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Siamo tutti feriti nell'anima e tutti bisognosi di compassione e di perdono

di Francesco Lamendola - 16/09/2008

 

  

Ciascuno di noi reca impressa nell'anima la cicatrice di qualche ferita, abbastanza profonda da aver impresso una svolta irreversibile nel nostro orientamento esistenziale; e ciascuno di noi è per ciò stesso meritevole di compassione e di perdono.

Ci eravamo già occupati di questo tema in un precedente articolo, La coscienza ferita è una invocazione al reintegro nell'Essere (consultabile sul sito di Arianna Editrice), considerato, però, prevalentemente nel versante dell'Assoluto, ossia come sintomo di un nostro insopprimibile anelito verso la trascendenza e verso il reintegro nell'Essere, dal quale proveniamo e al quale siamo diretti, sia pure inconsapevolmente.

Ora vogliamo riprendere l'argomento, concentrando però la nostra attenzione sull'altro versante, quello del finito, cercando di cogliere le connessioni e le implicazioni fra il nostro io e quello degli altri, approfondendo così quanto detto nell'articolo Oltrepassare la delusione per non sciupare la bellezza del mondo (sempre sul sito di Arianna).

La prima cosa da mettere in evidenza è che la condizione di creature ferite non è propria di questo o quell'individuo e non è la risultante di determinate circostanze storiche, che possono verificarsi oppure no. Essa è un elemento costitutivo ed essenziale della nostra condizione ontologica, al di là del fatto che alcune persone - più sensibili o più sfortunate - possano prenderne consapevolezza in maniera più accentuata, o più traumatica, rispetto ad altre.

Non si tratta di un'affermazione apodittica e gratuita, derivante da una visione della realtà particolarmente pessimistica. Oltre all'esperienza quotidiana della frequentazione di se stessi e degli  uomini - cosa che ha pure il suo valore, perché sono le teorie che devono adattarsi ai fatti e non viceversa -, vi è un'altra ragione per sostenere che la ferita dell'anima è parte della condizione umana e, quindi, una realtà ineliminabile, per quanto l'orgoglio della ragione possa anche spingere taluno a credere e ad affermare il contrario.

E la ragione è questa: che l'essere umano, creatura finita, sente in se stesso l'anelito dell'infinito, ma, nello sforzo di oltrepassare il proprio limite e di attingere alla pienezza dell'assoluto, va continuamente a sbattere contro una barriera insuperabile, ferendosi - ogni volta - in modo più o meno grave, più o meno doloroso. Poi, dopo aver cercato di medicarsi alla meglio, raccoglie le forze in vista del prossimo tentativo; e, quanto più prende lo slancio per superare quella invisibile, ma insuperabile barriera, tanto più crudelmente torna a ferirsi; e finisce per ricadere, scoraggiato e deluso, senza più forze e senza più speranza.

Beninteso, solo alcuni individui sono consapevoli del dramma di cui sono protagonisti e in cui consiste il conflitto della loro vita, il cui esito è - così frequentemente - l'amarezza che toglie loro la gioia di vivere, e per cui essi la tolgono ad altri - mariti, mogli, figli, colleghi. La maggior parte delle persone reitera sempre i medesimi tentativi e i medesimi errori, senza riuscire a mettere a fuoco la vera natura del problema; dopo ogni delusione e ogni ferita, attribuisce la colpa di quanto è successo a cause contingenti e pensa che, la prossima volta, sarà più fortunata, o più abile, o più decisa, e così via.

Il più delle volte, si attribuisce la colpa agli altri.

Così, nelle ferite di tipo affettivo - che sono tra quelle più devastanti - è sempre possibile attribuire la responsabilità delle delusioni, delle incomprensioni, delle sofferenze, al fatto che l'altro ha agito in modo inadeguato, irresponsabile, egoista.

In parte, si tratta di un meccanismo di autodifesa per conservare la fiducia in se stessi; e non è una cosa cattiva, a patto che non si traduca in una rimozione sistematica delle proprie inadeguatezze e delle proprie responsabilità. Se ciò avviene, vanno sprecate le occasioni più preziose che la vita ci offre per effettuare un salto di qualità nella nostra evoluzione spirituale; e la sofferenza provata diventa inutile, perché non sarà servita ad insegnarci nulla su noi stessi.

Vi è anche una discreta percentuale di persone che reagiscono alle ferite dell'anima andando nella direzione opposta, ossia rifugiandosi nell'autocommiserazione, nel disprezzo di sé, nella denigrazione sistematica delle proprie qualità. Anche questa è una maniera di nascondere il problema, perché solleva dalla virile necessità di fare i conti sino in fondo con se stessi, e dal trarre le debite conseguenze dalle ripetute delusioni incontrate. Addossarsi ogni colpa è una reazione uguale e contraria a quella di dare ogni colpa agli altri; non serve a chiarire i termini della propria situazione, né a fare il punto del proprio percorso, né a prospettare possibili vie d'uscita. Entrambe sono le reazioni dei pigri, dei fiacchi, dei pusillanimi: con l'unica differenza che, nell'un caso, l'aggressività si dirige verso l'esterno, nell'altro, verso l'interno.

Imparare a fare i conti con se stessi significa imparare a non essere né eccessivamente indulgenti, né eccessivamente severi: a guardarsi con lucidità e, in ultima analisi, con lealtà e con onestà. Essere onesti con se stessi, infatti, vuol dire prendersi le proprie responsabilità e togliersi dalle spalle quelle che appartengono ad altri. Non è giusto né colpevolizzare il mondo intero per ciò che ci ha feriti, né  prendere su di noi tutte le colpe del mondo. Non è serio giudicare che ogni volta che soffriamo la colpa sia degli altri, ma non è neanche credibile che ogni colpa sia sempre e solo nostra.

Certo, vi è in alcuni una tendenza al masochismo, che li porta a cacciarsi nelle situazioni da cui non ricaveranno altro che lacrime e umiliazioni; e vi è, in altri, una tendenza al sadismo, che li porta a desiderare di avere il controllo totale del prossimo, magari per giocare con i suoi sentimenti e per inebriarsi del proprio potere, facendolo soffrire a piacimento. Tuttavia, anche se si tratta di dinamiche molto più diffuse di quanto comunemente non si creda, resta pur sempre il fatto che si tratta di dinamiche patologiche; e, per quanto non esista una linea netta di divisione tra normalità e patologia - specialmente in una società patologica, quale è la nostra - esse esulano, in quanto tali, dal quadro di riferimento generale.

Il fatto è che una creatura finita, ma animata da una scintilla d'infinito e da una vaga intuizione dell'assoluto, non può trascendere la propria condizione ontologica, ma non può neppure accontentarsene. Questo è il dramma della condizione umana; ma può essere un dramma a lieto fine - una commedia nel senso dantesco del termine - se la persona umana sa farne una palestra di perfezionamento e una preparazione a quel salto ontologico cui è realmente chiamata, ma non con le proprie forze e non nella sfera del finito.

Nessuno può trovare l'infinito nel finito; nessuno potrà mai trovarvi la bellezza assoluta, la bontà assoluta, la verità assoluta, la pace assoluta. Il nostro sarà sempre un pellegrinaggio nel deserto, faticoso ed incerto (cfr. i nostri precedenti articoli Ogni uomo è un viandante con la doppia cittadinanza e Quando il viandante ha i piedi feriti, sempre sul sito di Arianna). Tuttavia, sapere che lontano, oltre l'orizzonte, esiste una magnifica oasi, può dare forze e speranza al nostro sofferto peregrinare; purché non si tratti di semplici miraggi, che ogni volta svaniscono davanti ai nostri occhi, riempiendoci di sgomento e di frustrazione.

La caratteristica del miraggio è la sua natura illusoria e anche l'essere, apparentemente, a portata di mano. La meta cui tendiamo, invece, sappiamo già in partenza che è lontanissima; di più: che non è, alla lettera,  di questo mondo. Dunque, se ci pare di averla a portata di mano, dovremmo già essere avvertiti che si tratta solo di un ennesimo, ingannevole miraggio: di una visione creata dai nostri convulsi desideri.

Il dramma dei falsi profeti della modernità, da Marx a Nietzsche, è stato quello di aver voluto additare agli uomini una meta impossibile: la perfetta giustizia e la perfetta libertà, già qui e ora, già nella dimensione del finito. Ma questo è impossibile: il mondo non potrà mai contenere nulla di perfetto, nulla di assoluto, per quanti sforzi noi possiamo fare - ed è giusto che li facciamo - per tentare di realizzare qualcosa che vi si avvicini. Pensare diversamente, significa fare come quel bambino che - secondo la leggenda - voleva travasare il mare in un buca scavata nella sabbia, servendosi di un secchiello.

Falsi profeti sono coloro i quali illudono l'uomo di poter farsi misura di tutte le cose, divenendo il Dio di se stesso. Essi gli gettano sulle spalle un peso che non è in grado di sopportare e una responsabilità che non gli compete. Perché, se è giusto che ciascun essere umano collabori, nella misura delle sue forze, al grande disegno di rendere il mondo un luogo più accogliente e più felice di quanto non sia, è altrettanto vero che non gli verrà mai chiesto di salvare, egli solo, il mondo intero. Del resto, è una razza pericolosa quella dei salvatori che confidano solo nelle forze dell'umano: i Paradisi che hanno voluto realizzare somigliano un po' troppo a degli Inferni.

È vero che alcuni uomini eccezionali hanno toccato vertici tali di perfezione, da poter essere presi a modello e da aver permesso a tanti loro simili di intravedere, per una sorta di privilegio divino, quella soglia finale oltre la quale i valori assoluti del Bene, del Vero e del Bello si schiudono all'umana nostalgia, in tutta la loro luminosità abbagliante.

San Francesco d'Assisi nelle virtù morali, Johann Sebastian Bach nel dono celestiale della musica, Leonardo da Vinci nei suoi meravigliosi dipinti, ci hanno permesso di spingere lo sguardo fino ai limiti del contingente e di sfiorare, per così dire, l'assoluto. Il loro esempio rimane come una fonte perenne di luce e di speranza, capace di rischiararci la strada nei tratti più perigliosi del nostro cammino. Possiamo dire a noi stesi, infatti, che esseri umani simili a noi, soggetti alle nostre stesse limitazioni e debolezze, hanno saputo levarsi così in alto con le loro opere o con la loro vita, da far quasi dubitare che in essi vi fossero una perfezione e una forza sovrumane.

In realtà, non che fornire l'esempio della eccellenza della natura umana, essi, proprio con la loro eccezionalità, ci confermano quale sia il limite estremo che anche le creature umane più grandi possono raggiungere, e quale il confine ultimo, oltre il quale a nessun mortale è concesso di  spingersi.

Non furono dei superuomini, se col termine «superuomo» si intende un essere umano che oltrepassi,  con le sue sole forze, la condizione ontologica a lui propria. Furono, semmai, degli esseri umani talmente umili, da rendersi totalmente disponibili all'accoglienza di una forza sovrumana, benefica e provvidente, che ha operato grandissime cose per mezzo loro. Soli Deo gratia, scriveva al termine di ogni composizione Bach: e ne scrisse più di mille. Soli Deo gratia: quale uomo è mai stato così grande, riconoscendosi così piccolo?

 

Dicevamo, dunque, che la ferita è il segno ineliminabile della condizione umana. Non vi è creatura umana che, nella vita, non sia stata ferita; non vi è creatura umana che non abbia dovuto scendere a patti con la delusione delle proprie speranze; anzi, non di questa o quella speranza, ma della categoria della speranza in se stessa.

Ma se ogni essere umano reca nella propria anima le cicatrici di una tale ferita esistenziale, allora ne consegue che non vi è creatura umana la quale non meriti rispetto, compassione e perdono.

Ora, il rispetto e la compassione, nel senso etimologico di cum patire, di soffrire insieme, si possono comprendere abbastanza facilmente; anche se i cattivi profeti, di cui parlavamo poc'anzi, avrebbero voluto abolire sia l'uno che l'altra, in nome dei loro cupi Paradisi. Ma perché anche il perdono? Di che cosa ogni singolo essere umano dovrebbe essere perdonato?

Dovrebbe essere perdonato del fatto di soffrire, il più delle volte, senza sapere perché: e, quindi, di trasformare la sua sofferenza in rabbia o disperazione. Sia la rabbia che la disperazione sono delle bestemmie nei confronti della vita e del progetto armonioso e benevole ad essa sotteso. Inoltre, sono elementi altamente distruttivi, i quali, se non vengono prontamente placati, possono propagarsi da una persona all'altra, da un popolo all'altro, da una generazione all'altra.

Pensiamo a quali conseguenze può portare la rabbia di un genitore che, ferito dalla vita, riversa tutto il suo malessere sui propri figli. Si crea, in tali casi, un circolo perverso, che rischia d'infettare e di contaminare persone innocenti che, magari, devono ancora nascere; le quali, a loro volta, trasmetteranno il virus della rabbia ai loro figli, e ai figli dei loro figli. La rabbia, inoltre, rende ingiusti; e la disperazione toglie ogni senso di equilibrio e di equità.

Una persona rabbiosa e disperata è una mina vagante, che può esplodere in qualsiasi momento, e che rende pericoloso il cammino della vita a molte altre.

Non vi è dubbio, quindi, che una persona del genere susciti compassione e, nella misura in cui soffre senza capire perché - e quasi tutti soffriamo senza capire perché - la si vorrebbe anche perdonare per il male che, spesso involontariamente, provoca agli altri, oltre che a se stessa. Tuttavia - e questo è il punto - la si può effettivamente perdonare, oltre a ritenerla meritevole di compassione e, in generale, anche di perdono?

Se si vuole essere onesti, bisogna riconoscere che la cosa non è facile. Per quanto vi siano persone la cui sofferenza suscita pietà e un sentimento di umana fratellanza, pure, il modo rabbioso e distruttivo che hanno di riversare sugli altri il loro dolore, rende a volte assai arduo il nostro proponimento di perdonarle.

E allora?

E allora bisogna avere la lealtà di riconoscere che de te fabula narratur, la favola è raccontata proprio per te, sia applica proprio al tuo caso. Queste persone sgradevoli, che stentiamo a perdonare a causa del loro comportamento inconsulto, siamo anche noi stessi, visti dall'esterno, cioè dagli altri. Il più delle volte non ce ne accorgiamo, ma siamo proprio noi quelle persone che, tormentate dalla ferita che si è aperta un varco nelle cani vive, si comportano in modo rabbioso verso coloro che le attorniano e riversano su di loro, che sono incolpevoli, la propria amarezza e la propria disperazione.

È giusto perdonare gli altri, dunque, nella misura in cui vorremmo essere perdonati noi stessi, se avessimo piena coscienza di come ci mostriamo veramente; e di come avremmo., comunque, bisogno di essere perdonati dal prossimo.

Pure, rimane il fatto che la cosa si presenta, talvolta, così difficile, da apparirci pressoché impossibile o, per lo meno, superiore alle nostre forze.

È a questo punto che subentra la necessità che Qualcuno o Qualcosa di superiore all'umano abbia pietà delle nostre ferite e ci perdoni la nostra debolezza, la nostra rabbia e la nostra disperazione. Chi se la sentirebbe di giudicare colui o colei che non trova la forza di perdonare chi gli ha inflitto crudeli sofferenze o, magari, le ha inflitte alle persone a lui (o a lei) care?

Ma quello che è impossibile all'uomo, non è impossibile all'Essere che ci ha chiamati all'esistenza, che ci ha invitati a collaborare al grande disegno dell'armonia universale, e che ci ha fornito gli strumenti indispensabili per distinguere il bene dal male. Davvero saremmo una ben misera cosa, se non vi fosse alcuna forza capace di perdonarci, anche quando siamo più incattiviti dalla sofferenza e dalla delusione.

Vorrebbe dire che, per noi, non esiste via d'uscita dal circuito perverso dell'amarezza e della rabbia; che non vi è scampo dalla potenza dell'Inferno.

Saremmo perduti: anime dannate, letteralmente, capaci solo di soffrire e di far soffrire a nostra volta, magari proprio coloro che diciamo di amare maggiormente.

Invece, l'uscita da un simile Inferno esiste; ma noi non ne abbiamo le chiavi. Noi, possiamo solo riconoscere la nostra fragilità e la nostra condizione di creature ferite.

E questa è già una forma di preghiera, che può aprirci le porte dell'Inferno e donarci l'aria libera e pura di un'altra dimensione.