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Il mercato uccide la sovranità popolare

di Eric Hobsbawm* - 28/07/2008


Oggi "il popolo" e' il fondamento e il punto di riferimento comune di tutte
le forme di governo statali eccetto quella teocratica.
E cio' non e' soltanto qualcosa di inevitabile, ma e' qualcosa di giusto,
perche' per avere un qualunque scopo il governo deve parlare in nome e
nell'interesse di tutti i cittadini.
Nell'epoca dell'uomo comune, ogni governo e' un governo del popolo e per il
popolo, anche se chiaramente non puo' essere, in nessun senso funzionale, un
governo esercitato direttamente dal popolo. Tale principio non si basa solo
sull'egualitarismo dei popoli, che non sono piu' disposti ad accettare una
posizione di inferiorita' in una societa' gerarchica governata da uomini
superiori "per diritto naturale", ma anche sul fatto che finora i sistemi
sociali, le economie e gli Stati nazionali moderni non hanno potuto
funzionare senza l'appoggio passivo, ma anche la partecipazione attiva e la
mobilitazione, di moltissimi dei loro cittadini.
Questo principio rappresenta l'eredita' del XX secolo. Ma sara' ancora la
base dei governi popolari, incluso quello liberaldemocratico, nel XXI? La
mia tesi e' che la fase attuale dello sviluppo capitalistico globalizzato lo
sta minando alle radici, e che cio' avra' - anzi, sta gia' avendo - serie
implicazioni per quanto riguarda la democrazia liberale come viene intesa
oggi. L'odierna politica democratica, infatti, si fonda su due assunzioni,
una morale - o, se preferite, teorica - e l'altra pratica. Moralmente
parlando, essa richiede il supporto esplicito del regime da parte della
maggioranza dei cittadini, che si presume costituiscano il grosso degli
abitanti dello Stato. Ma per quanto fossero democratici gli ordinamenti in
vigore per la popolazione bianca nel Sudafrica dell'apartheid, un regime che
privava permanentemente del diritto di voto la maggior parte della sua
popolazione non puo' essere considerato come democratico. Gli atti con cui
si esprime il proprio assenso alla legittimita' di un sistema politico, come
votare periodicamente alle elezioni, possono essere poco piu' che simbolici.
Di fatto, e' da molto tempo un luogo comune tra i politologi dire che solo
una modesta minoranza di cittadini partecipa costantemente e attivamente
alla vita del proprio Stato o di un'organizzazione di massa. Cio' torna a
vantaggio di coloro che comandano; e, in effetti, e' da tempo che i
pensatori e i politici moderati si augurano la diffusione di un certo grado
di apatia politica. Ma questi atti sono importanti.
Oggi ci troviamo di fronte a un'evidentissima secessione dei cittadini dalla
sfera della politica. La partecipazione alle elezioni appare in caduta
libera nella maggior parte dei Paesi liberaldemocratici. Se le elezioni
popolari sono il primo criterio di rappresentativita' democratica, in che
misura e' possibile parlare di legittimita' democratica per un'autorita'
eletta da un terzo dell'elettorato potenziale (la Camera dei rappresentanti
degli Stati Uniti) o, come e' avvenuto di recente per le amministrazioni
locali britanniche e il Parlamento europeo, da qualcosa come il 10 o il 20%
dell'elettorato? O per un presidente americano eletto da poco piu' di meta'
del 50% degli americani che hanno diritto di voto?
Sul lato pratico, i governi dei moderni Stati nazionali o territoriali -
qualunque governo - si basano su tre presupposti: primo, che abbiano piu'
potere di altre unita' operanti sul loro territorio; secondo, che gli
abitanti dei loro territori accettino, piu' o meno volentieri, la loro
autorita'; e terzo, che tali governi siano in grado di fornire ai cittadini
quei servizi ai quali non sarebbe altrimenti possibile provvedere, perlomeno
non con la stessa efficacia (come "legge e ordine", per riprendere
un'espressione proverbiale).
Negli ultimi trenta o quarant'anni, questi presupposti hanno
progressivamente perso la loro validita'.
In primo luogo, pur essendo ancora di gran lunga piu' potenti di qualunque
rivale interno, anche gli Stati piu' forti, piu' stabili e piu' efficienti
hanno perso il monopolio assoluto della forza coercitiva, non ultimo grazie
alla marea di nuovi strumenti di distruzione portatili, oggi facilmente
accessibili ai piccoli gruppi dissidenti, e all'estrema vulnerabilita' della
vita moderna di fronte agli sconvolgimenti improvvisi, per quanto leggeri
possano essere.
In secondo luogo, hanno iniziato a vacillare anche i due pilastri piu'
solidi di un governo stabile, ossia (nei Paesi che godono di una
legittimita' popolare) la lealta' dei cittadini e la loro disponibilita' a
servire gli Stati, e (nei Paesi dove questa legittimita' popolare manca) la
pronta obbedienza a un potere statale schiacciante e indiscusso. Senza il
primo pilastro, le guerre totali basate sulla coscrizione obbligatoria e
sulla mobilitazione nazionale sarebbero state impossibili, cosi' come
sarebbe stata impossibile la crescita degli introiti erariali degli Stati
fino all'odierna percentuale dei Pil (introiti che possono oggi superare il
40% del Pil in alcuni Paesi e il 20% anche negli Stati Uniti e in Svizzera).
Senza il secondo pilastro, come ci mostra la storia dell'Africa e di ampie
regioni dell'Asia, piccoli gruppi di europei non avrebbero potuto mantenere
per generazioni il controllo sulle colonie a un costo relativamente modesto.
Il terzo presupposto e' stato minato non solo dall'indebolimento del potere
statale ma anche, a partire dagli anni Settanta, da un ritorno, tra i
politici e gli ideologi, a una critica dello Stato basata su un
laissez-faire ultraradicale, secondo la quale il ruolo dello Stato stesso
dev'essere ridimensionato a tutti i costi.
Questa critica afferma, piu' per una sorta di fede teologica che non sulla
base di evidenze storiche, che ogni servizio che le autorita' pubbliche
possono fornire o e' qualcosa di indesiderabile, oppure potrebbe essere
fornito in modo migliore, piu' efficiente e piu' economico dal "mercato". A
partire da quel periodo, la sostituzione dei servizi pubblici con servizi
privati o privatizzati e' stata massiccia. Attivita' caratteristiche di un
governo nazionale o locale come gli uffici postali, le prigioni, le scuole,
l'approvvigionamento idrico e anche i servizi assistenziali e previdenziali
sono stati ceduti a (o trasformati in) imprese commerciali; i dipendenti
pubblici sono stati trasferiti ad agenzie indipendenti o rimpiazzati con
subappaltatori privati. Anche alcune parti dell'apparato bellico sono state
subappaltate. E, naturalmente, il modus operandi delle aziende private - che
mirano alla massimizzazione dei profitti - e' diventato il modello al quale
ogni governo aspira a uniformarsi. E nella misura in cui cio' avviene, lo
Stato tende a fare affidamento su meccanismi economici privati per
sostituire la mobilitazione attiva e passiva dei propri cittadini. Allo
stesso tempo, e' impossibile negare che nei Paesi ricchi del mondo gli
straordinari trionfi dell'economia mettono a disposizione della maggior
parte dei consumatori piu' di quanto i governi o l'azione collettiva abbiano
mai promesso o fornito in tempi piu' poveri.
Ma il problema sta proprio qui. L'ideale della sovranita' del mercato non e'
un complemento, bensi' un'alternativa alla democrazia liberale. Di fatto,
esso e' un'alternativa a ogni sorta di politica, poiche' nega la necessita'
di decisioni politiche, che sono esattamente le decisioni sugli interessi
comuni o di gruppo in quanto distinti dalla somma di scelte, razionali o
meno che siano, dei singoli individui che perseguono i propri interessi
personali. Si aggiunga che il continuo processo di discernimento per
scoprire che cosa vuole la gente, processo messo in atto dal mercato (e
dalle ricerche di mercato), deve per forza essere piu' efficiente
dell'occasionale ricorso alla grezza conta elettorale. La partecipazione al
mercato viene a sostituire la partecipazione alla politica; il consumatore
prende il posto del cittadino. Francis Fukuyama ha di fatto sostenuto che la
scelta di non votare, cosi' come la scelta di fare la spesa in un
supermercato anziche' in un piccolo negozio locale, "riflette una scelta
democratica fatta dalle popolazioni. Esse vogliono la sovranita' del
consumatore". Senza dubbio la vogliono, ma questa scelta e' compatibile con
cio' che abbiamo imparato a considerare come un sistema politico
liberaldemocratico?
Cosi', lo Stato territoriale sovrano (o la federazione statale), che forma
la cornice essenziale della politica democratica e di ogni altra politica,
e' oggi piu' debole di ieri. La portata e l'efficacia delle sue attivita'
sono ridotte rispetto al passato. Il suo comando sull'obbedienza passiva o
il servizio attivo dei suoi sudditi o cittadini e' in declino. Due secoli e
mezzo di crescita ininterrotta del potere, del raggio d'azione, delle
ambizioni e della capacita' di mobilitare gli abitanti degli Stati
territoriali moderni, quali che fossero la natura o l'ideologia dei loro
regimi, sembrano essere giunti al termine. L'integrita' territoriale degli
Stati moderni - cio' che i francesi chiamano "la Repubblica una e
indivisibile" - non e' piu' data per scontata. Fra trent'anni ci sara'
ancora una singola Spagna - o un'Italia, o una Gran Bretagna - come centro
primario della lealta' dei suoi cittadini? Per la prima volta in un secolo e
mezzo possiamo porci realisticamente questa domanda. E tutto cio' non puo'
non influire sulle prospettive della democrazia.

*[Dal "Corriere della sera" del 28 ottobre 2007 col titolo "Il mercato uccide
le democrazie" e il sommario "Anticipazione. L'allarme dello storico
inglese: le privatizzazioni indeboliscono le istituzioni e la politica.
Decadono gli Stati nazionali. E cosi' l'unita' di Italia, Spagna e Gran
Bretagna e' a rischio" e la nota biobibliogafica "L'autore e le opere.
Timori e interrogativi oltre il Secolo breve. Il testo pubblicato in questa
pagina e' un estratto dal nuovo libro di Eric Hobsbawm, La fine dello Stato
(traduzione di Daniele Didero, pagine 123, euro 9) in uscita il 7 novembre
per Rizzoli. Il volume raccoglie e rielabora alcuni testi in cui lo storico
britannico discute problemi cruciali del nostro tempo, dal destino delle
nazioni al futuro della democrazia, fino alle nuove forme assunte dalla
violenza politica. Eric Hobsbawm, nato ad Alessandria d'Egitto da genitori
ebrei austriaci, ha compiuto novant'anni lo scorso 9 giugno. Vive dal 1933
in Gran Bretagna, dove presiede il Birkbeck College dell'Universita' di
Londra. Storico di formazione marxista, ha acquisito una grande notorieta'
internazionale con i suoi studi sull'eta' contemporanea: Le rivoluzioni
borghesi. 1789-1848 (Laterza), Il trionfo della borghesia. 1848-1875
(Laterza), L'eta' degli imperi. 1875-1914 (Mondadori), Il secolo breve.
1914-1991 (Rizzoli). La sua opera piu' recente tradotta in Italia e'
Imperialismi (Rizzoli). Francis Fukuyama, Norbert Elias e Moises Naim sono
alcuni degli autori di cui Hobsbawm discute le tesi nei saggi contenuti
all'interno del volume La fine dello Stato. Il brano pubblicato qui accanto
e' tratto da una conferenza tenuta dallo storico britannico al club
Athenaeum di Londra".
Eric J. Hobsbawm, storico inglese, nato ad Alessandria d'Egitto nel 1917,
docente, intellettuale impegnato per la democrazia. Ha dedicato libri
fondamentali alla rivoluzione industriale, alle rivoluzioni borghesi,
all'eta' dell' imperialismo e del colonialismo, al movimento operaio, alla
storia del Novecento. Opere di Eric J. Hobsbawm: segnaliamo particolarmente
le grandi ricostruzioni Le rivoluzioni borghesi. 1789-1848, Il trionfo della
borghesia. 1848-1875, L'eta' degli imperi. 1875-1914, edite in italiano da
Laterza, Roma-Bari; le tre vivaci raccolte di saggi su I banditi, I ribelli,
I rivoluzionari, edite in italiano da Einaudi, Torino; Studi di storia del
movimento operaio, Einaudi, Torino 1973; Storia sociale del jazz, Editori
Riuniti, Roma 1982; ed i piu' recenti Lavoro, cultura e mentalita' nella
societa' industriale, Laterza, Roma-Bari 1986; Echi della Marsigliese,
Rizzoli, Milano 1991; Nazioni e nazionalismo, Einaudi, Torino 1992; (con
Terence Ranger),L'invenzione della tradizione, Einaudi, Torino 1994; (a cura
di), Gramsci in Europa e in America, Laterza, Roma-Bari 1995; Il secolo
breve. 1914-1991, Rizzoli, Milano 1997, 2000; De historia, Rizzoli, Milano
1997; Storia economica dell'Inghilterra. La rivoluzione industriale e
l'impero, Einaudi, Torino 1997; Intervista sul nuovo secolo, Laterza,
Roma-Bari 1999; Gente che lavora. Storie di operai e contadini, Rizzoli,
Milano 2001; l'autobiografia Anni interessanti, Rizzoli, Milano 2002, 2004;
L'uguaglianza sconfitta. Scritti e interviste, Datanews, Roma 2006;  Gente
non comune, Rizzoli, Milano 2007; Imperialismi, Rizzoli, Milano 2007; La
fine dello Stato, Rizzoli, Milano 2007]