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Tutta la vita in una scatola

di Massimo Gramellini - 16/09/2008

Chiedo preventivamente scusa per la sbandata sentimentale, così poco adatta al paesaggio algido della finanza, ma le immagini degli impiegati di Lehman Brothers che escono di colpo e per sempre dalla loro ormai ex banca con una scatola di cartone fra le braccia mi hanno scosso. Probabilmente più di quanto abbiano scosso gli anglosassoni, abituati a nuotare nel torrente freddo della precarietà e a inventarsi mille vite, mille scatole. Noi no, non ancora. Noi guardiamo quella scatola di cartone e ci sembra che parli. Racconta la storia di un uomo o di una donna che vennero assunti da una grande azienda - solida, solidissima - e per prima cosa recintarono la loro piccola porzione di rispettabilità, personalizzando la scrivania con gli oggetti evocativi della propria esistenza. La foto dei figli. La targa sportiva vinta al liceo. Il modellino dell’auto dei sogni comprabile a rate, appena fosse sopraggiunto lo scatto di stipendio.

Poi, una mattina di quasi autunno, il capo ti convoca in sala riunioni assieme ai colleghi, tutti in fila fianco a fianco, come per un premio o per un’esecuzione. E ti dice che la tua diga di oggetti non è servita ad arginare l’onda impetuosa del cambiamento: ragazzi si chiude, addio e buona fortuna. Tu torni nella tua stanza e non pensi a niente, perché qualunque pensiero potrebbe spaventarti. Svuoti in fretta la scrivania, raduni il tuo presepe ambulante nello spazio ancor più ristretto di un parallelepipedo di cartone, lo prendi in braccio e te ne vai senza voltarti indietro.

Inutile chiedersi come fanno i licenziati ad avere ogni volta una scatola a portata di mano. È sempre la stessa, fa parte del presepe, momentaneamente parcheggiata contro una parete o dentro un armadio. Il simbolo di quella precarietà da sfollati esistenziali che qualcuno, di solito ricco e inamovibile, si ostina a chiamare progresso.