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Il possibile e il probabile nella filosofia di Rodolfo Quadrelli

di Francesco Lamendola - 11/09/2008

 

 

Che cosa succede se si afferma che il non-essere, semplicemente, non è, senza prendersi la briga di verificare se esso non sia, piuttosto, un non-ancora?

Succede che viene abolita la categoria del possibile e che, di conseguenza, tutto diventa legittimo - come aveva ben visto Dostojevskij a proposito dell'ateismo -; e tale è stata l'operazione condotta da Hegel, il gran sofista (nel senso originario del termine: «sofista» è colui che, affermando il non essere del non-essere, esclude il concetto del possibile).

E che cosa succede quando si abolisce la categoria del possibile?

Possono accadere due cose: o si assolutizza il presente e si divinizza l'esistente, che è la strada seguita, dall'Illuminismo in poi, dalla cultura che si dice rivoluzionaria; oppure si identifica il passato con l'eterno, che è la strada seguita dalla cultura reazionaria.

E sono gravemente sbagliate sia l'una che l'altra, perché entrambe hanno voltato le spalle alla categoria dell'eterno (come già rilevava Kierkegaard) per concentrarsi sul tempo storico: passato o futuro, da questo punto di vista, fa poca differenza; e perché, di conseguenza, entrambe hanno escluso dal loro orizzonte sia Dio che la natura.

In ogni caso, se divinizzare l'esistente è l'approdo della sofistica, identificare il non-essere con il male è la posizione del moralismo: quella che ha spinto tanti rivoluzionari a combattere contro il passato in nome di un futuro migliore (cfr. il nostro precedente articolo La sofferenza è una parte essenziale della vita o qualche cosa che bisogna puntare a eliminare?, sempre sul sito di Arianna Editrice).

In realtà, chi afferma che il passato è il male e che tutto è lecito in nome dell'esistente, vuole impossessarsi del futuro perché ne ha paura e perché esclude la categoria del possibile. Non crede che le cose possano redimersi dal male, vuole sostituirsi a Dio e redimerle egli stesso, con un atto d'imperio. E non gli interessa la natura, se non come dominio da sfruttare, perché gli sta a cuore solo la categoria del probabile, ossia del gioco di forze tra gli esseri umani: come ha insegnato  Machiavelli.

Tanto Dio che la natura, infatti, sono il campo d'azione della prevalente certezza: l'uno, mediante la provvidenza; l'altra, attraverso le leggi naturali. Ma all'uomo moderno, figlio della cultura illuminista, non importa la categoria del possibile (qualitativa), regno della libertà di scelta fra bene e male;  ad essa ha preteso di sostituire la categoria (quantitativa) del probabile, che si risolve nell'inseguimento del mero utile: come ha insegnato Bentham, il rozzo maestro del «piacere per la maggioranza» (e non del bene per tutti).

 

Queste riflessioni sono sviluppate in un avvincente capitolo del libro di Rodolfo Quadrelli Filosofia delle parole e delle cose, che a suo tempo (inizio degli anni Settanta del Novecento) è passato quasi inosservato, ma che oggi merita di essere scovato nelle biblioteche pubbliche o sulle bancarelle dei mercatini dell'antiquariato, perché gli sia reso quel riconoscimento che meritava.

Non sappiamo perché Quadrelli, saggista e traduttore dei classici inglesi, sia scivolato un po' nell'ombra, dopo l'esordio promettente di opere come Il linguaggio della poesia (Vallecchi, Firenze, 1969)  e Filsofia delle parole e delle cose (Rusconi, Milano, 1971). Di lui ricordiamo anche La tradizione tradita, pubblicato con l'editore Arnoldo Mondadori; e, nel 2001, il saggio storico-letterario Lo studio della letteratura europea. Un percorso da Dante a Solzenicyn, per l'editore Il Cerchio.

Avremmo voluto sentire parlare di più di un autore così limpido e conciso, così indipendente nei giudizi e così fuori dal coro. Ma gli anni erano quelli della passione politica esasperata, e Quadrelli, da vero filosofo, pensava che quella sociale fosse una dimensione importante, sì, ma non certo l'unica dell'esistenza; perché, da parte sua, teneva lo sguardo fisso verso l'eterno, pur senza disprezzare i tempi della storia.

E già questa posizione era tale da non renderlo particolarmente popolare. Se poi si aggiunge che egli parlava, senza enfasi, da un punto di vista cattolico, e che citava volentieri Manzoni e Aristotele (nome, quest'ultimo, sospetto per via del neotomismo), non è tanto difficile capire perché gli siano passati avanti molti autori meno interessanti e meno originali, ma che navigavano col vento in poppa dell'ideologia allora dominante.

 

Scrive, dunque, Rodolfo Quadrelli in Filosofia delle parole e delle cose, nel capitolo intitolato Il possibile e il probabile (ed. cit., pp. 43-47):

 

Possibile e probabile sono le due versioni di u a stessa realtà; il primo si direbbe termine più antico, eppure pare difficile distinguere tra i due, quantunque non sembri difficile distinguere tra antico e moderno. Forse solo il secondo risulta ormai intelligibile.

Platone fornisce una definizione eterna dell'eterno nemico del filosofo, il sofista, come di colui che non ammette il concetto di possibile. È la conclusione che si trae dalla lettura congiunta del Sofista e del Convito e giova rifarsi per gradi agli argomenti. Sofista è colui che accoglie letteralmente l'espressione non-essere, ovvero afferma, coniugando il verbo, che il non-essere non è.

Ne discende che tutto è legittimo, credenza di cui si può giovare soltanto il sofista stesso, poiché il filosofo opererà comunque secondo regole, riconoscendo una realtà al nulla ed evitandola. Il sofista si potrà dunque rifugiare nel nulla a discrezione, di là scagliando i propri sofismi come altrettanti sortilegi. Il discorso del sofista è tautologico, cioè non distingue tra ciò che non è e ciò che non è ancora. Esistono pure realtà che non sono, ma che tendono ad essere e che forse saranno: sono le realtà del possibile.

Il Convito ci dice che Eros è figlio di Penia, la povertà, poiché solo questa condizione può suscitare il desiderio ovvero la tensione verso qualcosa. è essenziale che l'oggetto del desiderio non venga mai raggiunto, poiché diverrebbe trapassato, e affidato alla memoria che dimentica; l'amore invece non può dimenticare. Questo possibile, che non è probabile perché a modo suo è certo, impone la contemplazione come propria forma. Essa non è un paradossale compenso al mancato raggiungimento, bensì è il possibile che solo consente ogni azione reale.  Come si agirebbe se non ci fossero oggetti che ci guidino, e, non posseduti, ci consentano di possedere altri oggetti (i materiali), a condizione di ritenere questi come simboli? La conclusione grandiosamente morale di questa metafisica è che si possa soltanto contemplare ciò che veramente si ama.  Il non-essere è dunque altro dall'essere, ovvero, nel linguaggio aristotelico, è la potenza che tende all'atto, quando si aggiunga che in Aristotele l'atto è la compiutezza piuttosto che l'archetipo. Un senso ancor più intimo si ottiene da Plotino, se è vero che l'altro dall'essere deve essere il molteplice, non potendo essere soltanto il negativo dell'essere che è uno: si ottiene così la metafisica dell'Uno, generante per emanazione tutte le realtà. È, codesta, una tradizione il cui senso si può considerare la scoperta di una miracolosa via media tra due opposti nemici: la sofistica affermante il non-essere non essere, appunto; e il moralismo che identifica esclusivamente il non-essere con il male, abolendo il concetto di possibile. Non diremo qualcosa di oscuro, a questo punto, definendo Hegel il vero sofista moderno, giacché per dare in qualche modo un essere al non-essere (e qui sarebbe prossimo a Platone) egli conclude che il non-essere non è. Egli risolve completamente il niente nell'essere perché vuole ammettere l'azione (sul reale), non la contemplazione (del possibile).

Il concetto del probabile è invero assai più prossimo alle menti moderne, perché è tale che comunque potrà essere verificato. Il moderno preferisce rischiare l'errore, pur di avere una speranza di materiale successo, piuttosto che accogliere una certezza oggettiva, ma da vivere bensì in interiore homine. Potrebbe valere, contro tale preferenza, l'argomentazione meravigliosa del Manzoni sull'utilitarismo, nella nota al capitolo III delle Osservazioni sulla morale cattolica. Veramente i sofismi di Bentham non pretendevano alla mera probabilità, ma addirittura al criterio. E ribatteva Manzoni che sull'utile futuro non si può far fondamento, perché da un'azione presente non si sa se deriverà utile o danno; lo si può solo congetturare. Il criterio, se di criterio si vuol parlare, non può essere se non quello del bene e del male, che è sempre presente. C'è una sorta di terribile giustizia implicita in questa proposizione un contrappasso conosciuto anche dagli antichi, e consistente nell'ironia del tempo. Viene desiderato ciò che è sempre futuro, e sfugge dunque alla prima presa, dove ciò che è già presente viene perlopiù ritenuto inutile. Ciò che già si possiede, infatti, può solo essere contemplato. Varrebbe la pena di aggiungere che la rozzezza di Bentham  (accettata più che non si creda dai moderni) si spingeva ad aggiungere l'utile essere« la maggior quantità di piacere per il maggior numero di uomini», dove l'errore è duplice: ridurre il piacere a quantità, dove dovrebbe tuttavia essere discriminato  per la sua qualità (cioè per il suo bene o per il suo male) e ignorare che l'individuo è un piccolo universo e che, se un uomo soffre ingiustamente e atrocemente, non è confortato dal sapere che tutti gli altri godono. Ancora una volta è l'infame delitto della quantità, che grava sugli innocenti, sugli sconosciuti, sugli umili possibili. Certamente soltanto presso certi illuministi francesi è dato trovare tanta, e così filantropica, crudeltà.

L'attenzione al probabile è propria di un'epoca in cui il tempo è meramente sociale, come quello che dipende soltanto dal gioco di forze tra gli uomini, e non riconosce la prevalente sicurezza delle leggi naturali o la misteriosa certezza della Provvidenza di Dio. La natura e Dio non sono oggetto del probabile. Quando le ideologie sottintendono, come fanno da due secoli, che la realtà sociale è non solo importante, ma unica realtà, quale dominio non diventa soltanto probabile, cioè da provarsi? Già l'ingegnosa casistica di un Molina aveva smarrito la metafisica dell'altro difficile concetto; è il primo segno di una paura del futuro e del conseguente desiderio di possederlo, come si ritiene di possedere (a torto) gli altri due tempi.

L'attenzione al futuro anziché all'eterno, e la frequente identificazione tra i due, è l'ideologia del rivoluzionario, che vorrebbe il Paradiso in questo mondo, oppure (ma non è molto diverso) un Inferno meno infernale.

L'opposta identificazione, quella fra passato ed eterno, è propria del reazionario, e non è meno errata.  È invero difficile sconfiggere i nemici delle verità evidenti senza fare appello  all'avvenuto o al probabile; è però impossibile convincere prima se stessi senza fare appello al possibile.

 

Questo è un esempio di buona prosa filosofica: asciutta, vigorosa, lineare.

Quadrelli aveva le idee chiare e vedeva più lontano della maggioranza degli intellettuali di quegli anni, che si ubriacavano con gli slogan di un rivoluzionarismo velleitario perché, tutti presi dall'erronea convinzione che il male possa essere radicalmente estirpato dalla vita, pensavano al futuro come alla «terra senza male», lo sottraevano alla storia (regno del possibile!) e lo identificavano, deformandolo orribilmente, con l'eterno.

Notevole anche la sua intuizione che solo chi ha paura del futuro, sogna di conquistarlo; e che amare veramente vuol dire contemplare, non desiderare di possedere. Ma la sua era una voce nel deserto: il grande stregone, allora, era Marx (e, con lui, Nietzsche: entrambi profeti di una impossibile «terra senza male», sia pure partendo da premesse quasi opposte); e non aveva Marx affermato che era venuto il tempo in cui i filosofi devono smetterla di studiare il mondo, per decidersi a trasformarlo?

Ancora la smania dell'agire; ancora la spinta compulsiva al fare, al fare a tutti i costi, in qualunque modo; al fare come valore in se stesso: il marchio inconfondibile della modernità.

Ma che cosa significa voler fare, voler agire, senza mai fermarsi a contemplare? Significa che si disprezza il passato, luogo del male; e non si ha fiducia nel futuro, altrimenti non lo si vorrebbe conquistare. Che non si ha fiducia nemmeno nel presente, luogo del possibile, dunque della scelta; ma che si crede solo al probabile, alla marcia dello Spirito Assoluto, all'astuzia della ragione e via dicendo. Significa sentirsi dalla parte giusta della storia, che marcia verso la propria fine; dunque che si è i rappresentanti del progresso; contro quel regresso, quel disvalore che è il passato.

Ecco perché la modernità ha introdotto una cesura nella storia del pensiero occidentale. Per la prima volta, in nome della negazione del non-essere, del trionfo della quantità e della sostituzione del probabile al possibile, ci si è guardati indietro e si è giudicato che gli antichi erano inferiori, meno civili, meno evoluti; e che vivere nel presente significa essere «moderni», dunque migliori degli antichi.

Lo strappo è avvenuto con la Rivoluzione scientifica e, poi, con la sua logica prosecuzione, l'Illuminismo; non col Rinascimento, che rispettava e ammirava gli antichi, considerandoli anzi dei maestri da imitare.

Ora, quando si disprezza il passato e si vuol dominare il futuro, non resta altra forma di azione che quella distruttrice, né altra filosofia che quella della negazione.

La modernità è solo in apparenza il luogo della progettualità, della sperimentazione e dell'avvenirismo; in realtà, essa è sostanzialmente il luogo del diniego, e per le ragioni che abbiamo visto prima. Essa nega il possibile, in nome del probabile; nega Dio e la natura, in nome dell'uomo; nega il passato, in nome del nuovo; e nega continuamente anche se stessa, perché continuamente il nuovo diventa vecchio e la modernità divora se stessa. Tanto è vero che i suoi seguaci più coerenti hanno dovuto inventare la categoria del post-moderno, per non dover ammettere il proprio errore.

E poi, che cosa faranno? Inventeranno il post-post moderno, e il post-post-post moderno? Quando si fermeranno?

Non lo sanno; nessuno lo sa. Sono saliti su un treno senza freni che può solo procedere in avanti; e non c'è nulla e nessuno che li possa salvare da se stessi.

Questa, appunto, è la tragedia dell'uomo che vuol redimersi da se stesso, dopo aver rifiutato la redenzione che viene da Dio: comincia a correre in cerchio, come un cane impazzito che si morde la coda; e non è più in grado di fermarsi. Nemmeno se vede che sta andando a grandi passi verso la catastrofe.

 

Scrive ancora Quadrelli (Op. cit., pp. 17-18):

 

Tra antico e moderno non c'è un'antica contesa, perché il rapporto stesso tra i due termini è moderno.  Il primo termine, l'antico, stabilisce un passato irrimediabile, e non più contemporaneo., quando l'altro prende coscienza di sé e divide il tempo. È ormai destino che la filosofia trasformata in storia sostituisca questo rapporto all'altro (apparentemente eterno) tra soggetto e oggetto. Per il moderno l'antico è qualche cosa di affine alla verità, da quando la filosofia critica, partita dalla confutazione degli errori popolari degli antichi, ha finito per fare del passato il suo oggetto stesso. Da allora la negazione è l'operazione esclusiva della filosofia; e bisogna che l'ignoranza della età rozza non venga mai completamente meno se non si vuole che la storia della filosofia finisca. Non si esce da questa prigione, giacché la negazione non è libera ma serva del contrario o del diverso. I moderni temono sopra ogni cosa che la stessa nozione di antico venga meno, dal momento che loro stessi l'hanno creata.

Il processo di dissacrazione vuole qualcosa da dissacrare, quello di demitizzazione qualcosa da demitizzare, e quest'opera che si definisce critica rischia di procedere finché non avrà più nulla da criticare. Si ammetta pure che quel sacro, che quel mito siano errori; resta purtroppo vero che non basta la critica di un errore per produrre una verità.

 

E siamo ancora lì, in mezzo al guado.

Queste parole furono scritte quasi quarant'anni fa, ma nulla è cambiato nel panorama del pensiero occidentale, se si eccettua il trucchetto verbale di avere inventato la categoria del post-moderno.

Sappiamo criticare tutto, e sappiamo farlo benissimo.

Ma non saremo capaci di produrre neanche uno straccio di verità, finché seguiteremo a fare della negazione il nostro esercizio preferito; anzi, praticamente l'unico del nostro repertorio.

Dobbiamo riprendere da dove abbiamo cominciato a deragliare; dobbiamo rinunciare alle idee febbricitanti dello sviluppo indefinito e della superiorità del moderno; e ritrovare la nostra vera misura di esseri umani, ossia di soggetti chiamati ad amare, a contemplare senza smania di dominio, a compiere delle scelte etiche senza l'ossessione del fare, manipolare e sottomettere. E ad accettare   il presente in maniera responsabile: senza condannare il passato, senza temere il futuro e senza chiudere la porta al non ancora.