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Dietrich Bonhoeffer e il problema della secolarizzazione

di Alessandro Puma - 15/09/2008

 

Se Karl Barth realizza, con un certo successo, il passaggio integrale di Kierkegaard alla teologia, Bonhoeffer si rivela fallimentare – ma ‘strutturalmente’ e non per sua colpa – nella sua applicazione di Nietzsche al cristianesimo.

         Kierkegaard e Nietzsche risultano molto più importanti, per la storia della filosofia, di Barth e Bonhoeffer, ma Bonhoeffer è superiore a Barth, se non altro per la sua “fedeltà alla terra” e per la sua “filosofia del sole”.

         L’abisso e il distacco radicale – dialetticamente radicale – tra Dio e l’uomo postulato da Barth, il no dell’uomo a se stesso che è condizione necessaria del si di Dio all’uomo (così com’è necessario, per esempio, in Jaspers, il naufragio dello scacco ontico), trova la sua riproposizione nella dialettica, necessariamente irrisolta, tra le verità penultime e quelle ultime in Bonhoeffer. Prospettiva verticale di scarto, come incompatibilità, tra ultimo e penultimo, tra finito e infinito, che caratterizza l’esistenzialismo come il protestantesimo, che non può essere contemperata con l’altra prospettiva orizzontale di compromesso con il mondo e con il secolo, tipica invece del cattolicesimo e, nel suo vertice più puro e luminoso – privo però del necessario dissidio interno cristiano – del paganesimo “panteista”.

         Filosofia-teologia del cielo e della terra sarebbe invece una liturgia dell’Uomo-Gesù1 (il ‘Figlio dell’Uomo’ di cui parla Daniele) e del Dio-Gesù, Pantocratore e Cosmocrate, Arcangelo Michele e in qualche modo anche ofitico-isiaco – nella potenza dello Spirito Santo inteso sia come Maschio che come Femmina, cioè, nel paragone sicuramente indebito con la Cabbala ebraica, come Metatron demonico-solare, serpente di luce al tempo stesso Agathodaimon e Kakodaimon – che parli del Giardino o della Città Celeste e che non si limiti a celebrare i culti della Gerusalemme terrestre, che è quel che la Chiesa oggi fa, ma che possa far scaturire la celebrazione del mondo dell’al di qua come se ci si trovasse già nell’al di là. E’ questo il vero significato di ciò che dobbiamo intendere con la terminologia ecclesiale ormai un po’ trita del già e non ancora, il punctum dolens dello scarto tra Impero Romano e Cristianesimo che ha coinvolto tutti i grandi tradizionalisti fautori dell’aut-aut (o Impero o Cristianesimo) come il Reghini e l’Evola che, in quanto uomini d’azione realmente pagani e panteisti, non potevano comprendere – specie quest’ultimo – cos’è l’esistenzialismo e qual è il senso del protestantesimo; ed è anche il dissidio di Nietzsche, che è lo stesso del Bonhoeffer, riguardante la giusta denuncia di una Chiesa che perde il senso del sacro, del cosmo e del sole, nel momento in cui perde ogni nozione del ‘sale della terra’ come fedeltà ad essa e al senso del ‘novum’ che solo l’uomo può dare.

         Per questo semplice motivo quel “bolscevismo del mondo antico”, che è stato il cristianesimo, ha avuto una sua precisa ragion d’essere innanzitutto come una fase del processo di crescita dell’umanità – oltre che come unica Verità – esattamente come l’hanno avuta la gnosi, il protestantesimo e il marxismo (ma non l’americanismo, il capitalismo e il sionismo), questi ultimi però fallimentari e ottusi – come fallimentare e ottusa può essere una Chiesa che si lasci irretire da essi – nella misura in cui rimangono prigionieri della posizione estremistica dell’aut-aut (solo Dio o solo uomo) o, al contrario, per un eccesso di zelo nell’applicazione di un et-et paolino mal interpretato, arrivano addirittura ad influenzare quegli stessi teologi che – come ad esempio Cox – si prostituiscono alla secolarizzazione e credono di poter trovare Dio nella vita aberrante e animalesca delle gigantesche tecnopoli americane; falso processo di emancipazione dell’uomo che, per certi versi, ha abbracciato anche Bonhoeffer e che ha ispirato Pasolini per il suo film, mai realizzato, sulla predicazione di San Paolo a New York.

         Dall’aut-aut di Kierkegaard-Barth, si è arrivati all’et-et problematico e irrisolto di Bonhoeffer; adesso sarebbe forse il caso di approdare a un paradossale e anticratico “aut-et”, ossia alla nostra idea filosofica di una nuova ‘escatologia naturale’.

         Per le vicissitudini della sua vita, in ultima analisi, Bonhoeffer risulta molto più virile di un Nietzsche che, ebbro di sifilide, pianse abbracciato a un cavallo, ma la sua virilità fu piuttosto mal diretta verso quell’aspetto maggiormente femmineo della cultura greca, cioè quello mediterraneo che fa sì che un popolo bruciato dal sole veneri piuttosto la luna, esattamente all’inverso di un popolo nordico che, sferzato dal freddo, possiede maggiore consapevolezza di ciò che deve essere un Sonnenmensch, cioè appunto l’‘Uomo-Sole’ della tradizione germanica. E questo tratto ambiguo della sua ‘filosofia del sole’ si mostra chiaramente in un passo di “Resistenza e resa” in cui Bonhoeffer scrive all’amico Bethge: “Posso ben immaginare che qualche volta cominci ad odiare il sole. E però, sai, vorrei poterlo percepire ancora una volta in tutta la sua forza, quando splende sopra la tua testa e a poco a poco infiamma tutto il corpo, sicchè sai di nuovo che l’uomo è un essere corporeo (corsivo mio n.d.r.)”2.

 

NOTA: Premesso che, se non fosse caduto l’Impero Romano, non ci sarebbe stato bisogno di nessun Nietzsche, né tantomeno di un’applicazione di Nietzsche al cristianesimo, vorremmo qui precisare che la teoria più sopra esposta, della componente ctonio-tellurica-lunare, e cioè femminea, dei popoli mediterranei, unitamente all’elemento solare e virile dei popoli ario-nordici o indo-germanici che dir si voglia, non è affatto razzistica o desueta, innanzitutto perché si parla di caratteristiche spirituali e non biologiche di determinati popoli, ciascuno con il suo legittimo carattere e stile di vita, e in secondo luogo perché testimoniata, oltre che dall’esperienza comune, anche da autori molto diversi tra loro come Julius Evola e Antonin Artaud.

         Il primo, infatti, parlando della grandezza di Roma antica proprio dal punto di vista del suo carattere ario-mediterraneo, su “Imperialismo pagano” così afferma: “(la romanità pagana) si è sostanziata nelle forme di una civiltà eroica, solare e virile: una civiltà che era chiusa ad ogni fuga mistica; che si attenne al tipo aristocratico-ario dei patres, i signori della lancia e del sacrificio; che fu misteriosamente confermata dai segni nordici (corsivo mio) del Lupo, dell’Aquila e dell’Ascia […]3.

         E Artaud, trattando della lotta tra il principio maschile e quello femminile all’interno di uno dei popoli più femminilizzati della storia antica, cioè i siro-fenici, nel suo delirante e incomparabile capolavoro “Eliogabalo, o l’anarchico incoronato”, così scrive: “Ma se, in tutti i paesi in cui si cerca di porsi direttamente in comunicazione con le forze separate di Dio, vi sono dei templi per il sole, e dei templi nemici per la luna, e altri templi per il sole e la luna mescolati, in nessun momento della Storia, e su un così ristretto spazio di terra, che quelle lotte hanno sconvolto, si trova mai, come in Siria, una simile concentrazione di templi in cui il maschio e la femmina contemporaneamente si divorano, si mescolano, e separano le loro facoltà”4.



1 Meglio ancora potrebbe esserci d’aiuto il riferimento al Gesù perfettamente umano, ma inabitato dalla grazia, non dello Spirito, ma del Logos come Seconda Persona o Cristo preesistente, di cui parlano i Kerygmata Petrou e gli Anabathmoi Iakobou degli albori del cristianesimo.

2 Lettera del 30 giugno 1944, p. 415.

3 J. Evola, Heidnischer Imperialismus, p. 27-28 (p.195 nella versione italiana delle Edizioni Mediterranee).

4 A. Artaud, Eliogabalo o l’anarchico incoronato, Adelphi, Milano 2003.