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L’ottobrata

di Andrea Sciffo - 15/09/2008

 

Ottobre sta per finire, qui, alle estremità settentrionali della Pianura Padana: ancora una volta dobbiamo, purtroppo, annotare come “siccitoso” il periodo appena trascorso. Bel tempo stabile, ripetono funeree le previsioni del meteo; difatti, non una sola goccia di pioggia è caduta, qui, né l’umida foschia ha avvolto le nostre sere autunnali; segno inequivocabile, per chi non accetta di diventare ipocrita, di una maledizione incombente. Un seccume sporco rende tetri gli angoli delle città motorizzate e persino i campi della pianura agricola oltre il Po, dove l’altro giorno ho letto sull’erba grigia un messaggio di disgrazia. Intanto, il gran mondo degli esperti ovvero scienziati dibatte su desertificazione, riscaldamento globale, inquinamento atmosferico… Le posizioni più alla moda sono l’ecologismo da premio Nobel e l’antiecologismo becero: ambedue, sostenute da uomini penosi e pericolosi perché nei loro occhi io non vedo lo sguardo dell’amore disperato, né la ferita della penitenza né la gioia delle estasi fugaci. Sono invece questi i tre segnali presenti sul viso di chi si mette al servizio della vita e quindi dalla Vita della Vita è quotidianamente benedetto.

 

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Tuttavia, il mondo non è stato creato soltanto per venire devastato dagli uomini; dunque la sua gloria non perde smalto, nemmeno sotto l’alluvione della spazzatura o dentro l’inferno dei progetti “umani, troppo umani”.

Su un ramo del tasso di fronte a casa mia, inondato dal sole, si è posata per lunghi attimi una specie di farfalla-falena: sugge una bacca rossissima, mentre tanti insetti brillano come oro in controluce, con le loro traiettorie da pulviscolo, da molecola viva. La festa nell’aria dice che è domenica, e le campane lo sottolineano a intervalli regolari con rintocchi armonici: la festa è sempre nella musica, come nella quiete. Adesso, l’insetto è volato via e io, osservando immobile dal balcone la scena arborea, mi sono accorto di alcune gocce di resina che stillano da un ramo del cedro: forse sta qui, in questo rendermi conto, il dono della giornata del 21 ottobre di quest’anno che scorre.

 

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Ricevo da Margarethe Sußler-Liebenhof il nuovo aggiornamento del suo Almanacco.

 

 

Sotto l’immagine di una ridente contrada alpestre, c’è una bella descrizione delle “ottobrate” d’altri tempi, quando cioè a gruppi ci si inoltrava silenziosi nelle boscaglie per raccogliere gli ultimi regali della natura prima del severo ritiro spirituale imposto dall’inverno imminente:

 

“Rincasavamo al termine del pomeriggio, presto cioè perché non c’era l’ora legale, e mio padre apriva le cocche del grande tovagliolo dentro cui avevamo raccolto il nostro tesoro: sul tavolo del tinello, la luce spioveva trasversale e dorata illuminando spalliere di sedie e volti in attesa. Subito, dal fagotto scaturivano gli odori della stagione: da una parte i funghi, sporchi di terra e con un afrore intenso e muffo; dall’altra le castagne ancora avvolte dalla graniglia dei ricci dentro i quali dormivano maturando. Papà si accingeva a ferire i marroni più grossi per arrostirli sul fuoco che Albert frattanto aveva attizzato; mamma portava dalla cucina un grosso tagliere col formaggio dell’ultima erba, accanto a grappoli d’uva dagli acini turgidi. Ne veniva fuori quasi un quadro da pittore, con quei cibi sulla tovaglia linda; ma il profumo, l’aroma, che nessun pittore può riprodurre sulla tela, era indimenticabile: era l’odore della cera d’api appena tolta dalle arnie. Mia nonna confezionava tante candele giallastre, a piccoli coni, che sapevano di alveare. Nella sera di quelle ottobrate le accendevamo, aprendo anche i primi barattoli del miele novello che si spalmava come oro colato, con la sua luce del sole condensata nel polline e dall’azione delle api.

 

 

 

Nei primi anni dopo il ’45, mio nonno coglieva l’occasione per aprire una polverosa bottiglia di vino rosso recuperata dalla cantina e stappata con cautela davanti alla candela accesa in mezzo alla tavola; così si festeggiava la fine dell’anno agricolo e la merenda diventava cena all’arrivo di zii e cugini, prolungandosi sino al buio con canti e dolci e qualche ballo (Hans Karl suonava bene la fisarmonica, prima di perdere due dita in un incidente sul lavoro nell’officina)”.

 

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Per questo, per il fatto stesso che il mondo creato sussista e resista (ancora) agli attacchi della devastazione, la felicità è possibile, benché imprevedibile per le nostre mentalità difettose.

La nostra stessa presenza qui e ora è una sconfitta per lo spirito di distruzione che vorrebbe ridurre tutto a niente; l’altroieri, i fisici di Ginevra hanno inviato un fascio di Neutrini ai loro colleghi del Gran Sasso… e a settecento kilometri di distanza le particelle sono arrivate, subito dopo, a velocità strepitosa, disperdendosi appena e soprattutto attraversando la materia “impenetrabile”: bisognerebbe dedurre che il Nulla non esiste, sgretolando finalmente i tremila anni di filosofia materialistica (da Empedocle ed Epicuro a Marx e Nietzsche) che paventa il vuoto al termine della vita.

Infatti io non sono solo, adesso, mentre scrivo da solo questa lettera: come Ungaretti fu illuminato dalla presenza discreta di suo figlio Antonetto (morto bambino nel 1944 ma rimasto in spirito accanto al padre per altri venticinque anni, sino al ricongiungimento, al di là), così i miei cari morti sono qui, in qualche modo, e assistono. Neutrini, dice lo scienziato, che a ogni minimo esperimento non fa altro che provare l’infinita esistenza di Dio.

 

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Il pomeriggio, per gli alberi davanti a casa, è quasi finito: dovranno pazientare ancora, in attesa della pioggia ristoratrice che disseta e predispone al freddo. Nel frattempo la vita vive brulicante nelle estreme età degli insetti volanti, che difficilmente sopravvivranno oltre le prossime due settimane; la mite legge di natura impone un limite ai loro giorni. Ma le loro traiettorie d’oro nel verde lustro del fogliame non sono cosa effimera, neanche a volerlo. Nel banchetto della gloria ci sono gli antipasti ma anche i dessert, perché esiste un ritmo anche fuori dal tempo; e perché nemmeno il più piccolo frammento che cade dalla mensa di Cristo andrà perduto o disperso. Così la Sußler-Liebenhof trascrive nei suoi taccuini un detto contadino della Foresta Nera che dice “per san Simone (28 ottobre) una mosca vale un piccione”.

Persino le combinazioni dei numeri richiamano al segreto festoso della Vita della Vita: giusto un mese fa, il 21, scoprivamo con gioia commossa che un altro figlio è in arrivo in famiglia. Anche se fossero davvero gli ultimi anni del mondo, come minacciano i cabalisti che additano la cifra del 21.12.2012, c’è un nuovo innocente che sta per incarnarsi e prendere il cammino del pellegrinaggio quaggiù; anche i suoi piedini calcheranno la terra, bruna e profumata, polverosa o umida.

Infine, inizia la sera, fatta di ombre grigie e rosate. Ritirando le lenzuola stese ad asciugare sul balcone (è anomalo che ciò avvenga in questa stagione), l’aroma di vento e sole sulla biancheria pulita mi riporta a quando da bambino camminavo sotto le coltri candide dello stendipanni. Le campane della vicina chiesa battono il vespro, che pochi ormai conoscono; sull’altare sono accese candele di cera bianca, i celebranti vestono tuniche sbiancate di fresco mentre salgono fruscianti a cantare i Salmi. Prima di tramontare, il sole dardeggia un’ultima volta i suoi raggi gialli intensi dentro il cerchio dei vetri del rosone, che li rifrange in altre tinte sui pochi fedeli al rito. Fuori, gli insetti volteggiano nell’aria che si raffredda, e continueranno a danzare sulle ali sinché potranno.