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Una pagina al giorno: La curva a esse, di Mario Basari

di Francesco Lamendola - 28/08/2008

 

 

 

C'è un equivoco di fondo, che mai è stato affrontato a viso aperto, nella maniera in cui la critica letteraria si pone nei confronti della cosiddetta letteratura per ragazzi. O essa appartiene, indipendentemente dalla qualità delle opere che vi rientrano,  a un «genere» e, come tale, a un ambito letterario «minore»; oppure la sua uniformità non nasce che da una categorizzazione di uso pratico e, al suo interno, si possono incontrare tanto dei prodotti commerciale di nessun valore artistico, quanto degli autentici capolavori.

Insomma: o prevale, in sede di giudizio estetico, il «genere», per cui ogni sua produzione non potrà che essere condannata in partenza a una eterna minorità rispetto alle opere letterarie «alte»; oppure prevale l'opera singola, a prescindere dalla categoria in cui la si vuol collocare: e allora essa andrà valutata esattamente con gli stessi criteri che si adoperano per il Decamerone o I promessi sposi; tertium non datur.

La critica letteraria, infatti - e in Italia, per vari motivi, più che in altri Paesi - non è riuscita a mettersi d'accordo con se stessa né in linea con quella, ad esempio, cinematografica, dove il concetto di «genere» svolge solo ed esclusivamente una funzione pratica e non implica in alcun modo un giudizio di valore. Per il critico cinematografico, un film può appartenere al genere sentimentale, drammatico, avventuroso, poliziesco, horror, western, fantascientifico, e così via; per il critico letterario, se un romanzo è «per bambini» o, magari, «per ragazzi», non può che essere un prodotto di serie B; e lo stesso vale per un romanzo di fantascienza, o un «giallo», o sentimentale (un «rosa»).

Ma chi lo ha deciso? Lui stesso, il critico. Salvo poi stabilire tutta una serie di debite eccezioni, per non cadere nel ridicolo di negare qualità letteraria a capolavori come Pinocchio, o ad opere più che dignitose, come Cuore di De Amicis o Sandokan alla riscossa di Salgari. Ma queste eccezioni sono la rivelazione della «coda di paglia» della critica ufficiale.

In Francia, nessun critico letterario si sognerebbe di negare validità artistica alle opere di Verne, anche se, evidentemente, si collocano su un diverso piano rispetto a quelle di Balzac, Hugo o Flaubert; né gli verrebbe in mente di ascriverle al genere «per ragazzi», perché sa benissimo che i loro lettori sono, in buona misura, degli adulti.

In Gran Bretagna, nessun critico serio potrebbe esitare se assegnare Alice nel paese delle meraviglie di Carroll alla letteratura «seria» oppure a quella «per bambini», perché una tale distinzione, in linea di principio, non ha senso. Tanto è vero che opere serie, serissime (e perfino amare), come I viaggi di Gulliver di Swift, sono state in seguito adattate - con esiti più o meno felici - ad un pubblico giovanile. E che dire del Robinson Crusoe di Defoe, che presenta contemporaneamente, nel modo più esplicito, le caratteristiche tanto della letteratura giovanile, quanto di quella «per adulti», qualunque cosa possa significare quest'ultima espressione?

E la «coda di paglia» della critica ufficiale, specialmente italiana, consiste in questo: che tutti sappiamo come gli adulti siano i primi «consumatori» della letteratura cosiddetta per ragazzi (così come, del resto, della stampa per ragazzi, a cominciare dai fumetti); ma, per una forma di ipocrisia tanto puerile quanto trasparente, nessuno, e tanto meno quell'austero personaggio che va sotto il nome di critico letterario, è disposto ad ammetterlo e a trarne le logiche conseguenze: che, cioè,  un'opera letteraria è buona o non è buona, e poco importa (quanto al giudizio) se si rivolge a un pubblico di adulti o di bambini.

 

Ciò premesso, vogliamo adesso dire qualcosa di un'opra letteraria tipicamente «per ragazzi» e che, pur essendo stata concepita (quanto meno dall'editore) in funzione di un tale «genere»  - che, come dicemmo, in Italia è tuttora considerato «minore», salvo eccezioni -, possiede, a nostro parere, caratteristiche tali da farne  un testo che eccede questa riduttiva categorizzazione.

Non si tratta di un capolavoro e neanche di un'opera notevole; pure, per l'efficacia dello stile, la ricchezza psicologica del protagonista, il fastoso scenario tropicale che le fa da sfondo e, soprattutto, il pathos umano delle vicenda, ci sembra che Asfalto verde di Mario Basari sia un bel libro, che si distingue dai soliti romanzi d'avventura per la delicatezza del sentimento che lo pervade, specie nella parte più propriamente sentimentale.

Quando esso fu pubblicato, nel 1956, il colonialismo volgeva al tramonto, ma non apparteneva ancora al passato (la grande ondata dell'indipendenza sarebbe venuta nel 1960); per cui l'Africa che vi è descritta, con tanto di carovane di schiavisti arabi dirette alla costa, può apparire oggi anacronistica, così come poté apparire ai lettori della sua seconda edizione (del 1972); ma non lo era quando il libro fu concepito e scritto, meno di un decennio dopo la fine della seconda guerra mondiale.

Del resto, anche se le grandi carovane di schiavi non marciamo più attraverso le savane dell'Africa orientale, noi sappiamo bene che la schiavitù esiste ancora, e che migliaia di persone, e specialmente donne, finiscono sul mercato degli sceicchi e dei milionari arabi; ma questa è un'altra coda di paglia dell'Occidente, nel cui salotto buono si fa finta di ignorare certe cose (specie se ne andrebbero di mezzo sia i rifornimenti petroliferi, sia l'alleanza strategica con regimi fondamentalisti e autocratici, ma «utili»).

La vicenda del romanzo può essere riassunta in poche parole.

Jago è un giovane avventuriero portoghese, strano miscuglio di cinismo e di idealismo, di egoismo e generosità, che si arrangia a far soldi in Kenya, a Mombasa, come corridore automobilistico. La vittoria in una corsa importante, e il relativo premio in denaro (che non spartisce con Safui, un commerciante arabo, suo socio in affari, rimasto gravemente menomato per lo scoppio di un pneumatico) gli offre di cogliere l'occasione da tempo sognata: quella di acquistare l'attrezzatura necessaria per avventurarsi nella foresta, alla ricerca di un giacimento di uranio.

Lupo solitario, perso in un sogno di facile ricchezza, Jago non vuole compagni con sé; ed è così che, quando cade in una rete insieme a un gigantesco gorilla, deve affrontare il mortale pericolo con le sue sole forze. Riesce a uccidere a uccide il bestione con il coltello, ma rimane a sua volta gravemente ferito.

Una carovana di negrieri arabi lo raccoglie e lo tiene prigioniero, finché non si è ristabilito. Dopo di che, Jago stringe un accordo con i due arabi che guidano la carovana e si unisce a loro, partecipando, col suo fucile a ripetizione, all'attacco di un inerme villaggio Turkana, rimanendo però ferito da un colpo di lancia. Fra i negri fatti prigionieri e avviati verso la costa, vi è anche una donna bianca: una giovane infermiera finlandese, Maila, che da anni viveva con gli indigeni e che, per la sua spontanea compassione verso i sofferenti, si prende cura della ferita di Jago e lo aiuta a ristabilirsi.

Fra i due giovani, così diversi eppure così simili, nasce una delicata amicizia, e nel cuore dell'irrequieto portoghese si opera una profonda, radicale trasformazione. Per amore di Maila (ma anche, pur se non vorrebbe ammetterlo, per un nuovo senso di giustizia e di bontà che gli sta nascendo nell'animo), Jago decide di favorire la fuga degli schiavi, ai quali si unisce. Gli Arabi organizzano rapidamente l'inseguimento e, nella battaglia finale, abilmente organizzata da Jago, i Turkana hanno la meglio e spazzano via i loro persecutori. Ma il giovane è nuovamente in preda alla febbre, per l'infezione mal curata in precedenza; a spalla lo portano fino al treno e, di lì, Maila lo accompagna fino a Mombasa, in ospedale.

Un giorno, mentre è solo in camera, Jago riceve una visita sgradita: quella del suo ex socio d'affari, che gli rinfaccia il suo tradimento e gli rivela brutalmente la verità che Maila e i dottori gli avevano nascosta: non guarirà mai, morirà lentamente, come una candela che si spegne, consumato dalle febbri. Il giovane si sente ingannato, ma vuole dare a se stesso un'ultima dimostrazione di vitalità e, al tempo stesso, guadagnare del denaro da offrire a Maila per i suoi progetti umanitari; e, saputo che sul circuito si sta per correre un'altra gara automobilistica, ottiene di pilotare la sua vecchia macchina.

Tremante di febbre, fugge dall'ospedale e, al mattino, si getta tra i bolidi rombanti, alla guida di un veicolo ormai troppo sfruttato, che solo un pazzo penserebbe ancora di pilotare.

 

Ed eccoci al momento della verità, nelle ultime pagine del romanzo (Mario Basari, Asfalto verde, Editrice La Scuola, Brescia, 1956, 1972, pp. 111-1116):

 

Jago si ritrovò sulla spirale delle curve ad esse. Quella salita era fatta per lui, per i suoi mezzi, per il suo coraggio, forse per la sua follia. Su quella salita contava di sferrare l'attacco al battistrada e di rubargli la prima piazza, il posto d'onore.

Sulle curve la macchina 22 era favorita rispetto all'altra per una maggior ripresa ed anche per il minor peso. Jago lo sapeva: quella era la sua carta.

Ingranò la marcia inferiore solo dopo aver superato la prima curva., spinto ancora dall'abbrivio della corsa e si portò a metà altezza della macchina avversaria.

Sulla nuova curva ti brucio come un pollo!

E rise, Jago, perché vide che l'altro era costretto ad invertire ancora il passo della marcia e perdere altre frazioni di secondo.

Ma sulla seconda curva si trovò la strada sbarrata. L'altro l'aveva battuto di un soffio.  L'ira gli colorì le guance e si gettò all'inseguimento con maggior lena.

- Ti batterò lo stesso, ti supererò a costo di far saltare questa baracca come una caldaia usata!

Lo riprese di coda, gli si rimise sul fianco, riguadagnò attimo per attimo e centimetro per centimetro la strada. E raggiunsero la sommità insieme, appaiati.

Si gettarono nella discesa senza neppure una battuta a vuoto, spinti tutti e due dalla stessa furia, dalla stessa ira.

Il rivale di Jago era ancora Olivarez. E ancora una volta Olivarez aveva il mezzo più potente. Ma nessuno poteva competere con la diabolica astuzia di Jago, né con la sua audacia che rasentava la pazzia.

Giunsero nel rettifilo della foresta. I poveracci che non avevano i soldi per pagarsi l'ingresso alle tribune, e s'erano sparpagliati sulle curve del percorso, li videro sbucare dal cavalcavia con le ruote che neppure sfioravano la terra, avvolto in una sola nube, in un solo alone di fuoco e di fumo, in un solo rombo che andava ingigantendo sempre più.

Quando raggiunsero la curva, i motori ebbero un ruggito immenso nell'inversione delle marce; i bolidi sembrarono fermarsi un attimo per poi scattare in avanti tutt'uno, con un balzo sincrono, formidabile. Schizzarono pezzi di battistrada e caddero sul prato rimbalzando come tante palle di fucile; sfrigolavano nell'aria rabbiosamente lasciando dietro di loro una scia azzurrina di polvere e di fumo: friggevano!

Quando la nube della polvere e dei gas disparve, Jago e Olivarez erano già al fondo del rettifilo e abbordavano le rampe della salita.

Olivarez guardò nello specchietto retrovisivo:  Jago gli era un palmo indietro.  In tutto il rettifilo e le curve, non era riuscito a distanziarlo di un decimo di secondo.

La paura e l'ira gli bollirono nelle vene e lo fecero scattare:

«Non mi passerà davanti, non lo farò passare!».

Ma Jago era di diverso parere:

«Lo chiuderò già alla prima curva! Ormai è mio!».

Olivarez cambiò marcia prima di affrontare la prima curva. E si vide passare sul fianco il bolide rosso di Jago, lanciato come un fulmine, in un turbine di fumo e di fiamme perché tutto lo scappamento s'era arrossato dai gas.

- Sono primo!

Jago urlò felice. Era il battistrada! Olivarez, dietro, perdeva uno, due metri ad ogni passaggio di curva!

- Sono primo!

Avanti al muso della sua macchina rossa c'era solo la strada bianca e libera; le altre macchine doppiate, e da doppiare ancora. Avanti c'era lo striscione con le lettere di fiamma e d'oro. In quelle lettere c'era il simbolo della vita: il mondo sembrava inchinarsi davanti alla sua volontà!

- Sono primo!

Già immaginava Maila oltre lo striscione ed egli che le correva accanto a dirle:

- Ecco, Maila, ho vinto per questi nostri mondi che sembrano lontani e invece si danno la mano. Maila, se mi volete, vi aiuterò a dare un po' di gioia a chi ne ha bisogno. Forse sbaglierò ancora, ma voi mi insegnerete come bisogna fare per andare avanti.

Ma gli occhi gli si velarono di colpo. Come se i gas di un'altra macchina l'avessero investito e soffocato. Buio, troppo buio.

Tolse la mano sinistra dal volante e la passò rapida sugli occhi, per pulirli. Ma non ebbe luce.

- Che diavolo succede?

Ed ecco, la vista gli si appannò di più, sempre più forte: sentì il cuore battergli nelle tempie con un ritmo pazzesco ed il respiro mancare… e tutto il suo essere tremante dalla febbre improvvisa…

E sentì alle spalle il rombo di Olivarez. Poi lo vide più vicino lo sentì al fianco, vide che stava per passargli via.

L'ultima curva gli correva incontro paurosamente. Jago non tolse il piede dall'acceleratore e non la vide neppure.

Sbandò sulla sinistra e trovò un ostacolo.  Udì un rombo immane e vide un pezzo di lamiera gialla  e rossa, quella di Olivarez saettare nel cielo come una meteora.

Poi le due macchine si inalberarono alla sommità della salita.

Jago sentì una morsa gigantesca strappargli le membra ad una ad una. E la notte nera calò attorno a lui, solcata da lampi gialli e rossi e da circoli verdi. E poi nero.

I bolidi schizzarono dalla pista prima in alto, verso il cielo, poi picchiarono il muso in terra; sembrarono abbracciarsi, capottando; poi tornarono a sollevarsi, scivolarono verso il bordo estremo della strada, ruppero il paracarro e si affacciarono di sotto. C'era un salto di cinquanta metri; in basso gli scogli grigi lambiti dalla spuma bianca del mare e le alghe verdi ed un piccolo arenile puro.

Un salto di cinquanta metri.

Poi scoppiarono i serbatoi e le fiamme salirono nel cielo azzurro, colorate da una densa nube grassa di nero.

Safui la vide per primo.

Diede un ultimo colpo con la mano sul cappello fino a schiacciarselo sulla nuca, e le falde gli calarono oltre il naso a gocciolargli il sudore e la polvere sulle labbra.

Maila per seconda. La nube nera era già salita alta nel cielo.

- Jago! - disse. E rimase così, con gli occhi spalancati, bianchi.

 

*         *         *

Maila raggiunse la riva del mare assieme all'ambulanza. Le fiamme andavano spegnendosi lentamente, le lamiere erano contorte e arroventate.

A venti passi dalla macchina rossa c'era Jago in terra. Nel salto era piombato via e giaceva sulla rena bocconi, con le braccia aperte e le mani affondate nella sabbia.

Maila gli cadde accanto di schianto; gli sollevò il capo in grembo.

Jago aveva gli occhi semichiusi. Il volto era pulito, solo una macchia di bruciato sulla guancia.

- Jago… perché, perché l'avete fatto?

Ma Jago non rispose. Maila gli accarezzò i capelli scomposti e gli pulì la guancia dalla macchia di bruciato.

-         Noi hai voluto credere, povero uomo che non sei stato mai bambino…

Non si era accorta di dargli del «tu». Le era nato spontaneo; e poi non era il momento di far caso al cerimoniale.

- Venite via, miss… bisogna portarlo via, - le disse qualcuno toccandola sul braccio.

Maila girò il capo lentamente.

L'uomo la invitò ancora:

- Lasciatelo, vi farà male…

Maila scoprì i denti come una piccola fiera e gridò tanto forte che lei stessa ne ebbe paura:

- Lasciatemi!…Andate via, subito! Via!

L'uomo lasciò in terra una barella e se ne andò oltre gli scogli: c'era ancora Olivarez da raccogliere.

Le labbra di Jago sembrarono muoversi; Maila sbarrò gli occhi come allucinata quando ne udì la voce:

- Sono arrivato tardi anche questa volta, Maila…

- Jago! Oh, no, no!… C'è sempre tempo per dire tardi!

-… Avevo corso per voi… per noi, per quelle capanne negre che ho distrutto, ed anche per credere, Maila… per credere che donare è giusto e provare a donare per la prima volta…

- Sì, sì… ma non dovevi, non dovevi! - Con la mano gli andava a rimuovere i mille granelli di sabbia dal viso e intanto piangeva senza neppure accorgersene, tanto era violento il suo dolore. Le lacrime correvano sulle sue gote scarnite dalle lunghe veglie e le rimbalzavano sulle piccole labbra prima di sfarinarsi sulla rena. E le cadevano anche sulle dita e inumidivano la pelle bruciata di Jago.

- Non piangete, Maila… non lo merito.

- No, non piango, non piango… - ma la sua voce tremava ed invocava nello stesso tempo un po' di forza.

Le tornarono accanto con la barella ed ella lasciò che lo portassero via.

Jago volle dire ancora qualcosa, ma la voce non gli venne; allora lasciò penzolare un braccio oltre il bordo ed agitò la mano leggermente.

- Arrivederci, Jago, arrivederci… - disse Maila.

Poi crollò sulla rena col viso nelle mani, sola col suo grande pianto disperato.

E quando la macchina scomparve oltre l'arenile, tracciò una grande «J» sulla riva del mare. Finché venne l'onda a coprirla tutta.

 

Asfalto verde mescola i temi della classica storia d'avventure, peraltro giocati su piani diversi - l'Africa selvaggia, i gorilla, i negrieri, ma anche le moderne corse automobilistiche - con quelli della storia sentimentale; in questo caso, l'incontro fra due esseri umani con un passato molto diverso alle spalle e una diversa visione del mondo, eppure destinati ad avvicinarsi affettivamente e spiritualmente, in una atmosfera di estrema delicatezza.

Il personaggio di Maila, dolce e altruista, è forse un po' convenzionale; quello di Jago, invece - sanguigno, contraddittorio, ma in fondo generosissimo e, a suo modo, nobilmente sognatore -   risulta vivido e immediato.

 

La narrativa è stata solo una delle strade percorse dal poliedrico autore di questo commovente romanzo.

La sua notorietà è maggiormente affidata al suo lavoro di grafico e sceneggiatore di fumetti, negli anni Sessanta e Settanta del secolo scorso. Migliaia di ragazzi hanno letto le sue storie, firmate con lo pseudonimo di "Bamar", e hanno sognato con lui, immedesimandosi nei personaggi delle sue numerose avventure.

Nato a Torino nel 1932, verso la fine degli anni Sessanta - dopo essere stato direttore di una testata «storica» come Il Vittorioso - Mario Basari inizia la lunga e fruttuosa collaborazione con il settimanale cattolico per ragazzi Il Giornalino, scrivendo i testi per una serie di emozionanti storie a fumetti.

Fra esse ricordiamo All'Oregon o all'inferno (con i disegni di Gianni De Luca); Bug Barri (disegni di Ruggero Giovannini); Babe Ford (disegni di Renato Polese); Gec Sparaspara (disegni di Giovanni Boselli); Max Martin (disegni di Nevio Zeccara), Piuma Rossa (disegni di Gino Sorgini), Max Mado (disegni di Mario Rossi), Bruno Stark (disegni di Boscarato).

Inoltre, negli anni Settanta, Mario Basari ha curato la sceneggiatura di una serie di adattamenti da opere letterarie, realizzati con i disegni di Franco Caprioli.