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Nessuna frattura. L'arte del romanzo e gli equivoci dell'impegno.

di Claudio Ughetto - 17/09/2008

Fonte: Claudio Ughetto

 

Nel mese di ottobre 2007, sulle pagine culturali del Corriere della Sera, si è molto discusso delle dichiarazioni di due premi Nobel, Orhan Pamuk e Doris Lessing, entrambi critici nei riguardi della cosiddetta letteratura impegnata. Se Pamuk sostiene che “mettersi al servizio di una causa distrugge la bellezza della letteratura”, la Lessing esprime con altre parole la stessa opinione: “Non ho mai pensato che un romanzo dovesse essere un manifesto politico”. Probabilmente queste dichiarazioni, da iscrivere nell'eterna diatriba tra i sostenitori dell'arte per l'arte e coloro che ne auspicano un intento pedagogico, non avrebbero fatto un granché scalpore se non arrivassero da due scrittori che con la politica e le battaglie civili hanno avuto a che fare per scelta o per sorte, rimanendone probabilmente delusi, o rischiando di pagarne di persona. Oltre ad aver aderito al marxismo in gioventù, per poi distaccarsene, Doris Lessing è stata per lungo tempo considerata una scrittrice femminista. Più giovane, Pamuk ha rischiato un processo in Turchia per aver ricordato il genocidio degli armeni, e un suo romanzo in particolare (Neve) sembra contenere delle tematiche dichiaratamente politiche.

È noto inoltre come il Nobel non sia dato soltanto per le qualità letterarie di uno scrittore, ma anche per ciò che egli rappresenta in una particolare situazione storica, per gli aspetti etici della sua esistenza, o proprio perché le sue idee corrispondono in parte o totalmente al sentire del momento. Questo non significa che spesso non vengano premiati scrittori importanti, autori di almeno un'opera fondamentale: basti pensare, tra i più recenti, al poeta Derek Walcott, che ha ridato un senso narrativo alla poesia e rinnovato l'epica. E possiamo anche citare J. M. Coetzee, Saramago, Gunter Grass per Il tamburo di latta. Spero che prima o poi venga conferito a Jan Mc Ewan, a mio avviso un perfetto candidato proprio per la qualità di alcune sue opere e il costante interesse per i temi contemporanei. Ci sono Nobel che diventano dei riferimenti per le generazioni future, esempi di estrema coerenza nei momenti tragici della storia, come ad esempio Thomas Mann, ed altri che invece deludono. Per il passato abbiamo Knut Hamsun, arrestato per collaborazionismo a 85 anni, ma anche recentemente qualcuno la sta pagando persino da morto: a Saul Bellow c'è chi non vuole dedicare una strada in Chicago, “quella tetra città” che ha narrato in molti romanzi, per alcune sue presunte affermazioni razziste e per l'amicizia con l'intellettuale neocon Allan Bloom, del quale riprese alcune idee in vecchiaia.  Da parte sua, Gunter Grass se l'è vista brutta quando ha dichiarato d'essere stato nelle SS  a 16 anni. Quando si saranno fatti i conti con il regime cubano, è probabile che anche Gabriel Garcia Marquez sarà sottoposto al tribunale del politically correct per la sua amicizia con Fidel Castro, così i mediocri dell'opinione pubblica potranno consolarsi di non riuscire a scrivere un capolavoro come Cent'anni di solitudine.

Insomma, il Nobel è prestigioso, ma vincolante. Per Hemingway e Faulkner ha segnato l'apice e il declino, e proprio Saul Bellow si chiese se non fosse troppo giovane quando lo ricevette nel 1975, all'età di 51 anni. Il ruolo pubblico di chi lo riceve va ben oltre il suo compito letterario, e forse è un bene che degli scrittori recentemente insigniti difendano la letteratura dalle strumentalizzazioni ideologiche. Un romanziere non deve per forza essere simpatico, né è tenuto a esprimere opinioni consolidate o essere santificato sull'altare delle buone cause. Un romanziere scrive dei libri, e per usare una celebre affermazione di Kafka, un libro deve “agire su di noi come una disgrazia che ci fa molto male, come la morte di uno che ci era più caro di noi stessi, come se fossimo respinti nei boschi, via da tutti gli uomini, come un suicidio, un libro dev'essere la scure per il mare gelato dentro di noi”1. Di libri, o meglio, di romanzi simili se ne scrivono pochi, oggigiorno. I romanzi devono essere “piacevoli”, intrattenere, preferibilmente rientranti in un genere per poterli serializzare. Quando hanno ambizioni di denuncia o di impegno civile, sempre preferibilmente devono occuparsi di fatti contingenti, di cronaca o di ciò che i giornali trattano in modo più superficiale o frammentario. Personalmente non ho nulla contro il romanzo d'inchiesta, soprattutto se fatto da scrittori coraggiosi come Roberto Saviano, che però non condivido quando afferma che la letteratura deve per forza “denunciare” o rivendicare qualcosa. Per questo basterebbero dei media onesti, mentre invece la letteratura si fa “scheggia di monolito”, usando un'espressione di Pavese, proprio quando riesce a dire qualcosa che non è semplicemente “manifestato”. Non avremmo Delitto e castigo se Dostoevskij non si fosse inoltrato nell'abisso psicologico di un giovane assassino di cui aveva letto nella cronaca, bensì un banale romanzetto da edicola ben presto dimenticato. Proprio le contraddizioni e le ambiguità faulkneriane nei confronti degli ex schiavi neri gli hanno permesso di costruire romanzi sconvolgenti come Luce d'agosto o Assalonne Assalonne: se avesse inteso semplicemente denunciare il razzismo e la segregazione, o viceversa aderire all'orgoglio bianco e sudista, probabilmente Thomas Supten e Quentin Compson non sarebbero mai esistiti. A Napoleone Colajanni, che nel 1891 lo invitata a collaborare a L'isola, Verga rispondeva: “L'isola sarà probabilmente un giornale di combattimento... ed Ella sa che io, tenuto per rivoluzionario in arte, sono inesorabilmente codino in politica”2. So di trattare argomenti spinosi, di scontentare filo islamisti e anti islamisti, considerando I versi satanici di Salman Rushdie un grande romanzo proprio perché non è un pamphlet contro Maometto, bensì uno stimolante e umoristico calderone che ci permette di capire il percorso di ogni uomo tra i rivolgimenti della Storia e nei conflitti culturali, in tensione identitaria tra bisogno di appartenenza e disincanto individualista. Tra i più strenui difensori di questo libro controverso c'è Milan Kundera, che ne parla ampiamente su I testamenti traditi.  Kundera ha vissuto l'occupazione di quella che fino a qualche anno fa si chiamava la Cecoslovacchia, è fuggito in Francia quando si è reso conto che sotto il giogo comunista, in quell'utopica parvenza kitsch, non avrebbe potuto continuare a scrivere. Questo non solo perché il regime tollerava esclusivamente un'arte e una scrittura ad esso asservite, con Vati a celebrare l'uomo-Kitsch e il suo “bisogno di guardarsi allo specchio della menzogna che abbellisce e di riconoscervisi con commossa soddisfazione”3, ma soprattutto perché a suo avviso un romanzo è innanzitutto un'esplorazione dei diversi aspetti dell'esistenza, con una molteplicità d'approccio che non può sottostare alla dittatura, ma neppure rivolgersi contro di essa con gli strumenti della propaganda o dell'adesione ideologica. Il romanzo è di per sé contro la dittatura, in quanto rappresenta una delle punte espressive più alte dell'Europa libera, formatasi coi lumi ma non ancora travolta dall'assolutismo del Terrore. Non è in Voltaire o in Rousseau che Kundera cerca il suo Illuminismo, ma in precursori come Cervantes e Rabelais, per arrivare a Diderot. Secondo Kundera, l'umorismo permea l'essenza stessa del romanzo, l'unione del non serio e del terribile, conquista della modernità che con essa potrebbe anche sparire4, e l'umorismo dispiace tanto ai dittatori quanto alle menti teocratiche, e spesso anche ai politici di professione. Proprio lui, prima di Pamuk, può scrivere impunemente: “Da sempre detesto profondamente, violentemente quelli che in un'opera d'arte vogliono trovare una posizione (politica, filosofica, religiosa, ecc.), invece di cercarvi un’intenzione a conoscere, di capire, di cogliere questo o quell'aspetto della realtà”5.

Tra la politica e la letteratura non si è spezzato proprio nulla, per rispondere a quanto scrive Ranieri Polese sulla Terza Pagina del Corriere. E nemmeno seguirei il pur sempre acuto Asor Rosa quando dice che “una tematica politica, non dico impegno, (è) pressoché assente in Italia”. Non sono mai stati i romanzi politici a parlare dell'uomo di sempre all'uomo di sempre, tantomeno a quello del tempo presente. Degli scrittori che hanno seguito la via dell'impegno ci ricordiamo più di loro che delle loro opere: in fin dei conti Sartre ha scritto un solo romanzo valido, La nausea, precedente alla sua adesione marxista; Camus rimane uno dei più grandi uomini del '900, inquieto pensatore e partecipe degli eventi, tra i pochi a non essersi fatto invischiare dalle ideologie totalitarie, eppure i suoi saggi ci sono più familiari dei suoi romanzi (dei quali è giusto ricordare almeno Lo straniero); lo stesso vale per George Orwell, che ha percorso parte del secolo breve con ammirevole spirito libertario, autore dello splendido Omaggio alla Catalonia, ma i cui romanzi maggiori sono, per dirla con Kundera, “chiusi alla poesia (...), pensiero politico travestito da romanzo”6

Hemingway ci ha dato capolavori come I quarantanove racconti e Fiesta, eppure il suo declino qualitativo comincia con Avere e non avere e Per chi suona la campana, ovvero con l'acuirsi dell'impegno politico. I testi rabbiosi e antisemiti (e anti molto altro...) di Céline sono sicuramente importanti per quanto riguarda l'estremo azzardo linguistico, ma e con Viaggio al termine della notte, Morte a credito e la Trilogia del Nord che egli si acquista un posto tra gli immortali.

È con Louis-Ferdinand Céline, o attualmente con Michel Houellebecq, che la tematica dell'impegno in letteratura diventa disturbante, caricandosi però di sfumature intriganti. Più d’altri, Céline è la dimostrazione che uno scrittore non è tenuto ad essere simpatico, a impegnarsi per forza in cause “giuste”, a leggere positivamente il corso degli eventi per riuscire a scrivere dei grandi libri. O meglio, lo è a livello umano, perché le scelte collaborazioniste di Céline e il suo antisemitismo possono piacere in qualche circolo neonazista, non a me o a chiunque ha ben presente a cos'ha portato il progetto hitleriano della Soluzione finale. Eppure nessuno può negare che Céline è stato più di altri “segugio e nemico del proprio tempo”, per dirla con Elias Canetti8. Ed è questo che si chiede a uno scrittore: non d'essere “organico”, aderendo a una chiesa o un partito, ma di esplorare temi inediti, trovare linguaggi nuovi per esprimere cose anche sgradevoli (senza magari fornire risposte), vivere le contraddizioni e i conflitti interiori per farci pensare.

Al contrario di Céline, Houellebecq non brilla per stile o ricerca linguistica7. I suoi sono romanzi d’idee, esposte nell'unica forma possibile a uno scrittore odierno. Ridurre Le particelle elementari all'opera di un reazionario, disgustato dal '68, dal femminismo e dalle battaglie per i diritti civili, significa non riuscire a comprendere come l'autore abbia messo in luce la nostra essenza di uomini attuali, liberati un po' da tutto ma abbastanza ipocriti e impauriti quando si tratta di scegliere se rimanere esseri umani o trasformarci in qualcos'altro. Houellebecq non milita, non propone una via da seguire: l'”Uomo nuovo” che s'ipotizza alla fine del romanzo è il frutto di una tragedia, Michel e Bruno quasi i superstiti di una società che non sa che farsene delle sue conquiste e delle sue libertà. 

Altrettanto sarebbe facile ridurre Piattaforma alle sue dichiarazioni anti islamiche, oppure liquidarlo moralmente per la rappresentazione (e forse implicita difesa) del turismo sessuale, mentre si tratta anche di una splendida storia d'amore, di riscatto e tragedia, in una società in cui noi uomini liberati non sappiamo cos'altro inventarci per dare un senso all'esistenza, nonostante le opportunità del consumismo, il Family day e le menzogne abbellite che continuiamo (e continuano) a raccontarci. 

Non c'è alcuna scissione, non si è spezzato alcun legame. Gli scrittori davvero importanti dello scorso secolo: Joyce, Kafka, Proust e Musil, ma anche Céline, Virginia Woolf (che ha scritto saggi di grande impegno, senza mai “militare”), Gadda o Witold Gombrowicz, per citarne solo alcuni, il Nobel non l'hanno mai ricevuto. Mi sembra un particolare su cui riflettere. Alcuni erano troppo estremi artisticamente, altri troppo isolati. Kafka è morto sconosciuto, chiedendo che i suoi manoscritti fossero distrutti. Per fortuna non è stato ascoltato. Di sicuro la “priorità stilistica” di cui parla Affinati su Il Corriere della Sera caratterizza le loro opere, ma non solo: ciascuno di essi ha saputo carpire il proprio tempo al di là della superficialità del momento. Lo ha preso alla gola9, e noi con esso, costringendoci a non distogliere lo sguardo. Talvolta a pensare contro noi stessi. Con umorismo.

Claudio Ughetto.

 

 

 

NOTE:

1. F. Kafka, Lettere1902 – 1924, Epistolario, Mondadori.  

2. Traggo da Sarah Zappulla Muscarà, Invito alla lettura di Verga, Mursia 1984.

3. Milan Kundera, L'arte del romanzo, Adelphi 1988.

Sempre in questo testo, lo scrittore boemo scrive: “Nel modo che gli è proprio, secondo la logica che gli è propria, il romanzo ha scoperto, uno dopo l'altro, i diversi aspetti dell'esistenza: con i contemporanei di Cervantes, si chiede che cosa sia l'avventura; con Samuel Richardson, comincia ad esaminare quello che accade dentro, a svelare la vita segreta dei sentimenti; con Balzac, scopre come l'uomo sia radicato nella Storia; con Flaubert, esplora la terra fino ad allora incognita del quotidiano; con Tolstoj, studia l'intervento dell'irrazionale nelle decisioni e nei comportamenti umani. Il romanzo sonda il tempo: l'inafferrabile attimo passato con Marcel Proust; l'inafferrabile attimo presente con James Joyce. Interroga, con Thomas Mann, il ruolo dei miti che, venuti dal fondo dei tempi, guidano a distanza i nostri passi. E così via”.  

4. Secondo un'affermazione del poeta Octavio Paz.

5. Milan Kundera, I testamenti traditi, Adelphi 1994.

6. Milan Kundera, I testamenti traditi.

7. “ ... la cui scrittura è indistinguibile da Ken Follet”, scrive Massimiliano Parente sullo scrittore francese (Massimiliano Parente, Antonio Moresco, Coniglio Editore, 2006). Pur  ammirando Houellebecq, sono in parte d'accordo con l'autore de La macinatrice.

8. Elias Canetti, Hermann Broch. Discorso per il suo cinquantesimo compleanno. Vienna, novembre 1936. In La coscienza delle parole, Adelphi 1984. Tra queste due caratteristiche, Canetti ne inserisce una terza, quanto mai adatta al nostro argomento: “... la ferma volontà di dare una visione d'insieme del suo tempo, una spinta all'universalità che non arretra spaventata di fronte a nessuna incombenza singola, che non elude, non dimentica, non trascura nulla, e che in nessun caso cerca facili scorciatoie”. Una caratteristica che è l'opposto di qualsiasi “organicità”, e “impegna” all'unico intento di scrivere delle opere letterarie originali.

9. L'espressione “prendere il secolo alla gola” è di Canetti, qui usata liberamente e forse in modo difforme dalle sue intenzioni, almeno da quando la usò, passando dalla narrativa alla saggistica. Canetti rimane comunque l'autore di Auto da fé, un romanzo tuttora esaustivo, col quale è davvero riuscito a sviscerare le domande più inedite sugli uomini del suo tempo e anche di quello a venire. Partendo da un'intuizione quanto mai attuale: “... mi venne in mente che il mondo non si può più raffigurare come nei romanzi di un tempo, per così dire dal punto di vista di un unico scrittore, il mondo era andato in pezzi e solo se si aveva il coraggio di mostrarlo nella sua frammentazione era ancora possibile dare di esso un'immagine veritiera” (Il mio primo libro: Auto da fé, op. cit.).