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Conoscenza e ignoranza come metafore dell’esperienza suprema. Una nota comparativa.

di Paolo Vicentini - 01/08/2008

 

 

Quando si parla di ciò che per molte tradizioni spirituali è l’esperienza suprema[1] ogni termine finisce per risultare inadeguato. La realizzazione di quella che in ambito hindû e buddhista si è chiamata esperienza della non-dualità[2] o della liberazione, in ambito greco e romano antico sapienza o saggezza[3] e nel mondo cristiano, fra l’altro, esperienza dello Spirito[4] o di Dio[5] – ma che in riferimento anche ad altri contesti culturali e storici vari autori hanno di volta in volta classificato come esperienza mistica, metafisica, del sacro, della gnosi, dell’illuminazione, della coincidentia oppositorum, ecc. –, non è un genere di conoscenza concettuale e non è nemmeno un conoscere “qualcosa”, per il semplice motivo che in essa non vi è  un “soggetto” che comprenda un “oggetto”. Visto dalla prospettiva dualistica, allora, un tale tipo di conoscenza potrebbe essere definito anche “ignoranza”. Ed infatti, secondo un noto detto sûfî (del Califfo Abû Bakr): “l’impotenza di cogliere la conoscenza è conoscenza” (al-‘ajz ‘an darakal-idrâk idrâk)[6]. Ma analogo insegnamento è reperibile in svariate altre tradizioni spirituali. Nella Kena Upanishad (II, 3), ad esempio, il Brahman è definito “Sconosciuto a colui che lo conosce; conosciuto da colui che non lo conosce” (avijñâtam vijânatâm vijñâtam avijânatâm). E Nisargadatta Maharaj, uno dei più grandi maestri della tradizione dell’advaita vedânta del secolo scorso, così spiega: “Puoi conoscere solo ciò che non è. Ciò che è, puoi solo esserlo. La conoscenza è relativa al conosciuto. In un certo senso è la controparte dell’ignoranza. Dove non c’è ignoranza, che bisogno c’è di conoscenza?”[7]. Nisargadatta Maharaj in questo suo insegnamento va addirittura oltre la stessa dualità di conoscenza e ignoranza, ma per il momento mi pare utile soffermarsi sull’utilizzazione della nozione di “ignoranza” o “non conoscenza” per indicare la conoscenza suprema. Nel testo taoista del Zhuangzi (cap. XXII) si dice del Dao: “Chi non lo conosce è profondo; chi lo conosce, superficiale. Chi non lo conosce è interiore; chi lo conosce, esteriore. […] Non conoscerlo significa dunque conoscerlo? Conoscerlo significa dunque non conoscerlo? Ma chi conosce la conoscenza relativa al non conoscere? […] Il Dao non può essere appreso; chi lo apprende, cade in errore. Il Dao non può essere visto; chi lo vede, cade in errore. Il Dao non può essere descritto; chi lo descrive, cade in errore”. Nel Kunjed Gyalpo [Kun byed rgyal po], il tantra fondamentale dello dzogchen, si trova scritto invece (cap. XXVI): “Vedere realmente significa vedere che non c’è nulla da vedere, questo è detto ‘l’occhio dell’onniscienza’”[8]. Venendo poi più a Occidente è facile menzionare Dionigi Areopagita, che scrive: “C’è una conoscenza divinissima di Dio, quella che si ottiene mediante l’ignoranza” (De divinis nominibus VII, 3). Ed ancora: “Dio è superiore ad ogni intelligenza [...]. Allora, dunque, Mosè si libera da tutte le cose che sono viste e da quelle che vedono e penetra nella caligine veramente segreta dell’ignoranza, in cui fa tacere ogni percezione conoscitiva e aderisce a colui che è completamente impalpabile e invisibile, appartenendo completamente a colui che tutto trascende e a nessun altro, né a sé né ad un altro, unito in modo superiore a colui che è completamente sconosciuto, mediante l’inattività di ogni conoscenza, e capace di conoscere al di là dell’intelligenza con il non conoscere nulla. [...] Noi preghiamo di trovarci in questa tenebra luminosissima e mediante la privazione della vista e della conoscenza poter vedere e conoscere ciò che sta oltre la visione e la conoscenza con il fatto di non vedere e di non conoscere. Questa infatti è la maniera di vedere veramente e di conoscere” (De mystica theologia I, 3 - II). Ed infine: “Se qualcuno vedendo Dio riconosce ciò che vede, allora non ha visto Dio stesso […]. L’ignoranza assoluta, presa nel senso migliore della parola, ci fa conoscere colui che sorpassa ogni cosa conosciuta” (Epistula I)[9]. La cosiddetta mistica delle “tenebre luminose” che troviamo in Dionigi influenzerà enormemente tutta la tradizione contemplativa cristiana, da Gregorio di Nissa che nel De vita Moysis adopera medesime modalità espressive[10], ad Evagrio Pontico che nella Kephalaia Gnostica (centuria III, 88) esclama: “Beato è colui che ha raggiunto l’ignoranza (agnosía) infinita”[11]; giù fino a The Cloud of Unknowing (ma in inglese antico è The Clowde of Vnknowyng)[12] e alla “noche oscura” di Juan de la Cruz. E’ interessante notare, infine, come il medesimo simbolismo della nube e delle tenebre si trovi anche nella tradizione islamica, se è vero che ‘Abdul-Karîm al-Jîlî definisce il principio “la ‘nube oscura’ come interiorità dell’essenza” (al-butûn adh-dhâtî al’amâ’î)[13].

Non mi dilungo oltre. Quello che è importante considerare a questo proposito è quanto si dice nella Brihadâranyaka Upanishad (II, 4, 14): “Ciò per mezzo del quale tutto diventa noto con che cosa lo si può conoscere? Come si può conoscere lo stesso conoscitore?” (yena-idam sarvam vijânâti / tam kena vijânîyât / vijñâtâram are kena vijânîyât).[14] A cui si può aggiungere quanto detto da Shankara nel commento (bhâshya) al passo sopra citato della Kena Upanishad: “Ciò è Brahman, poiché egli è il conoscitore, e il conoscitore può conoscere altre cose, ma non può farsi oggetto della propria conoscenza, così come il fuoco può bruciare altre cose, ma non bruciare se stesso”. Mi pare appropriato accostare questo passo a quanto scrive Platone nella Repubblica (508 E – 509 C) paragonando l’Idea del Bene, ossia il principio, a ciò che è il sole rispetto all’occhio e alla vista. Il sole non è la vista, dice Platone, ma “fornisce verità alle cose conosciute e al conoscente la facoltà di conoscerle”.[15] E quindi “come la conoscenza e la verità, allo stesso modo che la luce e la vista, è giusto ritenerle simili al sole, ma non ritenerle il sole, così è giusto considerarle entrambe simili al Bene ma non pensare che siano il Bene, perché la condizione del Bene va giudicata ancora maggiore”. Ne consegue che la realizzazione consisterà non tanto nel dare la vista, ossia la conoscenza, ad un occhio che non la possiede bensì nel voltarlo nella giusta direzione, perché esso già la possiede ma “non è voltato dalla parte giusta e non guarda dove dovrebbe” (518 D). Ecco dunque il senso di quel “rivolgimento” o “rovesciamento” (periagoghé, metastrophé) della prospettiva di cui parla Platone, ossia la vera “conversione” (metánoia) dell’anima. Non possiamo conoscere il conoscitore, perché siamo noi il conoscitore. Non però il nostro “noi” superficiale, il piccolo ego che si vede incapsulato nel corpo e separato dal mondo esterno, quanto piuttosto il conoscitore totale e universale in cui, casomai, è il corpo ad essere contenuto[16]. Noi (il nostro piccolo ego) non conosciamo nulla, è sempre il conoscitore totale che vede attraverso di noi, o meglio che conosce se stesso attraverso se stesso, in una totale identità di conoscenza, conoscente e conosciuto: “O luce etterna che sola in te sidi, sola t’intendi, e da te intelletta e intendente te ami e arridi” (Dante, Paradiso XXXIII, 124-126). E’ per questo motivo, ha scritto Alberto Ventura, che nella tradizione sûfî non si usa mai l’espressione “conoscenza di Allâh”, ma sempre “conoscenza per Allâh” (ma ‘rifah bi’Llâh)[17]. “L’occhio nel quale io vedo Dio è lo stesso occhio in cui Dio mi vede; l’occhio mio e l’occhio di Dio non sono che un solo occhio, una sola visione, una sola conoscenza, un solo amore” dice Meister Eckhart nel sermone Qui audit me[18]. Ecco perché, liberato dall’inganno che gli fa percepire la realtà come da dietro grate di un carcere di carne, che gli fa “considerare gli esseri mediante il corpo, come attraverso una prigione” (Fedone 82 E), chi ha operato il “rivolgimento” è “morto al volgo, alla moltitudine, sciolto dalli nodi de perturbati sensi, libero dal carnal carcere della materia; onde non più vegga come per forami e per finestre la sua Diana, ma avendo gittate le muraglie a terra, è tutto occhio a l’aspetto de tutto l’orizonte. Di sorte che tutto guarda come uno”[19]. Infatti, come dice lo Pseudo-Macario, “l’anima resa degna dello Spirito, fonte della sua luce, [...]  diventa tutta luce, tutta volto, tutta occhio; non vi è in essa parte alcuna che non sia ricolma degli occhi spirituali della luce, cioè non vi è in essa nulla di tenebroso, ma è trasformata tutta intera in luce e spirito ed è tutta colma di occhi; non ha alcuna parte posteriore o che stia a tergo, ma è volto in ogni lato, poiché su di essa è assisa l’ineffabile bellezza della luminosa gloria di Cristo” (Homilia I, 2)[20]. Questo occhio totale che “non ha alcuna parte posteriore”, simbolo del puro vedere al di là del soggetto e dell’oggetto, è equivalente a quello che Ibn ‘Arabî, conformemente alle parole del Profeta[21], ha definito un “volto senza nuca” (wajh bilâ qâfâ’): “Sappi che il Profeta è interamente volto, senza nuca. Quando ho ereditato da lui questa stazione (maqâm), tanto che divenne mia, stavo dirigendo la preghiera alla moschea Al-Azhar di Fez. Allorché fui al mihrâb la mia essenza intera divenne un solo occhio, vedevo da tutti i lati, così come vedevo la qibla. Niente sfuggiva al mio sguardo, né chi entrava né chi usciva, e nemmeno colui che compiva la preghiera dietro a me”[22]. Altrove Ibn ‘Arabî descrive questo stato come un divenire tutto luce, in quanto occhio che vede in ogni direzione: “Quando vidi questa luce, per me cessò di esistere lo statuto del dietro (al-khalf). Io non vedevo più, per me, né schiena né nuca. In quella visione (ru’ya) io non distinguevo più nessuno dei miei lati: anzi, ero come una sfera (mithl al-ukra)”[23]. Molto si potrebbe aggiungere sul simbolismo della sfera, ma il discorso porterebbe troppo lontano. E’ utile invece sottolineare come il simbolismo dell’occhio che vede tutto (The All-Seeing Eye)[24] si ritrovi anche nella tradizione hindû[25], greca[26] e buddhista: “Per quanto montagne, fiumi, regioni, forme e apparenze possano essere immensamente diversi, tutto è nell’occhio del Buddha. Anche voi siete nell’occhio del Buddha. Non soltanto siete lì: l’occhio è diventato voi. L’occhio del Buddha è diventato l’intero corpo di ognuno, e ogni corpo è lì perfettamente eretto. Perciò questo limpido occhio luminoso che abbraccia tutto il tempo non va considerato come le persone qui presenti: voi siete l’occhio del Buddha, il Buddha è il vostro intero corpo”[27].

Abbiamo qui esaminato brevemente, fornendone alcuni esempi, due modi opposti ma complementari di indicare ciò che in molte tradizioni spirituali è considerata come l’esperienza suprema: quello che fa riferimento alla metafora della conoscenza e al simbolismo della visione e quello che, inversamente, fa riferimento alla metafora dell’ignoranza e al simbolismo dell’oscurità. Va da sé che, poiché queste diverse modalità espressive vogliono solo cercare di alludere ad una condizione che si situa al di là degli opposti, senza per altro annullarli, non hanno nessuna pretesa di assolutezza, ponendosi casomai solo come utili espedienti per portare il “soggetto” a realizzare uno stato di per sé indefinibile. In effetti pare più corretto parlare di “realizzazione” di un tale stato, perché ciò implica non tanto la creazione o il raggiungimento di qualche dimensione completamente nuova del reale, quanto la scoperta, o riscoperta, di qualcosa che è già dato da sempre, ma di cui non ci accorgiamo in quanto il nostro occhio non guarda nella giusta direzione. Come scrive Alan Watts: “il cielo ci appare sopra di noi, ma in realtà noi siamo dentro al cielo”[28]. Oppure, per usare le parole ancora migliori del grandissimo maestro dello shivaismo kashmiro Abhinavagupta: “Nel processo di liberazione non viene in realtà fatto nulla di nuovo, né viene illuminata una cosa che prima tale veramente non fosse, bensì semplicemente rimossa l’idea che ciò che è luminoso tale invece non sia. Il fatto di ottenere lo stato del Signore, la liberazione, non è in effetti altro che tale rimozione, e, inversamente, la trasmigrazione, la non rimozione di questa idea. L’essenza di ambedue non è infatti null’altro che una presunzione; così come ambedue non sono altro che un’espressione del beato”[29].

 

 

Paolo Vicentini

 



[1] Per la nozione di “esperienza suprema” si veda Raimon Panikkar, L’esperienza suprema. Le vie dell’Oriente e dell’Occidente, in Id., Mito, fede ed ermeneutica. Il triplice velo della realtà, Jaca Book, Milano 2000, pp. 287-311.

[2] Cfr. D. Loy, Nonduality: A Study in Comparative Philosophy, Humanity Books, New York 1999. In questo studio David Loy mostra come anche per il taoismo l’esperienza suprema abbia carattere non-duale.

[3] Cfr. A. Tonelli, Essere conoscenza: una nota intorno alla Sapienza greca, in «Glaux», 2002, n. 2, pp. 65-70.

[4] Cfr. M. Vannini, L’esperienza dello Spirito, Edizioni Augustinus, Palermo 1991.

[5] Cfr. R. Panikkar, L’esperienza di Dio, Queriniana, Brescia 1998.

[6] Per la traduzione ed il commento di questo detto si veda Alberto Ventura, L’esoterismo islamico, Atanòr, Roma 1981, pp. 31-32; ma anche P. Urizzi, La Visione teofanica secondo Ibn ‘Arabî, in «Perennia Verba», 1998, n. 2, pp. 6-8. Cfr. inoltre: “Non vi è nulla, assolutamente nulla, sguardi o checchessia, che esista all’infuori di Lui [Allâh], ma è Egli che comprende la propria Esistenza senza [tuttavia] che tale comprensione esista in modo qualunque” (Ibn ‘Arabî, Il trattato dell’Unità [Risâlatu-l-Ahadiyyah], in «Rivista di Studi Tradizionali», 1988, n. 66, p. 28).

[7] Nisargadatta Maharaj, Io sono Quello, Rizzoli, Milano 1982, vol. II, p. 80.

[8] Se ne può trovare un’ottima traduzione antologica in Chögyal Namkhai Norbu e Adriano Clemente, La suprema sorgente, Ubaldini, Roma 1997; il passo che ho citato si trova a p. 174. Sul simbolismo dell’occhio si veda quanto detto infra. Cfr. anche: “La prajñâ non conoscendo, conosce tutto; la prajñâ non vedendo, vede tutto” (L’insegnamento Zen di Hui Hai sull’illuminazione improvvisa, a cura di J. Blofeld, Ubaldini, Roma 1977. p. 37). Come spiega più avanti questo testo, la “non percezione” o “non conoscenza” equivale al non attaccamento nei confronti sia del soggetto che percepisce sia dell’oggetto che è percepito: “Cosa significa giusta percezione? Significa che non c’è nulla da percepire. E questo cosa significa? Significa osservare ogni tipo di forma, ma senza essere macchiati da essa poiché nessun pensiero di amore o di avversione sorge nella mente. Il raggiungimento di questo stato è definito ottenere l’Occhio del Buddha” (Ibid., p. 41). Ciò equivale a quanto insegnato dal Buddha: “ogni volta che vedi una forma, ci sia soltanto il vedere; ogni volta che odi un suono, ci sia soltanto l’udire; ogni volta che senti un odore, ci sia soltanto l’odorare; ogni volta che gusti un sapore, ci sia soltanto il gustare; ogni volta che sorge un pensiero, sia soltanto un fenomeno naturale che nasce nella mente. Praticando così, non ci sarà alcun io. Senza alcun io, non ci sarà alcun andare e venire, né alcun arrestarsi. L’io è estinto. Questa è la fine della sofferenza (dukkha). Questa è l’estinzione (nibbâna)” (Udâna I, 10).

[9] Questi passi possono essere rintracciati in Dionigi Areopagita, Tutte le opere, Rusconi, Milano 1999, alle pp. 355, 409-410, 419-420.

[10] Su questi aspetti si troverà una utile documentazione nel saggio di Henri-Charles Puech, La Tenebra mistica nello Pseudo-Dionigi Areopagita e nella tradizione patristica, in Id., Sulle tracce della Gnosi, Adelphi, Milano 1985, pp. 149-170. Ma si vedano anche i paragrafi La teologia negativa e La tenebra luminosa in Tomáš Špidlík, La preghiera secondo la tradizione dell’Oriente cristiano, Lipa, Roma 2002, pp. 261-278, e l’utile bibliografia su questi temi alle pp. 499-504.

[11] Per questo aspetto dell’opera evagriana si vedano i saggi di I. Hausherr, Ignorance infinie e Ignorance infinie ou science infinie?, in Id., Hésychasme et prière, Pontificio Istituto Orientale, Roma 1966, pp. 38-49 e 238-246.

[12] Consigliabile la traduzione italiana di Giuseppe Brivio: La nube della non-conoscenza, Àncora, Milano 1990, sia per la corposa introduzione di Antonio Gentili (pp. 7-115) che tenta anche una analisi comparativa con lo zen sulla scorta di Thomas Merton, Hugo Enomiya Lassalle e William Johnston (pp. 101-108), sia perché comprende anche gli altri scritti del medesimo, anonimo, autore del XIV secolo.

[13] A. Ventura, op. cit., p. 28. Il temine qui utilizzato per “nube” è ‘amâ’ (con hamza finale), mentre altrove lo stesso Jîlî  utilizza il termine ‘amâ (senza hamza finale) per indicare le “tenebre” divine: si veda ‘Abdul-Karîm al-Jîlî, L’Uomo Universale. Antologia dall’opera Al-Insân al-Kâmil, a cura di T. Burckhardt, Mediterranee, Roma 1981, pp. 69-73.

[14] Ma si veda anche Brihadâranyaka Upanishad III, 4, 2; IV, 5, 15; ecc. Cfr.: “Vi abbiam mostrato uno spettatore, cieco a se stesso” (Jîlî, Al-Insân al-Kâmil, cit., p. 69); “Un uomo dell’antichità disse: ‘Il coltello non taglia se stesso, il dito non tocca se stesso, la mente non conosce se stessa, l’occhio non vede se stesso’. Questa è la vera realtà” (Foyan, L’istante zen, a cura di T. Cleary, Mondadori, Milano 2001, p. 55).

[15] “Ciò che con l’occhio non si vede, ma mediante il quale gli occhi vedono, questo è il Brahman” (Kena Upanishad I, 6).

[16] “E una volta che fu compiuta tutta quanta la costituzione dell’anima, secondo l’intelligenza di Colui che l’ha costituita, dopo di questo egli compose dentro di essa tutto quanto ha carattere corporeo” (Timeo 36 D). Per una trattazione del “rivolgimento” della prospettiva con particolare attenzione alla tradizione islamica e hindû si veda R. Guénon, Spirito nel corpo o corpo nello spirito?, in Id., Iniziazione e realizzazione spirituale, Luni, Milano 1997, pp. 187-194 (cap. XXX). Per altro materiale su questo tema, tratto da varie tradizioni spirituali e in riferimento specialmente al simbolismo dell’albero inverso, si veda A. Coomarasvamy, L’albero rovesciato, in Id., Il grande brivido. Saggi di simbolica e arte, Adelphi, Milano 1987, pp. 323-353, cui è utile affiancare come breve commento R. Guénon, L’Albero del Mondo, in Id., Simboli della scienza sacra, Adelphi, Milano 1975, pp. 279-283. Cfr. anche: “Ciò che era interiore ho fatto esteriore, e ciò che era esteriore ho fatto interiore, e tutta la pienezza è stata compiuta in me” (Atti di Tommaso 147). La tematica del “capovolgimento” in ambito gnostico, ricollegabile al mito dell’“Adamo capovolto”, è trattata da A. Di Nola, Gesù segreto, Lato Side, Roma 1980, pp. 39-48. Il tema della “visione rovesciata” nel sufismo, in riferimento ad un passo del Mantiq at-Tayr che invita a “camminare con la testa”, è invece brevemente trattato da Carlo Saccone in Farîd ad-dîn ‘Attâr, Il verbo degli uccelli, a cura di C. Saccone, Mondadori, Milano 1999, p. 367 n. 19.

[17] A. Ventura, op. cit., p. 32 n. 48. Cfr. anche: “Quando la conoscenza (al-irfân) ti sarà giunta saprai che hai conosciuto Allâh per mezzo di Allâh, e non da te stesso. [...] Dunque, ‘Colui che conosce’ e ‘Ciò che è conosciuto’ sono identici, così come sono identici ‘Colui che arriva’ e ‘Ciò a cui si arriva’, ‘Colui che vede’ e ‘Ciò che è visto’. ‘Colui che sa’ è Suo attributo; ‘ciò che è saputo’ è Sua essenza o ‘natura intima’. ‘Colui che giunge’ è il Suo attributo; ‘Ciò a cui si arriva’ è la Sua essenza. Ora, la qualità e ciò che la possiede sono identici. Questa è la spiegazione della formula ‘Colui che si conosce, conosce il proprio Signore’. Chi afferra il senso di questa similitudine comprende che non vi è né unione né separazione. Egli capisce che ‘Colui che sa’ è Lui, e che ‘Ciò che è saputo’ è ancora Lui. ‘Colui che vede’ è Lui; ‘Ciò che è visto’ è ancora Lui. ‘Colui che arriva’ è Lui; ‘Ciò a cui si arriva’ nell’unione è anch’esso Lui. Nessun altri che Lui può congiungersi a Lui o arrivare a Lui. Nessun altri che Lui si separa da Lui” (Ibn ‘Arabî, Il trattato dell’Unità, cit., pp. 21-22).

[18] Meister Eckhart, I sermoni, a cura di M. Vannini, Paoline, Milano 2002, p. 172. Cfr. anche: “se ‘il Credente è lo specchio del credente’, allora egli è Lui stesso, in virtù del suo occhio, o del suo sguardo. Il suo occhio è l’occhio di Dio, il suo sguardo è lo sguardo di Dio, senza alcuna distinzione” (Ibn ‘Arabî, Il trattato dell’Unità, cit., p. 25). “Quando il mio Amato si manifesterà con quale occhio Lo vedrò? Col Suo Occhio, non col mio, poiché nessuno Lo vede eccetto Lui. Nessuno Lo percepisce se non Lui! Dunque io Lo vedo – Gloria a Lui! – mediante il Suo Occhio, come nel detto profetico: ‘Io divengo l’occhio con cui Egli vede’” (Ibn ‘Arabî, Futûhât al-Makkiyya I, pp. 304-307, tradotto in P. Urizzi, La Visione teofanica secondo Ibn ‘Arabî, cit., p. 15).

[19] Giordano Bruno, De gli eroici furori, Parte seconda, Dialogo secondo, in Id., Dialoghi italiani, Sansoni, Firenze 1985, p. 1125, dove Diana rappresenta l’oggetto della ricerca spirituale, ossia Dio. Si troverà un efficace commento di questo passo bruniano in I. P. Culianu, Eros e magia nel rinascimento, Il Saggiatore, Milano 1991, pp. 117-120.

[20] Pseudo-Macario, Spirito e fuoco. Omelie spirituali (Collezione II), Qiqajon, Magnano 1995, p. 56. L’essere “ricolmo di occhi” ricorda l’iconografia cristiana dei cherubini e dei serafini come ricoperti di occhi, simbolo della vita contemplativa. Abba Bessarione diceva: “Il monaco deve essere come i cherubini e i serafini: tutto occhi” (Apophtegmata patrum, alph.: Bessarione 11). Mentre Barsanufio di Gaza scriveva che coloro che sono pervenuti “alla fonte dell’amore, che non viene meno (1 Cor. 13, 8) [...] hanno raggiunto la misura in cui non vi è più né agitazione né distrazione, perché sono divenuti tutti interi mente, tutti interi occhio, tutti interi viventi, tutti interi luminosi, tutti interi perfetti, tutti interi dèi (Sal. 81, 6)” (Epistula 207). Per il simbolismo del corpo ricoperto d’occhi si veda il saggio di A. Coomaraswamy, Le corps parsemé d’yeux, in Id., Il grande brivido cit., pp. 317-321, con copiosi riferimenti, come al solito, a testi tradizionali hindû.

[21] In un hadîth il Profeta aveva infatti dichiarato: “Io vedo da dietro il mio dorso” (Bukhârî, Imâm 3; Muslim, Salât 110-111).

[22] Ibn ‘Arabî, Futûhât al-Makkiyya I, p. 421, tradotto in Muhyî al-Dîn ibn ‘Arabî, Il nodo del sagace ovvero l’idea di uomo universale nell’‘Uqlat al-Mustawfiz, a cura di C. Crescenti, Mimesis, Milano 2000, p. 36.

[23] Ibn ‘Arabî, Futûhât al-Makkiyya I, p. 486, tradotto in Ibn ‘Arabî, Il mistero dei Custodi del mondo (Kitâb manzil al-qutb wa maqâmu-hu wa hâlu-hu), a cura di C. Casseler, Il leone verde, Torino 2001, p. 34. Cfr.: “L’angolo del tuo occhio, o Dio, non ha quantità, ma è infinito, ed è circolo, anzi sfera infinita, perché la tua vista è un occhio dotato di sfericità e perfezione infinita. Vede dunque tutte le cose, nello stesso tempo, all’intorno, in alto e in basso” (Niccolò Cusano, La visione di Dio [De visione Dei], a cura di G. Santinello, Mondadori, Milano 1998, p. 47).

[24] Si veda R. Guénon, L’Occhio che vede tutto, in Id., Simboli della Scienza sacra, cit., pp. 374-376 e R. Pettazzoni, L’onniscienza di Dio, Einaudi, Torino 1955, passim.

[25] Nel Taittirîya Âranyaka (X, 1, 26-27) si dice di Prajâpati: “Il suo volto è girato all’indietro. Il suo volto è girato in tutte le direzioni. Egli guarda in ogni direzione. Egli è di fronte a tutte le parti”. Ma si veda per altri riferimenti il saggio di A. Coomaraswamy, Le corps parsemé d’yeux, cit., e R. Pettazzoni, L’onniscienza di Dio, cit., pp. 168-183.

[26] “L’occhio di Zeus, che vede tutto” (Esiodo, Le opere e i giorni 265); “Bisogna pensare dunque che [...] l’occhio di dio sia incapace di vedere insieme tutte le cose?” (Senofonte, Memorabili I, 4, 17). Cfr. per altri riferimenti R. Pettazzoni, L’onniscienza di Dio, cit., pp. 208-239.

[27] Keizan, Denkoroku, tradotto in Id., Lo Zen nell’arte dell’illuminazione. La trasmissione della luce, a cura di T. Cleary, Ubaldini, Roma 1994, p. 22.

[28] A. Watts, La Suprema Identità. Saggio sulla metafisica orientale e la religione cristiana, Edizioni il Punto d’Incontro, Vicenza 1993, p. 40. Cfr.: “Il regno di Dio non viene in modo spettacolare. Nessuno potrà dire: ‘eccolo là’, perché il regno di Dio è già in mezzo a voi” (Vangelo di Luca 17, 21); “In lui infatti noi viviamo, ci muoviamo ed esistiamo” (Atti degli Apostoli 17, 28).

[29] Abhinavagupta, Laghuvimarśinî II, 3, 17, tradotto in Id., Essenza dei Tantra, a cura di R. Gnoli, Rizzoli, Milano 1990, p. 44.