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Olismo e scienza

di Giancarlo Dubolino - 01/08/2008

 

 

La teoria di un universo concettualmente unitario, dove tutto è uno e le differenze sono solamente di scala, è antichissima e pur se con accenti diversi è presente in molte civiltà del passato. Ripresa dall’odierno pensiero olistico, sostanzialmente essa sostiene che nell’infinitamente piccolo troviamo le stesse leggi dell’infinitamente grande e nulla nell’universo è isolato, per cui ogni cosa può influenzare le altre ed esserne a sua volta influenzata, seppure in modi non sempre immediatamente percepibili dall’uomo. Ora, in maniera affatto sorprendente, emerge che queste ideee apparentemente molto astratte, pur se ancora a livello di ipotesi sembrano trovare un singolare parallelismo e la loro ragion d’essere proprio nelle ultime teorie scientifiche inerenti alle leggi fondamentali della materia. 

Rovesciando i termini con i quali a volte vengono affrontate tali problematiche, ora non è più l’astratta speculazione filosofica che cerca le sue fondamenta nelle certezze della scienza; infatti, adesso è invece la scienza che, avendo scoperto nuove ed insospettabili verità, necessita di un pensiero globale in grado di offrire una visione sistematica d’insieme. Quali sono allora queste verità?

Almeno per quanto attiene all’argomento in termini, parliamo di quel complesso di teorie fisiche formulate nella prima metà del ventesimo secolo, sinteticamente denominate meccanica quantistica, che descrivono il comportamento della materia a livello microscopico per scale di lunghezza pari o inferiori a quelle dell’atomo o ad energie espresse dalle interazioni interatomiche, dove vengono a cadere le ipotesi alla base della meccanica classica.   

In tale ambito uno dei principali punti di riferimento è il “principio di indeterminazione” elaborato da Heisenberg, secondo il quale vi sono coppie di grandezze variabili che, essendo tra loro non compatibili, non possono essere misurate simultaneamente; in concreto, per la coppia posizione/movimento non è possibile conoscere simultaneamente i due valori perchè maggiore è la precisione con cui si rileva la posizione di un corpo, minore è la precisione con cui è possibile determinarne la quantità di moto, e viceversa. Egualmente dicasi, ad esempio,  per la coppia energia/tempo.

Semplificando, osserviamo che le nostre valutazioni sono sempre soggette al presupposto di “vedere” l’oggetto da misurare, che quindi va illuminato; ma la luce non è inerte, bensì è composta da tanti fotoni che contengono e quindi trasmettono energia. Se dunque noi volessimo stabilire la posizione e la traiettoria di un elettrone nella sua evoluzione orbitale attorno al nucleo dell’atomo, illuminandolo lo colpiremmo trasmettendogli energia, e quindi ne perturberemmo la traiettoria in maniera significativa dato che entrambi – fotone ed elettrone – possiedono una forza energetica quantitativamente similare. Utilizzando una luce ad alta frequenza (ovvero con più energia) potremmo certo fissarne la posizione in maniera soddisfacente, ma appunto non riusciremmo a individuare la traiettoria in quanto da noi stessi perturbata; invece con una luce a bassa frequenza (diciamo, meno forte) apparirebbe più chiara la traiettoria ma sfocata ed imprecisa la posizione.

Sapendo che comunque l’elettrone c’è, il suo movimento viene rappresentato con una funzione o diagramma che indica l’area minima e massima di evoluzione attorno al nucleo, entro la quale esso viene presumibilmente a trovarsi, ovvero la “funzione d’onda”o anche “onda di probabilità”. Viene così a cadere la distinzione classica tra particelle e onde, mentre è chiaro che la descrizione e l’evoluzione temporale di un sistema così definito ha carattere ondulatorio e probabilistico. Al suo interno poi la misura dell’andamento non configura un flusso continuo ma una sequenza di elementi (i “quanti”, ovvero gli elettroni, i fotoni, ecc.) dal movimento irregolare e non determinabile. Le conseguenze sono importanti e assolutamente sorprendenti: il fatto di non sapere dove si trovi il nostro fantomatico elettrone (ma, volendo, anche un intero fascio di elettroni oppure altre particelle subatomiche) significa che al limite un ipotetico spazio da noi ritenuto vuoto potrebbe in realtà non essere così vuoto, ma pieno di fluttuazioni (le onde) di brevissima durata.

 

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Questo nell’infinitamente piccolo…e nell’infinitamente grande? Non sappiamo, ma è evidente che

queste prospettive scardinano molte nostre certezze, e mettono in dubbio la stessa nostra percezione

del “reale”: se a livello elementare l’universo non esiste in forma deterministica ma solo come collezione di “onde di probabilità”, cosa succede a livello globale? Pur non possedendo una risposta nello specifico, appare evidente che non vi può essere una frattura tra il “micro” ed il “macro” e dunque ne deriverebbe che una stretta relazione lega in maniera indissolubile tutte le componenti dell’universo.

Ma la teoria dei quanti possiede anche un’altra particolarità, che per dire il vero ai nostri occhi appare pressoché incredibile: definita come “non-località quantistica”, è stata ipotizzata nel 1926 da Erwin Schrodinger e comprovata a livello sperimentale nel 1982 da Alain Aspect. Essa sostiene che due o più particelle generate da uno stesso processo, o che si siano trovate in interazione reciproca per un certo periodo, rimangono in qualche modo legate indissolubilmente nel senso che quello che accade ad una di esse si ripercuote immediatamente anche sull’altra indipendentemente dalla distanza che le separa, sia che si tratti di 10 metri o 10 miliardi di chilometri. E’ come se ogni singola particella “sappia” esattamente cosa stiano facendo tutte le altre, cosicché tutte sono in grado di interagire reciprocamente in termini immediati e simultanei.                     

Tale fatto, comunque scientificamente dimostrato, viola però il principio di località per il quale ciò che accade in un luogo non può influire immediatamente su ciò che accade in altro luogo poiché si contravverrebbe ad uno dei postulati della relatività, secondo cui nulla può viaggiare a velocità superiore a quella della luce. Allora vi sono solo due possibili spiegazioni: o la teoria della relatività di Einstein è errata (ipotesi verosimilmente non credibile), oppure le particelle subatomiche sono connesse non-localmente (dunque a prescindere dallo spazio che tra loro intercorre) secondo meccanismi a noi ignoti.

In ogni caso dobbiamo prendere atto come il fenomeno, che a suo tempo Schrodinger denominò “entanglement” (ovvero non-separabilità), contraddica le nostre abituali concezioni della realtà dell’universo, in quanto inadeguate. Tuttavia è ben chiaro che se, come sembra,  la separazione tra le particelle subatomiche fosse solo apparente, ciò significherebbe che a livello più profondo tutte le cose sono intimamente collegate; ogni suddivisione del mondo da noi immaginata (viventi e non viventi, ecc. ) diventerebbe artificiosa e tutta la natura non sarebbe altro che una immensa rete di relazioni ininterrotte.  

E’ qui dunque che il nostro cerchio concettualmente si chiude, perché forse il mondo è veramente un tutt’uno senza soluzione di continuità, dove tutto compenetra tutto…e sarebbe pertanto la conferma del pensiero olistico.    

Se per quasi tutto il suo corso la scienza occidentale ha operato nella convinzione che il modo migliore di capire un fenomeno fisico fosse quello di sezionarlo e studiarne le parti, ora abbiamo la sensazione che così facendo rischiamo di perdere di vista le interrelazioni di insieme, che sembrano comprendere in una sola matrice unitaria ed in maniera per noi sorprendente, esseri viventi e cose, a qualsiasi livello. La misteriosa capacità di relazione tra particelle che noi diciamo inerti potrebbe infatti far cadere anche la divisione tra corpo e mente, tra scienza e coscienza, e conseguentemente dovremmo valutare in una luce ben diversa quei fenomeni telepatici ed in generale extrasensoriali che oggi guardiamo con sospetto e che, nel migliore dei casi, giudichiamo incomprensibili.

Sembra fantascienza, ma d’altra parte proprio sulla base di tali scoperte si stanno sviluppando nuove tecnologie tese alla configurazione sia di computer quantistici che di crittografia quantistica, per non dire degli esperimenti relativi al teletrasporto quantistico di informazioni.

A fronte di fatti inoppugnabili abbiamo dunque le nostre incertezze, i dubbi, e varie interpretazioni di fenomeni sicuramente contraddittori, con il tentativo di inquadrare possibili risposte di tipo “globale”.

Ecco dunque che da quanto è emerso alcuni studiosi hanno avanzato ulteriori teorie sulla natura

 

 

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dell’universo, che però allo stato attuale rimangono solo delle ipotesi, pur se molto interessanti e dotate di notevole fascino. Ad esempio David Bohm, fisico dell’Università di Londra da poco scomparso, ne ha tratto la convinzione che esista un livello di realtà del quale non siamo consapevoli, una dimensione che oltrepassa quella a noi visibile proprio perchè le particelle di cui parliamo appaiono separate solo per una nostra illusione mentre in realtà non sarebbero entità individuali, ma solo estensioni di uno stesso organismo fondamentale, e quindi ogni particella conterrebbe in sé tutte le informazioni essenziali relative all’intero universo.

Ne deriverebbe necessariamente la non-esistenza della “realtà oggettiva” per il semplice motivo che il concetto di oggettività perderebbe di significato, mentre l’universo diverrebbe – nel pensiero di Bohm - una sorta di fantasma, un ologramma gigantesco ma dettagliato.

Occorre allora vedere, in estrema sintesi, che cosa è un ologramma. Si tratta di una fotografia tridimensionale così prodotta: l’oggetto da riprendere viene immerso nella luce di un raggio laser, poi un secondo raggio laser viene fatto rimbalzare sulla luce riflessa del primo e lo schema risultante dalla zona di interferenza dove i raggi si incontrano viene impresso sulla pellicola fotografica. Allo sviluppo questa mostra solo un intrico di linee ma, illuminandola con un altro raggio laser, evidenzia il soggetto ripreso su base tridimensionale. Ulteriore e fondamentale caratteristica è che dividendo anche a più riprese il negativo, ogni frammento conterrà una versione via via più piccola ma sempre pressoché  intatta della stessa immagine principale: dunque, come le particelle elementari di cui sopra, così i frammenti di pellicola conterrebbero le informazioni del “tutto”, ed ecco il perché dell’idea di ologramma.

Pur se sembra una prospettiva visionaria, è interessante notare che in tale soluzione il concetto di località viene superato perché qui nulla è veramente separato dal resto, ed ovviamente sia il tempo che lo spazio perderebbero di valore perchè passato presente e futuro coesisterebbero simultaneamente.

D’altra parte occorre sottolineare che anche le altre teorie sulla natura del nostro mondo non sono certo meno paradossali e lontane dai nostri abituali schemi di ragionamento di quanto lo sia questa;  anzi, potremmo ben dire che in particolare proprio la fisica moderna ci ha insegnato come spesso sia  la realtà a superare la fantasia.     

Come completamento di quanto esposto appare opportuno ricordare infine che, lavorando nel campo della ricerca sulle funzioni cerebrali, anche il neurofisiologo Karl Pribram dell’Università di Stanford si è dichiarato convinto della natura olografica della realtà. Partendo dal presupposto che sperimentalmente i ricordi non risultano confinati in determinate zone del cervello, egli è giunto alla conclusione che essi siano immagazzinati negli schemi degli impulsi nervosi che si intersecano attraverso tutto il tessuto cerebrale, analogamente a quanto avviene nel frammento di pellicola che contiene l’immagine olografica già descritta.

Anche qui, un’idea apparentemente fantasiosa spiegherebbe però in maniera accettabile come il cervello riesca a contenere una quantità immensa di ricordi in uno spazio molto limitato, e questo perché gli ologrammi possiedono una capacità particolarmente elevata di immagazzinare miliardi di informazioni in poco spazio. In merito, si pensa che il cervello umano possa immagazzinare circa 10 miliardi di informazioni nel corso di una vita dalla durata media. Inoltre, la struttura di correlazioni incrociata tipica del sistema olografico spiegherebbe più facilmente la stupefacente capacità che abbiamo di codificare e decodificare le informazioni via via ricevute, nonché di recuperarle all’occorrenza dal nostro magazzino cerebrale.   

Ora, se la mente è effettivamente parte di un insieme, di un labirinto collegato non solo ad ogni altra mente esistente od esistita, ma anche ad ogni atomo, organismo o zona nella vastità dello spazio, come pure al tempo stesso, non appare così strano che essa sia capace di fare delle incursioni in questo labirinto facendoci sperimentare delle esperienze extracorporee. 

“Last but not least”, unendo il pensiero di Bohm a quello di Pribram, cosa rimane della realtà oggettiva? Forse… non esiste? 

 

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Il pensiero olistico tende in linea di massima a fare proprie le convinzioni espresse da questi due

studiosi ma occorre dire che invece altri scienziati non le condividono o in parte o totalmente, pur se rimangono ovviamente aperti i problemi e gli interrogativi posti.

Diversi ricercatori hanno comunque espresso apprezzamento per il modello di realtà così delineato, ma al di là dei dettagli, della ovvia necessità di adeguati studi scientifici e delle analisi connesse per comprovare quanto immaginato, potremmo dire che l’idea olistica appare in ogni caso come una teoria non solo affascinante e convincente, ma a pensarci bene si presenta anche in maniera  molto logica, lineare e razionale,  prospettandoci la possibile realtà di “un universo concettualmente unitario, dove tutto è uno e le differenze sono solamente di scala”.