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Massimo Fini. Il conforme…

di Mario Grossi - 30/07/2008

 

Ho sempre avuto il terrore dei giornali. I quotidiani mi hanno costantemente messo a disagio anche se ne ho una frequentazione più che trentennale. Mi ha sempre disturbato il fatto che diventassero vecchi, esaurissero la loro funzione nel giro di una giornata, dall’alba al tramonto.

Fu così che cominciai una pratica che conduco ancora oggi: accatastavo su una sedia i quotidiani della settimana e il sabato me li risfogliavo tutti ritagliando gli articoli che mi interessavano, catalogandoli e riponendoli in faldoni che via via andavo accumulando. Era il tentativo di fermare il tempo di cui i quotidiani rappresentano emblematicamente dei fotogrammi. Ed allo stesso tempo mi arrabbiavo con i giornalisti che si prestavano, scrivendo per l’effimero, a questo gioco temporale. Credevo che si dovesse scrivere per l’eternità, per scacciare quel senso opprimente di transitorio che ci avvolge costantemente. Scrivere, pensavo, era un po’ come generare figli: un atto di supremo egoismo che incatena loro alla ruota del destino e crea in te la falsa sensazione di essere eterno.

E mi indispettivano quei giornalisti che, messi insieme un po’ d’articoli, come fossero stracci, se li facevano pubblicare a mo’ di summa, come se quella scimmiottatura di libro costituisse un corpus nobilitato per la gloria imperitura di chi aveva scritto. Ed in genere le mie diffidenze erano giustificate perché a distanza di anni quegli articoli risultavano costantemente fuori tempo.

grossi fini

Tutto questo non vale affatto per Il Conformista. Contro l’anticonformismo di massa, ripubblicato da Marsilio in questi giorni che raduna articoli comparsi su testate varie tra la fine degli anni ‘70 e la fine degli ‘80 scritti da Massimo Fini intingendo la penna nel suo calamaio che garantisce inchiostro cristallino.

Sarà perché colma un vuoto nella mia libreria, sarà perché il mio giudizio risente un po’ della benevolenza del fan (un fan anomalo che non si fa facilmente impressionare) ma ne sono rimasto colpito, tanto da affermare che tutto ciò che ho detto circa i giornalisti che tentano di edificare un monumento a se stessi con il mezzuccio di assemblare articoli datati e caduti nel dimenticatoio, stritolati dalla caducità dei quotidiani per cui sono stati scritti, non riguarda Massimo Fini, i suoi articoli e questo libro che ne colleziona una parte.

Che cosa hanno questi pezzi di tanto speciale? Molto semplice. Resistono al tempo. Rinviano scenari ancora freschi, utili a ricordare per chi quegli episodi ha vissuto; utili per chi, molto giovane, vuole percepire l’atmosfera di quegli anni. Sono sinceri e semplici. Mai il lettore può dubitare del pensiero del loro autore che esprime sempre concetti ed opinioni personali in modo chiaro, evidente. Impossibile ogni fraintendimento. Prendono sempre posizione, ma non vogliono fare la morale a nessuno, nè essere pedagogici, ma solo strumento per comunicare. Hanno uno stile ruvido e diretto. Non ci sono giochi o giri di parole, nessuna lunga circonlocuzione per mascherare, addolcire, indorare la pillola. Non menano il can per l’aia. Le parole mirano sempre dritto al cuore della questione, senza sconti per nessuno. Non assecondano mode o tic. Non strizzano l’occhio al lettore inchiodandolo sempre alla sua responsabilità.

Perché se Massimo Fini declina la sua personale responsabilità imponendosi secchezza e linearità di scrittura, chiede al suo lettore pari responsabilità declinata come volontà di comprendere senza pregiudizi, solo valutando fatti e seguendo ragionamenti scevri da qualsivoglia orpello ideologico. Responsabilità per lo scrittore (in questo caso di pezzi giornalistici) è scriver chiaro. Responsabilità del lettore è legger chiaro. Sono, in estrema sintesi, delle lame di bisturi che incidono senza clemenza la carne, spesso marcia, delle cose descritte, ma senza compiacimento alcuno.

Ma quello che più suscita curiosità ed interesse è che nel loro insieme risultano inquietanti perché descrivono una fauna e dei modi di pensare che sono uguali in Italia a distanza di 20 e passa anni. I potenti di allora sono gli stessi che, con un po’ di anni in più sulla groppa, dominano ed ingessano ancora il panorama Italiano.

Così questi articoli sembrano un catalogo di una galleria degli orrori, un repertorio degno del museo delle cere di Madame Tussaud in cui manichini terrei sempre uguali cercano di replicare un’umanità che non era umana allora e lo è ancor meno oggi.

Come in un “B movie” dell’orrore questi articoli sono popolati da zombie che ancora oggi si cibano dei pochi corpi sani in circolazione. Mi ricordano Io sono leggenda di Richard Matheson, adesso trasposto anche in film, in cui l’unico uomo rimasto sulla terra (Neville/Fini) combatte tutte le notti contro gli innumerevoli vampiri che popolano il globo.

Come giudicare infatti la presenza invasiva di personaggi come: Pippo Baudo, Levi Montalcini, Scalfari, Bocca? Cosa pensare dei luoghi del potere che a distanza di anni sono ancora gli stessi, magari un po’ scoloriti o ricolonizzati? Come Capalbio, luogo simbolo per eccellenza del potere in costume da bagno, ora invaso dai novelli divi del Centrodestra e dai loro figli?

Come non apprezzare dunque, Massimo Fini quando ci si è abituati ai sermoni domenicali di Scalfari dal pulpito de La Repubblica? O quando il panorama giornalistico ci propina ancora oggi le arringhe di un Giorgio Bocca ultraottantenne schiumante di rabbia senile, o le disquisizioni teologiche ed estetizzanti di Adriano Sofri che ha fatto della supponenza la sua cifra più riconoscibile. Oppure come non apprezzare il pensiero fedele a se stesso di Massimo Fini se lo si paragona alle presunte penne fuori dal coro che oggi popolano i giornali di destra. Ad esempio Feltri ed il manipolo raccolto attorno al suo Libero, che nonostante affettino toni cinicamente trasgressivi e scanzonati sono ben dentro il solco protettore del novello conformismo.

Ma per poter rendere omaggio al pensiero (beatamente) solitario ed unico di Fini un assaggio è d’uopo.
Sentite cosa dice a proposito di Renato Vallanzasca, il bel Renè:

Renato Vallanzasca

«Vallanzasca è un gangster spietato, che ha commesso efferati omicidi, lo so benissimo. (…) Però Vallanzasca è un bandito leale. Il giorno del suo arresto, alla canea di giornalisti sociologizzanti e gravidi di demagogia dell’epoca che gli chiedeva, querula e speranzosa, se non si ritenesse una vittima della società, rispose dal famoso balconcino: “Non diciamo cazzate”… Quello che mi piace di Vallanzasca è che non ciurla nel manico. Anche se gangster, è un uomo che si assume le proprie responsabilità in una società di camaleonti dove i più protervi lottizzatori si dichiarano contro la lottizzazione, gli assenteisti contro l’assenteismo…. e dove la colpa è sempre del compagno di banco. Vallanzasca dice invece: “Sì, sono stato io”. Vallanzasca è un bandito che riflette una società d’altri tempi. È un bandito onesto in una società dove, troppe volte, gli onesti sono dei banditi».

Ed a proposito dei terroristi di buona famiglia:

«E così il primo terrorista graziato dal presidente socialista della Repubblica [Sandro Pertini, nel suo ultimo atto presidenziale, ndr] è la contessina Fiora Pirri Ardizzone, figlia di un latifondista del sud oltre che azionista del “Giornale di Sicilia”, Piero Pirri Ardizzone, e della aristocratica Ninny Monroe dei principi di Pandolfina attuale moglie del comunista Macaluso direttore dell’Unità (…) È la logica per cui tutti i “baby della Rivoluzione”, tutti i rivoluzionari di “buona famiglia” per una ragione o per l’altra, sono già bell’e usciti di galera. Fuori perché pentiti al momento giusto, sono i Morandini, i Barbone, i Donat Cattin; fuori

Sandro Pertini

perché protetti dal loro status sono i Toni Negri e i Franco Piperno; fuori perché fuggiti in tempo a Parigi sotto l’occhio benevolo della polizia sono tutti i professorini dell’Hyperion; fuori è adesso, in virtù di grazia, Fiora Pirri Ardizzone… Dentro sono rimasti i proletari e i sottoproletari, urbani e suburbani, cioè coloro che, magari, a differenza dell’Ardizzone e di Morandini, motivi di disagio e di esasperazione sociale li avevano davvero, anche se li espressero in forme sbagliate. (…) Tutti i “rivoluzionari-bene” sono stati perdonati e, un dopo l’altro, tornano a casina loro. Sul terreno rimangono solo i poveracci, innanzi tutto quelli che furono uccisi, ma anche quelli che avendo creduto ai “rivoluzionari di buona famiglia”, senza averne il blasone e le risorse, si trovano ora in carcere con la prospettiva di restarci per sempre».

Massimo Fini apprezza, in qualsiasi contesto e circostanza, la responsabilità individuale, chi non si nasconde dietro facili sociologismi, chi non si fa scudo del suo status per prima fare e poi sfilarsi. Si schiera, alla faccia del politically correct, contro tutte le caste di potere intellettuale, indicando sempre la via maestra che non ha scorciatoie.

In sintesi, apprezzo sommamente Massimo Fini perché è uno dei pochi che è capace di pensare non solo contro gli altri ma anche contro se stesso, restando, in ogni momento e periodo, un Conformista assoluto, nel senso di conforme a quella linea di pensiero che si condensa in una parola: responsabilità. E se non vi ho convinto, almeno leggete questa raccolta di articoli per rendere omaggio alla sua dichiarazione resa in premessa, verità inconfessabile per gli altri suoi colleghi:

«Ho sempre considerato una vera fortuna poter scrivere sui giornali quello che, comunque, avrei detto al bar. Ed essere anche pagato per questo. A dirla tutta a volte penso che dovrei essere io a pagare i miei editori: poter esprimere pubblicamente le mie indignazioni, le mie rabbie, le mie idiosincrasie è per me uno sfogo sicuramente salutare».

Alla faccia di tutti i giornalisti-vate che scrivono per la Verità!