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L’ultimo treno della notte

di Eugenio Orso - 30/07/2008

 

 

 

Giunto alla stazione centrale di Bologna la scorsa sera luglio, ho atteso l’euronight diretto a Vienna via Mestre passeggiando sul lungo marciapiede, immerso in una folla anonima di viaggiatori, ho fatto scorrere il tempo dell’attesa sostando per un poco nelle sale d’aspetto e percorrendo un paio di volte, a lenti passi, il sottopassaggio, con l’attenzione a tratti concentrata su ciò che vedevo e la mente temporaneamente sgombra dai soliti, personalissimi pensieri e dalle elucubrazioni suscitate dalle discussioni piuttosto accese e dai dibattiti del pomeriggio.

 

La molteplicità delle razze, la diversità degli aspetti fisici e la varietà delle parlate mi hanno colpito, e un po’ stupito, come se non fosse ormai realtà l’affermarsi progressivo della “società aperta” anche in Italia, la presenza di qualche milione di immigrati provenienti da ogni angolo del mondo, come se nello spazio angusto del presente si muovessero, quasi senza una precisa destinazione, frammenti di popolazioni, di comunità e di culture che l’impersonale frullatore della globalizzazione ha mescolato, senza però amalgamarli completamente, in un assurdo frappè umano, funzionale a chissà quali oscuri disegni …

 

Avendo salutato da poco di fronte alla stazione miei amici, non avevo molta voglia di parlare e volevo starmene un po’ in relax, addirittura in un benefico otium, pur fra i numerosi rivoli di persone, sciamanti ovunque con valigie alla mano o variopinti zainetti sulle spalle, bottiglie d’acqua per conforto, data la temperatura, e i soliti telefonini accesi.

La molteplicità di colori, l’eterogeneità e la casualità dell’abbigliamento che rifletteva l’assenza di gusto dell’epoca, le diversità di lingua e di pronuncia, se ci si fermava alla superficie, lasciavano intravedere un mondo in cui la varietà prevaleva decisamente sull’uniformità, caratterizzato da una mélange di razze e culture che però mantengono le loro differenze, quelle specificità che le resero e le rendono uniche e irripetibili, nello scorrere del tempo e della storia.

Ho scoperto, con stupore, come se fossi appena tornato da un viaggio fuori della biosfera, che il panorama italiano, non soltanto quello umano fatto di carne e di sangue, di odori, di aspetti anche “animali” dell’esistere, oltre che culturali, sta radicalmente cambiando ed è già significativamente mutato, in un misero pugno d’anni.

 

Il tempo è trascorso troppo velocemente, o si è rapidamente imposto un modello di società – non necessariamente migliore del precedente – che trasfigura i molti paesaggi di questo paese, rendendoli sempre più irriconoscibili rispetto a ciò che era, o almeno a ciò che appariva ai nostri occhi, tornando indietro di appena uno o due decenni nel passato?

Quando ho staccato il piede dal marciapiede del binario numero nove per salire sull’euronight, ho gettato un ultimo sguardo sulla varia umanità che mi circondava, conscio che apparteneva ad una nuova Italia dal destino incerto, forse indecifrabile, un paese profondamente diverso da quello che era negli anni novanta, che nessuno fra noi può affermare di conoscere veramente e fino in fondo.

Alcuni cinesi si spostavano velocemente sul marciapiede per raggiungere un treno su un altro binario, due o tre indo-pakistani parlavano fra loro con un idioma incomprensibile, davanti ai distributori automatici di bevande, una ragazza dalla pelle scura e dall’indubitabile bellezza chiedeva indicazioni a qualcun altro, in uno strano mix di vecchio italiano e di spagnolo, mentre alcuni giovanissimi, forse emiliani, se ne stavano sprofondati, ridendo e scherzando, fra montagne di zaini e sacchi a pelo.

 

Nel viaggio di andata, il giorno prima, avevo seguito dal finestrino del treno lo scorrere monotono della campagna, nel ferrarese, apparentemente immutata rispetto a vent’anni prima, ma immersa – ne ebbi vago sentore, per un istante – in un nuovo respiro del tempo, un respiro forse affannoso, in cui è inesorabilmente mutato il paesaggio umano che la popola ed anche il mio “paesaggio” interiore.

Salito su una carrozza, in piedi nel corridoio del vagone strapieno, ho riflettuto un po’, partendo dalle semplici sensazioni di poco prima, o dai brevi flash avuti il giorno precedente.

Intorno a me, mentre fuori dominava la notte, giovani arabi vestiti decisamente all’occidentale, indossando magliette di cattivo gusto decorate da disegni casuali e parole inglesi, con berretti firmati e lattine di birra alla mano, discutevano ad alta voce nel loro idioma, intercalando ai suoni agglutinati della lingua madre parole italiane, una ragazza orientale, forse filippina, se ne stava in disparte, elegantemente vestita, lisciando con la mano i capelli tinti, color del miele, e sorridendo, con lo sguardo rivolto al finestrino, un cinese non più giovane, seduto su una valigia e con tanto di occhiali da vista sulla punta del naso, leggeva un quotidiano stampato con caratteri ideogrammatici e interloquiva con i vicini, di tanto in tanto, in una koinè decisamente sino-italiana. Qualcuno usava, per cercare di comunicare nelle profondità del vagone, la lingua franca dell’epoca – l’inglese – storpiando i vocaboli e ostentando una personalissima pronuncia.

 

Così, ho avuto una sorta di folgorazione: non si trattava di un’allegra Babele, spontaneamente sorta dalle rovine invisibili del ventesimo secolo, né poteva essere un vero spazio di tranquilla e volontaria convivenza, in cui ciascuno mantiene le proprie tradizioni, la propria lingua ed è libero di scegliere … non era e non è l’immagine della periferia di un mondo in via di pacificazione, o la realizzazione concreta, tangibile, di un nuovo paradigma.

Tutte quelle persone riflettevano e riflettono, in realtà, l’ingannevole luce della costrizione, del bisogno che spinge alla coabitazione forzata, che obbliga a ricostruire la propria vita ad altre latitudini, generando quei flussi migratori in cui speranza e sradicamento, aspettative di miglioramento e paura, fuga e nostalgia si confondono.

Prigionieri della necessità, a tutti imposta, dai meccanismi del sistema che ci imprigiona e che diffonde ovunque la sua legge e il suo pensiero, riducendo i paesi a contenitori dei residui di culture e tradizioni, le loro diversità, come le loro peculiarità, erano e sono soltanto apparenti, superficiali, destinate a ridursi progressivamente fino alla piatta uniformità.

 

Ho compreso, grazie alla folgorazione, che la perdita d’identità colpiva e colpisce tutti, dai giovani arabi che bevevano birra dimentichi di ogni precetto religioso, vestiti con abiti da discoteca e accessori nike, alla ragazza orientale con i capelli tinti, color del miele, con atteggiamenti da velina del piccolo schermo, ai giovanissimi emiliani che ascoltavano un orrendo frastuono spacciato per musica, fra gli zaini e i sacchi a pelo.

Tutti vivevano e si muovevano nello stesso tempo, uniforme e piatto, stretti dalle stesse necessità, mescolati gli uni agli altri in un bizzarro cocktail umano in cui i colori inesorabilmente si confondono, immersi nell’unico tempo concesso, senza profondità, della banalizzazione dell’eccezionale e dell’esaltazione del banale.

 

Cosa sarà dunque l’Italia in un prossimo futuro, se non un serbatoio di varia umanità sulla via dell’omologazione, disponibile per essere forza lavoro negli stessi processi produttivi, e nel contempo condannata agli stessi consumi forzati, una società definitivamente aperta, immemore del proprio passato e della propria storia, una vasta periferia della città illimitata, percorsa fino in fondo dalle raffiche dall’unico vento dell’epoca, quello della mondializzazione.