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Profonde crepe nell'economia Usa

di Filippo Ghira - 13/09/2008

 

Profonde crepe nell'economia Usa

Le difficoltà strutturali dell’economia statunitense continuano a riflettersi negativamente sui mercati europei ed internazionali. Il Dipartimento del commercio ha reso noto che il deficit commerciale Usa in luglio è salito a 62,2 miliardi di dollari contro i 58,8 miliardi di giugno. La previsione era invece di 58 miliardi. Immediate le reazioni in Borsa. All’apertura di Wall Street, l’indice Dow Jones ha perso quasi l’1% rispetto a mercoledì mentre il Nasdaq è sceso dell’1,30%. Stessi effetti in Europa dove nel pomeriggio le perdite si sono collocate in una fascia tra l’1% e il 2% per poi attestarsi in chiusura su una perdita di mezzo punto percentuale. Se sono i fondamentali (come appunto l’interscambio commerciale) a testimoniare della crisi Usa, ci sono poi i casi specifici che contribuiscono a far temere che ci si trovi di fronte ad un quadro molto simile a quello che precedette il grande crollo di Wall Street del 1929 e la successiva Grande Depressione che ne seguì e che obbligò Washington ad intervenire nel secondo conflitto mondiale. Nell’occhio del ciclone è finita ieri ancora una volta la Lehman Brothers, una delle principali banche d’affari degli Usa, già fortemente penalizzata dalle sue speculazioni sul mercato dei mutui subprime. Il titolo della Lehman ha subito un autentico tracollo (con un catastrofico –22%) in apertura di Wall Street mentre i derivati che proteggono dal rischio di un eventuale crollo della banca d’affari Usa, i cosiddetti “credit default swaps” (CDS), hanno raggiunto un nuovo livello record a 685 punti base contro i 580 di mercoledì quando la Lehman aveva annunciato un piano di emergenza per evitare la bancarotta. Un piano che evidentemente non ha convinto il mercato. Stanno così emergendo in tutta la loro evidenza le debolezze di un sistema economico, quello americano, nel quale l’elemento caratteristico è sempre stato quello dell’abbondanza. In particolare credito facile per le imprese e per le famiglie da decenni abituate ad indebitarsi per qualsiasi cosa, dal mutuo per la casa ai consumi. Oggi come nel 1929. Ed anche la facilità di disporre e quindi di sprecare carburante, sempre disponibile e a buon mercato. Tutte facilitazioni alle quali l’americano medio non intende rinunciare e che i governi Usa, sia repubblicani che democratici, non hanno alcuna intenzione di togliergli. Ma la situazione appare ancora più grave rispetto al 1929 perché oggi ci sono concorrenti molto forti nell’approvvigionamento di petrolio e la domanda proveniente dagli Usa non è più decisiva come un tempo. E perché l’interscambio commerciale di Washington con il mondo è in costante profondo rosso. Gli Usa hanno un economia che si basa sulla domanda interna, questa a sua volta è alimentata dai debiti accesi dalle famiglie e da quello dello Stato che riesce ancora a collocare i titoli del debito pubblico sul mercato internazionale mentre gli americani consumano più di quello che esportano. Stando così le cose, se un meccanismo si inceppa, tutta questa costruzione rischia di crollare trascinando con sé anche quanti le avevano concesso fiducia. Il crollo di Lehman Brothers non è che la più recente tappa, certamente non l’ultima, di una involuzione che ha visto la crisi dei due colossi dei mutui, Fannie Mae e Freddie Mac, per la cui salvezza il governo Bush è dovuto intervenire con una vera e propria nazionalizzazione, una bestemmia per la mentalità e i canoni Usa, investendovi la non indifferente cifra di 200 miliardi di dollari. Se anche nella patria del Libero Mercato si è arrivati ad una tale livello di interventismo pubblico, vuol dire che anche alla Casa Bianca ci si è resi conto che il Mercato non può più essere lasciato nelle mani dei suoi attori e padroni, le banche che speculano e che operano senza disporre dei fondi necessari. Una presa d’atto arrivata in ritardo e che non può coprire noi cittadini europei dagli effetti di un modo banditesco di concepire ed utilizzare l’economia. Un approdo che ci dovrebbe fare prendere coscienza sul fatto che gli interessi degli Usa non sono quelli dell’Europa anzi semmai sono agli antipodi. E questo vale sia per l’economia che per la politica come dimostrano le stesse recenti vicende del Caucaso.