistico ben preciso, che trova ampio respiro nei principali organi d’informazione occidentali.

Anche il fatto che si utilizzino note réclame di prodotti di consumo, celebri attori per ambigui spot promozionali e lo strumento del cinema per tali scopi – aspetti ben evidenziati nell’articolo dello studioso di cultura arabo-islamica – non fa che avvalorare la sua tesi.

Tuttavia non possiamo non nutrire dei dubbi a proposito della funzione positiva di questa Cina nel mondo globalizzato, al di là delle strumentalizzazioni americaniste, che non ci toccano.

Sappiamo che lo “sviluppo” cinese è stato supportato in modo significativo dal carbone, almeno nella fase iniziale, in un singolare parallelo con la prima rivoluzione industriale del XVII e XIX secolo e con la stessa incuranza per i problemi ambientali, e dal lavoro coatto di milioni di cinesi, il quale ha sicuramente un costo molto basso, ma costituisce qualcosa di molto simile, forse di troppo simile, alla schiavitù tout court, esplicitamente praticata.

Sappiamo che nella Cina del miracolo economico – che detiene enormi masse di dollari, dovendo vendere i propri prodotti in primo luogo sul mercato USA, e forse per questa ragione ha qualche interesse che coincide con quelli americani – ci sono ancor oggi circa trecento milioni di analfabeti, contro poco più di cento milioni di “benestanti” [meno del dieci per cento della popolazione complessiva] e le molte centinaia di milioni di contadini, impiegati nel settore tradizionale d’attività, spesso non arrivano ad un reddito di cento dollari mensili, subendo la preponderanza e la “minaccia” di un sistema industriale in continua espansione, non infrequentemente attraverso gli espropri delle terre.

Dopo un lungo periodo di “sviluppo”e di crescita del PIL a tassi vertiginosi, superiori a quelli italiani dell’epoca del boom economico fra gli anni cinquanta e gli anni sessanta dello scorso secolo, sembra che non ci siano sufficienti risorse, in Cina, per migliorare rapidamente le condizioni di vita dei contadini, degli operai – anche loro non troppo ben pagati, mi sembra – e per alfabetizzare l’impressionante numero di sfortunati che ancora non sanno né leggere né scrivere.

Quel che precede è un assurdo, per uno stato che non ha rinunciato all’etichetta di “comunista” e che in altra epoca, pur in un diverso clima politico e culturale, annunciava trionfale le conquiste intermini di miglioramento delle condizioni di vita e di alfabetizzazione della popolazione.

Non risulta, infatti, che nella Cina tutt’ora retta dal partito comunista vi è una buona distribuzione del prodotto sociale, fra gli stessi cinesi Han, i quali rappresentano l’assoluta maggioranza della popolazione, e un trattamento dignitoso riservato alle minoranze etniche e religiose …

Vedi a tale proposito la sorte – per non parlare sempre del Tibet, con automatico sospetto di propaganda americanista – degli Uiguri turcofoni e islamici nello Xinjiang, repressi dal regime cinese che ha furbescamente condiviso, proprio per tale motivo e contro questa minoranza, la lotta statunitense al terrorismo internazionale, ufficialmente di matrice islamica.

Oltre a quanto già detto e pur essendo la Cina un paese ancora “comunista”, per quanto largamente contagiato dalle logiche del mercato senza limiti e prigioniero anch’egli del circolo vizioso di produzione-consumo-produzione, il sistema sanitario cinese è decisamente carente e la maggioranza della popolazione – che è comunque rimasta povera, nonostante il gran “sviluppo” – non può accedere al privato, perché troppo caro.

Il risultato dell’ibridazione del comunismo cinese con l’idea del libero commercio mondiale e l’esaltazione della dimensione finanziaria, non sembra aver favorito troppo la grande maggioranza dei cinesi, dunque, se non in un miglioramento delle aspettative e in una prospettiva di lungo [o lunghissimo] periodo, come non ha portato giovamento alcuno ai veri poveri del mondo, in parte significativa concentrati in Asia e in Africa, ed ha significativamente contribuito al peggioramento delle condizioni di vita nei paesi di più antica industrializzazione, in Occidente.

Certo, talvolta il lavoratore italiano vede la Cina con poca simpatia, come se fosse una minaccia per lui e per la sua famiglia, ma forse non lo si deve accusare di americanismo per questo, dato che nella trappola planetaria del libero mercato globale è lui che rischia l’esclusione, la perdita del reddito, l’impossibilità di aiutare i figli ad assicurarsi un futuro dignitoso, e visto che la concorrenza cinese – di quella funesta potenza ultra-sviluppista definitivamente liberata dall’Organizzazione Mondiale del Commercio alla fine del 2001, in odor di subentrare ai declinanti Stati Uniti d’America – si è caratterizzata fin dall’inizio per un aspetto preoccupante, la cui importanza si è rivelata decisiva in ogni età attraversata dal capitalismo: il basso costo di produzione, non soltanto sul versante dell’energia, ma anche e soprattutto su quello del costo del lavoro.

Su un altro piano di discussione, diverso da quello più strettamente economico e sociale, non possiamo che ricordarci delle parole del grande Julius Evola, il quale scriveva sull’infatuazione maoista che aveva colpito, in altra epoca, molti ambienti europei: La cultura nel senso occidentale e tradizionale (perfino tradizionale cinese: si ricordi l'ideale confuciano dello jen, che si potrebbe tradurre con humanitas), cioè come una formazione collettiva eteronoma, viene combattuta.

Non è forse vero che questa dura sentenza di Evola si può adattare, ai nostri giorni, al così detto “comunismo di mercato cinese” che fa tabula rasa, come l’americanismo ancora imperante, delle culture e delle tradizioni dei popoli, non solo Tibetani e Uiguri, ma anche degli stessi cinesi Han, per lasciar spazio ai peggiori istinti economicisti, ad un’insensata tensione allo “sviluppo”, all’impazzimento degli spiriti animali del capitalismo ultimo, e a ciò sacrificando, con il saccheggio dell’ambiente, la distruzione delle culture particolari, la prevalenza delle ragioni della produzione e del profitto su tutto il resto, la stessa prospettiva futura dell’umanità?

Dobbiamo augurarci, quindi, di riuscire a vedere un mondo cinese, dopo la probabile, ingloriosa fine del progetto per un mondo americano?