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Iran: la diplomazia del gas

di Eugenio Roscini Vitali - 28/08/2008

Al contrario di quanto ci si poteva aspettare, la prima grande crisi del XXI secolo non è arrivata dallo stretto di Hormuz, dall’Iran espansionista e fondamentalista che Washington ha messo al primo posto nella lista degli Stati canaglia, ma dal Caucaso, regione ricca di giacimenti non ancora sfruttati e crocevia di una rete di oleodotti e gasdotti d’importanza strategica, dove Usa e Russia sono tornate a confrontarsi su questioni di enorme rilevanza economica e militare. Ma il teatro ad est del Mar Caspio non è l’unico: lo scontro, che si preannuncia ancor più duro di quanto lo fu ai tempi della guerra fredda, abbraccia l’Europa Orientale, dove le due superpotenze si stanno affrontando sulla questione dello scudo missilistico che gli americani istalleranno in Polonia e Repubblica Ceca, e il Medio Oriente, dove la Siria si è resa disponibile ad ospitare i sistemi missilistici russi, uno scudo simmetrico a quello americano in Europa centrale, e dove il nucleare iraniano resta il problema centrale per il futuro controllo strategico della regione. Per la Casa Bianca è quindi importante rivedere la sua idea di politica estera, d’impegno militare e di alleanze, assegnare nuove priorità e riconsiderare il ruolo di alcuni attori in questo scellerato palcoscenico fatto di petroldollari e di smania di potere.

Nello scacchiere mediorientale uno dei soggetti di maggior peso strategico è certamente l’Iran, paese che si affaccia sul Mar Caspio e che occupa un posto di rilievo nella lista delle priorità dell’amministrazione Bush. Sono anni che gli Usa cercano di combattere la Repubblica Islamica armando il mondo sunnita e minacciando un intervento militare; un piano fallimentare che ha rinvigorito la leadership radicale guidata dal presidente Ahmadinejad e ha rafforzato l’influenza iraniana nelle aree di crisi, complice l’incapacità americana di dare all’Iraq e all’Afghanistan un’alternativa democratica ai regimi sanguinari e dispotici da lei stessa abbattuti.

Di questo l’amministrazione Americana sembra essere perfettamente cosciente: lo dimostra il dietrofront del Pentagono sull’appoggio a Tel Aviv per l’attacco israeliano ai siti nucleari iraniani, il che minimizza una minaccia che fino a ieri era uno dei pilastri della politica Bush; lo sottolinea il pacchetto di incentivi offerto a Teheran dai “5+1” (Usa, Russia, Cina, Inghilterra, Francia e Germania) che in cambio del blocco delle attività di arricchimento dell’uranio sono pronti ad avviare una cooperazione economica ed energetica.

Il clima diplomatico sembra quindi cambiare: da un lato l’annuncio dei nuovi sistemi d’arma acquisiti dalla Russia, il lancio di nuovi missili a lungo raggio e l'avvio di un programma per la costruzione di sei nuovi reattori nucleari che dovrebbero entrare in funzione entro il 2013; dall’altro gli sfinenti dialoghi imposti all’Agenzia internazionale per l’energia atomica, la volontà di proseguire il processo diplomatico con Bruxelles e la recente firma di un accordo con la Turchia che prevede la realizzazione di un progetto comune nel campo della produzione di elettricità e nella ricerca di gas naturale.

Un annuncio importante quello fatto ad Istanbul, un’intesa che getta basi concrete per la risoluzione della crisi con l’Occidente e pone l’accento sulla forte discussione che si sviluppa all’interno dei gruppi dirigenti iraniani. A Teheran esistono infatti priorità assai diverse che contrappongono due opposte linee di pensiero: da un lato i conservatori pragmatici, che vedono nel gas un’occasione significativa per fuoriuscire dall’isolamento internazionale al quale l’Iran è sottoposto; dall’altro Ahmadinejad, che vuole mettere fine alle così dette “mafie petrolifere” e utilizzare il gas per rilanciare lo sfruttamento dei giacimenti di petrolio, puntando sul greggio come fonte di guadagno per mantenere le promesse fatte in campagna elettorale.

L’Iran è un paese dalle grandi potenzialità e nonostante gran parte dell’opinione pubblica lo ritenga uno statico monolite, è comunque in continua trasformazione. Il 10% delle riserve mondiali di petrolio ne fanno il secondo produttore Opec; in materia di gas naturale è secondo solo alla Russia: quasi 30 mila miliardi di metri cubi che equivalgono al 16% delle riserve mondiali; l’economia cresce ad un ritmo pari al 5%, i consumi interni salgono del 7% annuo. Il settore petrolifero origina più del 20% del Pil e l’esportazione del greggio rappresenta più della metà delle entrate governative.

Questa monocultura produttiva limita però fortemente l’investimento in altri settori e questo si riflette negativamente sull’occupazione. L’economia è largamente assistita; il debito con l’estero è elevatissimo; il sistema creditizio inadeguato e incapace nel frenare un’inflazione galoppante; l’amministrazione pubblica è inefficiente e spesso corrotta ed è fortemente appesantita dall’essere l’unica alternativa alla crisi occupazionale, crisi che colpisce soprattutto i giovani, cioé i due terzi della popolazione.

Il greggio iraniano è in gran parte destinato al mercato europeo, cinese e indiano; la domanda interna assorbe il 30% circa della produzione, poco più della metà del fabbisogno. A causa della scarsa capacità di raffinazione, l’Iran deve infatti ricorrere ai mercati internazionali; un controsenso che trasforma un paese produttore in un paese importatore, costretto ad acquistare i derivati del petrolio a cifre imposte dal mercato per poi rivenderli alla pompa ad un prezzo sovvenzionato e quindi di gran lunga inferiore. Le oscillazioni del greggio non attenuano certo i prezzi di questi prodotti e il governo è speso costretto a ricorre al fondo di stabilizzazione per il petrolio istituito dal negli anni novanta.

Così, nonostante la sottoscrizione di accordi di collaborazione, quali quello preso nel 2006 tra l’Iranian Petropas e la venezuelana Petrolos che dovrebbe soddisfare parte delle esigenze iraniane con la costruzione di una raffineria in Orinoco, l’oro nero si trasforma da un’opportunità di guadagno a problema sociale, politico ed economico. La principale alternativa al petrolio diventa quindi il gas naturale; il 70% della produzione è destinato al consumo interno, soprattutto centrali elettriche alimentate a gas. Le grandi potenzialità dei giacimenti iraniani, soprattutto quelli del Mar Caspio, non sono però sufficientemente sfruttate; per farlo sarebbero necessari grandi investimenti che fino ad ora sono stati frenati dalle Risoluzioni della comunità internazionale.

Il massimo livello di produzione petrolifera è stato registrato nel 1978, 6 milioni di barili al giorno. Oggi la cifra è ben più modesta, poco più di 3 milioni di barili; una caduta dovuta alle sanzioni imposte dalla comunità internazionale, che non permettono lo sviluppo di nuovi giacimenti, e alla forte diminuzione nello sfruttamento dei pozzi del Khuzestan sud occidentale. Il giacimento, sfruttato in modo smisurato dalle compagnie straniere durante il periodo pre-rivoluzionario, registra un calo della produzione annua pari al 10%; per stabilizzarne la pressione interna e rilanciarne le capacità estrattive sarebbe necessario pomparvi grandi quantità di gas.

Gli accordi bilaterali non sono bastati ad aggirare l’embargo, così come non sono state sufficienti le partnership con i paesi arabi del Golfo con i quali l’Iran condivide i grandi giacimenti di Pars Sud; è necessario rivedere la strategia energetica, aprire le porte alla geopolitica dei gasdotti e alle relazioni commerciali con paesi quali la Turchia e il Turkmenistan, proprietario dell’immenso e poco sfruttato giacimento di Dauletabad. Una strategia nella quale Washington non aveva creduto, riconducibile ai tecnocrati e alle compagnie del gas e del petrolio controllate da Rafsanjani; una strategia finita in soffitta con l’elezione di Ahmadinejad e rilanciata oggi dall’accordo con Istanbul; una dimostrazione di quanto le cose stiano cambiando rapidamente, dentro e fuori dall’Iran.