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Karl Polanyi: l'attualità di un economista inattuale

di Stefano Di Ludovico - 30/07/2008

L’ungherese Karl Polanyi è stato senza dubbio uno dei maggiori storici dell’economia del Novecento, autore di opere fondamentali tradotte nelle maggiori lingue quali La grande trasformazione, Traffici e mercati negli antichi imperi, La sussistenza dell'uomo: il ruolo dell'economia nelle società antiche (in Italia tutte edite dalla Einaudi). Eppure il suo pensiero, non rientrando nel paradigma liberista così come in quello marxista, è ancora poco conosciuto, anche tra gli addetti ai lavori. Le sue opere non hanno mai avuto una facile accoglienza e il suo nome rischia oggi di cadere nell’oblio. Un economista eretico, dunque, “inattuale”, soprattutto in un’epoca come la nostra di dominio incontrastato, ormai a livello planetario, del credo liberista. Anche il suo itinerario professionale, anomalo e non privo di ostacoli, non ha certo favorito la diffusione della sua opera, pur così preziosa e per molti aspetti unica. 

La riflessione di Polanyi prende le mosse da un preciso intento, che accompagna un po’ tutto il suo itinerario di ricerca: combattere il dogma della scuola economica neoclassica secondo cui il modello economico rappresentato dalla società di mercato – ovvero il modello affermatosi in Occidente a partire dalla fine dell’età medievale e poi soprattutto con la Rivoluzione industriale - è di per sé sufficiente a spiegare il funzionamento dell’economia in genere, quindi anche delle economie delle società primitive o premoderne. Tale dogma però si fonda per Polanyi su un errore di prospettiva; errore costituito dall’indebita trasposizione di meccanismi e principi propri dell’economia moderna alle società antiche. Si osserva cioè il passato con la lente distorta dal presente. Infatti secondo la scuola neoclassica la competizione economica ed il mercato, in forme certamente diversificate e circoscritte, in fin dei conti sono sempre esistiti, essendo il movente economico, la ricerca del profitto o, più in generale, di un qualche vantaggio materiale, le molle essenziali del comportamento umano. L’uomo, insomma, è da sempre homo oeconomicus. Ed è proprio per evidenziare l’errore e smascherare il pregiudizio che si celano dietro tale visione che Polanyi ha intrapreso lo studio delle economie precapitalistiche, ovvero delle strutture economiche delle civiltà primitive, arcaiche e premoderne, secondo un’ottica che per i fini preposti non poteva limitarsi all’analisi delle sole dinamiche economiche proprie di quelle società, ma si estendeva ai diversi ambiti dell’agire umano, valorizzando i contributi di discipline quali l’antropologia, l’etnologia, la sociologia. L’obiettivo della sua ricerca – secondo le sue esplicite intenzioni – era quello di creare una vera e propria “antropologia economica”. Ecco perché sarebbe alquanto riduttivo considerare Polanyi un semplice economista o uno storico dell’economia. Ed ecco perché il suo nome e i suoi studi sono spesso ricordati ed apprezzati più in ambito storico che in quello prettamente economico.

Per capire le ragioni che hanno spinto Polanyi a criticare e a mettere in discussione le convinzioni fondamentali della scienza economica del suo tempo, saranno utili anche alcuni accenni alla sua biografia. Nato nel 1886 a Budapest, compie studi di filosofia, diritto ed economia, frequentando in principio ambienti culturali e politici ungheresi di orientamento radical-socialista. Tra il 1924 e il 1933 a Vienna, dove si era trasferito, è redattore per gli affari esteri della rivista di politica ed economia Oesterreichische Volskwirt, sulla quale si occupa soprattutto di problemi economici inerenti alla società inglese. In un periodo dominato dallo scontro teorico, intellettuale e politico tra la visione economica liberista e quella di tradizione marxista - tradizione che con la Rivoluzione d’ottobre troverà il suo primo tentativo di realizzazione pratica su larga scala – Polanyi propende per un’economia regolamentata e guidata dall’alto, pur senza aderire agli esiti totalitari dell’esperienza russa. Nel 1933, ostile al fascismo ormai dilagante e mentre i paesi capitalistici iniziano lentamente a riprendersi dalla “grande depressione”, Polanyi si trasferisce in Inghilterra, dove terrà conferenze su temi economici alla Workers’ Educational Association e si legherà ad ambienti del socialismo inglese, in particolare quelli di ispirazione “umanista” (come ad esempio il “Guld Socialism” o frazioni utopiste di tradizione oweniana), prendendo le distanze sia dal capitalismo che da un’economia rigidamente pianificata. Nel 1934 pubblica il saggio L’essenza del fascismo, che pur essendo uno scritto di critica filosofico-politica dell’ideologia fascista, presenta considerazioni ed intuizioni di tipo socio-economico che anticipano l’analisi compiuta dieci anni più tardi in quella che sarà destinata a rimanere la sua opera più nota: La grande trasformazione, pubblicata nel 1944 negli Stati Uniti, nei quali Polanyi si era recato come borsista al Bennington College. Negli Stati Uniti tornerà dopo la guerra, nel 1947, come “visiting professor” di economia alla Columbia University di New York, incarico che manterrà fino al 1953, acquisendo anche la cittadinanza statunitense. Polanyi muore a Toronto nel 1964.

Come già il saggio del 1934, La grande trasformazione spiega l’avvento del fascismo all’interno di un’ampia analisi che ripercorre l’intera storia del capitalismo dall’Ottocento fino agli anni Trenta del secolo successivo, soffermandosi in particolare sulla disamina del capitalismo in Inghilterra, ovvero nel paese dove esso aveva avuto i suoi natali. La storia del capitalismo è vista da Polanyi come storia della sua “crisi”, crisi dovuta, in ultima analisi, all’innaturalità e quindi all’impossibilità di una società retta unicamente dalle leggi di mercato e del laissez-faire. E’ questa la grande intuizione di Polanyi, intuizione la cui portata va ben oltre l’analisi del determinato periodo storico preso in esame nel libro. Quel che Polanyi evidenzia è che la società di mercato risulta alla fine un episodio eccezionale nella storia dell'umanità; società per tanto incapace di riprodursi senza accogliere forme e strutture le quali, in un modo o nell’altro, finiscono per limitare il libero scambio che altrimenti, portato alle sue estreme conseguenze secondo la logica stessa dei teorici liberisti, porterebbe alla dissoluzione della società stessa. Da qui la nascita delle correnti socialiste e riformatrici che fin dai suoi prodromi hanno accompagnato l’ascesa del capitalismo, per arrivare al protezionismo di fine Ottocento e al capitalismo “organizzato” e “corporativista” degli anni Trenta in reazione alla grande depressione; tentativi e forme della inevitabile resistenza al mito del mercato “autoregolato”.
Per Polanyi è fondamentale distinguere quest’ultimo concetto da quello generale di “mercato”. Il cosiddetto mercato “autoregolato” nasce solo nel corso del XIX secolo, insieme alla Rivoluzione industriale; in passato esistevano certo i “mercati”, ma erano per lo più mercati locali, con prezzi non dipendenti dalla legge della domanda e dell’offerta, bensì controllati e quindi perlopiù stabili. Nelle società precapitalistiche, inoltre, il lavoro e la terra non sono oggetto di compravendita, così come la moneta non è ancora essa stessa una merce. Con l’avvento del capitalismo, invece, anche il lavoro, la terra e la stessa moneta possiedono un loro mercato e diventano quindi merci, di pari passo con la mercificazione di tutti i rapporti sociali.
Il mercato autoregolato, mito dell’economia liberista ottocentesca, entra in crisi con il crollo di Wall Street nel 1929 e la fine del “sistema aureo” – fondamento del capitalismo internazionale fino allo scoppio della prima guerra mondiale - crisi che trascina con sé la “grande illusione” di mantenere la stabilità della crescita produttiva senza una qualche forma di regolazione pubblica. Nel prendere in esame la crisi e la “grande trasformazione” subita dal mondo liberale negli anni Trenta per far fronte ad essa, Polanyi si chiede se veramente la pulsione all’acquisizione e al guadagno sia da considerarsi come una predisposizione naturale degli uomini. La sua risposta è che il capitalismo, al contrario di quanto sostenuto dalla scuola classica che vedeva in esso la forma “naturale” dell’agire umano, è invece a un’anomalia storica, perché mentre i precedenti rapporti economici erano subordinati ai rapporti sociali, con il capitalismo sono i rapporti sociali ad essere definiti tramite i rapporti economici. E’ da queste conclusioni che si avvierà la successiva riflessione di Polanyi, unitamente ai suoi collaboratori dell’Università della Columbia, volta allo studio comparato delle diverse economie della storia, distogliendo l’attenzione dai soli problemi delle economie contemporanee, siano esse capitaliste o socialiste, e concentrandosi sempre più sullo studio delle società antiche e premoderne. Tali ricerche confluiranno poi nelle opere sopra citate – Traffici e mercati negli antichi imperi, del 1957, e La sussistenza dell'uomo: il ruolo dell'economia nelle società antiche, uscita postuma nel 1977 - e in numerosi altri saggi e scritti (alcuni dei quali raccolti nel volume Economie primitive, arcaiche e moderne, pubblicato in Italia sempre dall’Einaudi nel 1980).

La riflessione di Polanyi parte da questo assunto fondamentale: per comprendere la vita economica delle società antiche e – a partire da questa – la realtà economica moderna, bisogna innanzi tutto chiarire lo stesso concetto di  “economia”. Secondo Polanyi la scienza economica moderna si è limitata ad esprimere un concetto di economia puramente “formale”, concetto che pretende di essere universale, ovvero valido in tutti i tempi e per tutte i consessi umani. Tale concetto si basa essenzialmente sulle nozioni di “scarsità” e di “massimizzazione”: ancor oggi, basta aprire qualsiasi manuale di economia e questa viene irrimediabilmente definita quale l’insieme delle azioni volte ad ottenere il massimo utile all’interno di una situazione di scarsità dei mezzi materiali di sussistenza. Tale definizione è per Polanyi meramente “formale” nel senso di astrarre completamente dal reale contesto sociale ed istituzionale all’interno del quale ogni azione umana viene ad inserirsi ed esplicarsi. Lungi dall’essere una definizione valida per ogni contesto, essa riflette piuttosto una realtà storica ben precisa, quella dell’economia di mercato, ovvero di una realtà sociale caratterizzata da soggetti che agiscono individualmente sulla base di scelte razionali al fine di ottenere il massimo profitto a partire dalla scarsità dei mezzi a disposizione. Come vediamo, si tratta della logica dell’homo oeconomicus, logica fondata su una concezione prettamente utilitaristica dell’agire umano. A tale definizione “formale” Polanyi contrappone una definizione “sostanziale”: “il significato sostanziale dell’economia – afferma – deriva dal fatto che l’uomo dipende per la sua sopravvivenza dalla natura e dai suoi simili. Esso si riferisce a quell’interscambio tra il soggetto e il suo ambiente naturale e sociale che ha per scopo di procurargli mezzi materiali per il soddisfacimento dei sui bisogni”. Quello che Polanyi vuole evidenziare con tale definizione è che l’economia, lungi dal definire un’azione individuale volta alla ricerca dell’utile personale, è un processo “istituzionalizzato”, che trova cioè la sua ragion d’essere nelle istituzioni, ovvero nei rapporti generali istaurati dagli uomini di una determinata società. Per Polanyi un processo economico ha un’autentica realtà soltanto nell’ambito di una forma sociale concreta, specifica. Esso si inserisce in un contesto di strutture sociali che vanno a costituire la “semantica” delle sue forme e delle sue funzioni, assicurandone il reale funzionamento e la stabilità. Secondo i tempi e i luoghi, il processo economico può inserirsi e concatenarsi all’interno delle più svariate istituzioni – la parentela, la politica, la religione; istituzioni, quindi, non soltanto economiche, volte ad assicurare cioè i soli mezzi di sussistenza materiale. Compito dello storico dell’economia sarà quello di analizzare i diversi modi in cui l’economia si è, a seconda appunto dei tempi e dei luoghi, “istituzionalizzata” e, a partire da ciò, la “semantica”, ovvero il significato e la valenza che nell’immaginario degli uomini di quella determinata società l’economia ha assunto.

Attraverso analisi storiche che spaziano dall’antichità mesopotamica, egizia e greca per arrivare a toccare le civiltà maya e azteca, la società indiana e quella africana pre-coloniale, Polanyi individua tre tipi essenziali di organizzazione ed integrazione istituzionale all’interno dei quali si definiscono i processi economici: “reciprocità”, “redistribuzione” e “scambio” (a questi si potrebbe aggiungere un quarto tipo, l’ “economia domestica”, che però viene vista più che altro come sottotipo degli altri tre, in riferimento soprattutto all’economia familiare contadina). Tali tipi – considerati nel senso “weberiano” del termine, dunque quali realtà “limite” spesso coesistenti ed intrecciate tra loro – definiscono tre specifiche modalità relazionali che si vanno a costituire tra gli uomini nell’acquisizione e nella disposizione delle risorse produttive e dei mezzi materiali destinati alla soddisfazione dei bisogni.
La “reciprocità” è caratteristica di quelle società i cui membri – siano essi considerati singolarmente o come gruppi – sono legati tra loro da una determinata e ben codificata rete di relazioni di simmetria, relazioni che ne fissano i reciproci diritti e doveri. Esempi di tale forma di integrazione possono essere rappresentati dalla società feudale europea o dall’economia di villaggio indiana, così come dalle comunità delle isole Trobriand della Melanesia, rese celebri dagli studi di Malinowski; studi che Polanyi riprende abbondantemente considerandoli il miglior sistema documentato di organizzazione sociale fondata sulla reciprocità. In tale sistema di organizzazione l’economia si fonda essenzialmente sul “dono”, o meglio su un complesso sistema di “doni” e “controdoni”, che avviene sulla base del  rigido rispetto degli obblighi reciproci che legano l’un l’altro i membri della collettività. Polanyi evidenzia come solo un’analisi superficiale e distorta dal pregiudizio economicista moderno può portare a vedere nei sistemi di “dono” e “controdono” – avvengano essi in natura o tramite mezzi di scambio che possono essere i più svariati -  uno scambio fondato sulle leggi di mercato. Il “dono” infatti si fonda sul rispetto di altre norme, quelle appunto che regolano nel loro insieme i rapporti sociali tra i diversi componenti di quella specifica comunità: sono questi a scandire e a definire le diverse fasi della vita economica, dalla produzione alla distribuzione fino al consumo. Il processo economico va quindi a sanzionare e confermare una determinata struttura di integrazione sociale, che definisce essa stessa le forme dell’economia.
La “redistribuzione” è tipica invece di società fortemente centralizzate, in cui anche lo stanziamento e la distribuzione dei beni materiali è concentrato nelle mani di un potere unico riconosciuto. Tipici esempi di economia redistributiva sono costituiti dai vasti imperi burocratici dell’antica Mesopotamia, dell’Egitto o degli Incas. Si tratta di una economia che potremmo definire “pianificata”, in cui la facoltà di determinare il ruolo che ciascun soggetto assume all’interno del processo economico è fissato da un centro dal quale emanano i criteri di collocamento delle risorse e di distribuzione dei beni. La redistribuzione può caratterizzare anche consessi umani più ristretti rispetto ai grandi imperi – l’economia domestica della Grecia e della Roma antiche, l’economia di comunità indiana o il feudo medievale sono altrettanti esempi di economia redistributiva: l’essenziale è che vi sia un’organizzazione politica di tipo centralistico, organizzazione che va a determinare anche le modalità del processo economico. Anche in questo caso, quindi, tale processo non avviene in base alla logica di mercato: i “mercati” delle economie redistributive sono infatti tutt’altra cosa rispetto ai mercati regolati dalla legge della domanda e dell’offerta, essendo in essi le regole – e quindi i criteri di fissazione dei prezzi – dettate ed amministrate dall’alto (vedi i cosiddetti “porti franchi” dell’antichità mediterranea, porti a cui Polanyi dedica grande attenzione quali esempi di quelli che egli definisce “traffici senza mercato”).
Il terzo modello economico è infine rappresentato dallo “scambio”, termine con il quale Polanyi identifica i processi economici tipici della moderna economia capitalistica. “Lo scambio – afferma – è il comportamento di persone che scambiano beni in base all’assunto che ciascuno ne trae il massimo vantaggio”. Il movente dello scambio è quindi la ricerca di un utile personale, attraverso una scelta razionale dei mezzi in rapporto ai fini, e in cui il prezzo del bene scambiato è determinato dalla libera contrattazione secondo il meccanismo domanda-offerta. Perché sia possibile una simile modalità di transazione dei beni – quella che Polanyi già ne La grande trasformazione chiama “mercato autoregolato” per distinguerlo dalle altre forme di mercato – è necessaria la presenza di un modello di integrazione sociale fondato sulla realtà di soggetti considerati nella loro irriducibile individualità, monadi isolate e slegate da ogni relazione interpersonale se non quella scaturente dall’autonoma iniziativa di ciascuno. Un’economia fondata sull’assoluta proprietà individuale dei beni e sulla libera concorrenza economica è la naturale conseguenza di una tale forma di istituzionalizzazione. L’economia di mercato perde quindi ogni carattere “naturale”, “metastorico”; “non è il risultato – dice Polanyi – di una qualche debolezza umana, non è riconducibile al mero desiderio individuale di trafficare, barattare e scambiare”, come un’antropologia superficiale o la scuola classica dell’economia ci vogliono far credere, ravvisandosi i suoi presupposti in una ben precisa morfologia sociale storicamente determinata. Morfologia che ha sì caratterizzato la storia dell’Occidente moderno, ma che Polanyi riconosce essersi parzialmente affermata, insieme ed accanto alle altre tipologie economiche, anche altrove, ad esempio in Grecia a partire dal IV secolo a.C. A tal proposito molto illuminanti appaiono le pagine da Polanyi dedicate agli spunti di riflessione economica presenti negli scritti di Aristotele, del quale vengono sottolineate le geniali intuizioni. In un’epoca in cui le forme di economia di mercato sono in una fase embrionale, il grande filosofo coglie già la differenza tra le attività volte alla semplice sussistenza - quali l’economia propriamente detta, che Aristotele identifica con l’economia domestica (economia viene infatti dal greco oikos, casa, l’oikonomia essendo così il “governo della casa”) e lo scambio volto alla provvista dei beni non prodotti in proprio (la cosiddetta crematistica, l’ “arte degli acquisti”) - e l’attività volta invece al guadagno, all’utile personale (la cattiva crematistica), attività considerata da Aristotele una degenerazione innaturale della prima.  

Attraverso lo studio dei diversi tipi di integrazione sociale si rende possibile l’individuazione del “posto” che l’economia occupa nella società, secondo una prospettiva di analisi che ha guidato tutta la ricerca di Polanyi, conducendolo ai risultati e ai contributi più originali. E in tale prospettiva che egli distingue società dove l’economia è embedded (termine inglese traducibile con “inserita”, “incorporata”, “immersa”) in contesti relazionali che economici non sono – ed è il caso dei contesti fondati sulla “reciprocità” e sulla “redistribuzione” - e società in cui l’economia è “disinserita”, “scorporata” dalla società stessa, come avviene nelle società rette dall’economia di mercato. E’ questa una distinzione fondamentale. Dove l’economia è “inserita” nella società, sono le relazioni di parentela, i legami personali, i rapporti di sottomissione politica o i doveri religiosi a determinare anche le modalità delle relazioni di tipo economico; mentre laddove l’economia si “scorpora”, sono le relazioni economiche a determinare, viceversa, la forma di tutti gli altri ambiti relazionali che si vengono a stabilire nella società. Ciò comporta conseguenze di notevole rilevanza in merito alla stessa immagine che dell’economia hanno avuto le diverse civiltà succedutesi nella storia: si passa, infatti, da società in cui l’economia non è in nessun posto – confondendosi con le dinamiche parentali, politiche o religiose – ad una società, come quella capitalistica, dove l’economia è dappertutto. Da qui quello che agli occhi di noi moderni occidentali potrebbe sembrare addirittura un’assurdità: non solo l’economia di mercato rappresenta un’eccezione nell’ambito della storia economica dell’umanità, ma è lo stesso concetto di “economia” a rappresentare una creazione della moderna società capitalistica. Per Polanyi, infatti, inventando l’economia di mercato, l’Occidente ha inventato, per così dire, la stessa “economia”, dato che solo all’interno di una società in cui l’economia, scorporandosi dalla società, detta essa stessa le regole generali della convivenza l’uomo ha potuto prendere coscienza di essa come sfera di attività autonoma e rispondente a leggi proprie. “Finché – afferma Polanyi – prevalgono quelle forme di integrazione [la reciprocità e la redistribuzione] non c’è bisogno che sorga un concetto specifico di economia. Gli elementi dell’economia in questo caso sono incorporati in istituzioni non economiche. In queste condizioni il termine ‘vita economica’ non avrebbe alcun significato preciso. Le emozioni individuali non si riferiscono ad alcuna esperienza che possa essere chiamata economica. L’individuo non percepisce in modo distinto alcun interesse generale per le condizioni materiali della propria esistenza”. Ciò spiegherebbe, del resto, le ragioni dell’assenza nelle civiltà precapitalistiche di una scienza economica come oggi noi la intendiamo. Tale disciplina si afferma, non a caso, a partire dal Settecento, con i fisiocratici francesi prima e la scuola classica inglese di Adam Smith poi. “Prima dell’epoca moderna – prosegue Polanyi – le forme in cui gli uomini organizzarono la creazione delle condizioni materiali della loro esistenza attrassero la loro attenzione molto meno di quanto fecero altri aspetti della loro esistenza. A differenza della parentela, della magia o dell’etichetta, con le loro fondamentali espressioni concettuali, l’economia in quanto tale rimase senza nome. In genere non si aveva alcun termine per designare il concetto di economia. Si può dire, quindi, per quanto se ne sa, che tale concetto non esisteva. I clan e i totem, i gruppi sessuali, di coetanei, le forze dello spirito e le pratiche cerimoniali, le usanze e il rituale erano tutti istituzionalizzati attraverso complicati sistemi simbolici, mancava invece qualsiasi termine che designasse l’economia come attività volta a procurare il cibo necessario alla sopravvivenza fisica dell’uomo. Non può essere considerato casuale il fatto che fino ad epoche molte recenti mancasse, anche nelle lingue dei popoli civilizzati, un termine che designasse l’organizzazione delle condizioni materiali dell’esistenza”. Ciò che manca, ovviamente, è il concetto di economia, non l’economia in quanto tale: quando il processo economico si trova incorporato in un sistema di istituzioni non economiche – parentali, politiche o religiose – sono queste a definire la valenza semantica e simbolica anche della sfera dei rapporti materiali. Il contadino della società feudale vive le prestazioni economiche che deve al signore come espressione dei doveri di fedeltà che a quello lo legano: il primus, nel suo immaginario, è il vincolo personale, non la prestazione economica. Il salariato della moderna società capitalistica è invece legato alla sua controparte da un vincolo esso stesso economico – il contratto: egli vive quindi la relazione con l’altro innanzi tutto come relazione economica. Bisognava attendere, quindi, che i rapporti contrattuali si erigessero a modello di qualsivoglia relazione sociale perché l’uomo prendesse coscienza dell’economia come sfera autonoma e significativa della sua esistenza: non a caso l’ “inventore” dell’economia, prima che questa assurgesse a vera e propria scienza nel Settecento, è, per Polanyi, Aristotele, ovvero un filosofo vissuto in un’epoca che ha visto nascere i primi prodromi di un’economia di mercato. Di qui anche le critiche che Polanyi rivolge al pensiero economico marxista, di cui comunque, per alcuni aspetti, è debitore. Polanyi infatti riconosce come Marx abbia per primo denunciato il carattere “ideologico” dell’economia classica, evidenziando come le presunte “leggi naturali” del mercato altro non siano che il prodotto di ben determinate circostanze storiche non rinvenibili in altri contesti. Il marxismo però, ad avviso di Polanyi, rimane esso stesso prigioniero del pregiudizio economicista moderno, secondo cui l’uomo, in ultima analisi, si riduce all’homo oeconomicus, essendo la soddisfazione dei bisogni materiali il movente principe del suo agire. La ricerca di Polanyi ci ha invece portato a scoprire come non sia stato sempre così, e che l’immaginario religioso, etico e politico ha invece nella maggior parte dei casi prevalso su quello economico assorbendolo completamente all’interno dei suoi specifici parametri. Anche l’evoluzionismo finalistico proprio del marxismo, che vede nella storia il succedersi lineare e progressivo di diversi “stadi” di sviluppo delle forze produttive, è estraneo alla visione di Polanyi: le diverse forme di integrazione sociale ed economica – la reciprocità, la redistribuzione e lo scambio - non rappresentano infatti “stadi” di un unico sviluppo storico: esse non implicano nessuna sequenza temporale, potendo coesistere o alternarsi nel corso della storia, affermandosi e riapparendo dopo periodi di eclissi temporanea.

Il campo di analisi così come gli interessi di Polanyi sono stati dunque davvero vasti ed impegnativi. A voler riassumere, nell’intento di trovare un senso ed una direzione unitaria alla sua molteplice ricerca, possiamo dire che egli cercò di individuare i diversi ruoli che l’economia gioca all’interno dei consessi umani, evidenziando come il sistema di mercato dell’Occidente avesse, con la sua affermazione, usurpato le generiche funzioni e l’integrità della società decretando la supremazia assoluta dei valori economici. La sua opera assume quindi, inevitabilmente, anche un significato politico e sociale. La sua forza ispiratrice – e al contempo polemica – è la convinzione che tale supremazia rappresenti un’eccezione e non certo la regola del divenire storico, essendo stato possibile, in altre epoche e presso altre civiltà, produrre e distribuire i mezzi di sussistenza conservando al tempo stesso la dimensione comunitaria e simbolica della società. Per questo egli contestò il dogma liberale secondo cui la libertà e la giustizia si legano intrinsecamente all’economia di mercato, così come contestò il determinismo economico, credo dell’altra fede economico-filosofica dell’età moderna, il marxismo. Oggi che quest’ultimo ha ormai esaurito ogni spinta propulsiva mentre l’altro celebra i suoi trionfi su scala mondiale sradicando implacabile le ultime forme di civiltà “altre”, l’opera dell’inattuale Polanyi torna inaspettatamente d’attualità, suscitando nuovo interesse in quelle correnti di pensiero critiche della globalizzazione, in particolare tra coloro – si pensi ad un autore come Serge Latouche – ormai consapevoli che la vera sfida non si pone tanto sul terreno economico, ma piuttosto su quello delle mentalità e delle visioni del mondo, in quanto gli stessi problemi materiali che travagliano l’umanità odierna difficilmente potranno essere risolti se non iniziamo innanzi tutto a de-colonizzare il nostro immaginario dal pregiudizio economicista. C’è stato un tempo – abbiamo visto - in cui l’economia non esisteva; ma “la mancanza di tale concetto – insegna Polanyi – non ha impedito all’uomo di far fronte alle esigenze della sua vita quotidiana. C’è piuttosto da domandarsi se la percezione di una sfera economica distinta non tenda a ridurre la sua capacità di rispondere spontaneamente alle esigenze di sopravvivenza attraverso canali diversi da quelli economici”.