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La fretta e la complessità della vita quotidiana alle origini del nostro « shock da futuro »

di Francesco Lamendola - 19/09/2008

 

 

Abbiamo già avuto occasione di parlare, in un precedente articolo, dello «shock da futuro» che sta mettendo a durissima prova la capacità dell'uomo contemporaneo di adattarsi ai rapidissimi e convulsi cambiamenti tecnologici, sociali e culturali, che si succedono a ritmo sempre più rapido e incalzante (cfr. Lo «shock» del futuro, banco di prova del Nuovo Ordine Mondiale, consultabile sul sito di Arianna Editrice).

Inoltre, abbiamo anche avanzato l'ipotesi che alcuni dei più devastanti meccanismi di dissociazione e alienazione della mente dell'uomo contemporaneo, potrebbero essere  orchestrati all'interno di un progetto globale, pianificato da entità malvagie, il cui scopo sarebbe quello di provocare il massimo del disorientamento morale  nella società, al fine di poterla assoggettare più facilmente (cfr. i nostri due articoli Esiste un progetto consapevole per strappare l'anima del mondo?, sul sito di Edicolaweb, e Qualcosa sta accadendo che non sappiamo interpretare, ancora sul sito di Arianna Editrice).

Tuttavia, per una parte dei meccanismi di dissociazione e alienazione oggi operanti al livello della mente, non è necessario ricorrere a spiegazioni così sofisticate, ma è sufficiente considerare il «normale» (si fa per dire) ritmo della vita quotidiana, dovuto a fattori della modernità assolutamente chiari ed espliciti.

Il primo fattore di disagio è, senza dubbio, quello rappresentato dalla velocità con cui la società si muove e, di conseguenza, dalla fretta con cui le persone sono costrette a muoversi e ad agire. Coloro i quali hanno fatto, nella loro vita, l'esperienza di una malattia o di un disturbo che le abbia costrette a una improvvisa lentezza di movimenti, o coloro - semplicemente - che vivono con un anziano o si prendono cura di lui, sanno molto bene quanto sia pesante questo fattore, del quale stentano ad accorgersi quanti non vivono tali limitazioni. Per fare solo un esempio, non è certo cosa facile far salire in automobile una persona anziana, accostando al marciapiede, quando c'è una fila di auto impazienti che devono aspettare qualche secondo; e la nostra vita quotidiana è fatta di decine e centinaia di tali situazioni, stressanti e inumane.

La nostra vita quotidiana, letteralmente, non si svolge più a misura d'uomo, ma a misura di un elemento onnipresente e inafferrabile, la velocità, che ci impone i suoi ritmi nostro malgrado. Molte persone, dotate di scarso spirito critico, si lasciano assorbire totalmente da un simile ritmo, e finiscono per vivere la velocità non come una dura legge imposta da circostanze esteriori, ma una specie di valore assoluto ed autoevidente.  Sono, ad esempio, quegli automobilisti che effettuano sorpassi pericolosi perché non sopportano di restare dietro un veicolo che viaggia a una velocità magari sostenuta, ma inferiore alle loro pretese; per poi svoltare pochi metri più avanti, sempre in maniera pericolosa, in una strada secondaria. Sarebbe stato sufficiente che pazientassero per qualche secondo: ma no, non sono stati disposti a farlo, a imporsi un minimo di moderazione e di autocontrollo.

Le stesse persone agiscono con uguale imprudenza e prepotenza nei rapporti sociali. Non trovano mai il tempo per ascoltare, per vedere, per capire, tanto meno per confortare o per dire una parola buona nemmeno alle persone cui, pure, credono di voler bene. Travolte dai meccanismi compulsivi della velocità e della fretta, si agitano senza posa per fare mille cose, in preda ai miti alienanti dell'efficientismo e del produttivismo ad ogni costo; e non sanno neppure prendersi cura di se stesse, ascoltare un poco le esigenze profonde del proprio io.

Le persone di questo genere vanno incontro a disturbi fisici e psicologici di ogni tipo, dall'ipertensione arteriosa all'insonnia, dall'ulcera gastrica agli attacchi d'ansia; e, finché non si ammalano seriamente, contribuiscono ad aumentare l'atmosfera convulsa che regna nelle famiglie, nei luoghi di lavoro, nei condomini e nei quartieri.

Il loro orologio biologico è sconvolto; mangiano quando capita e come capita, dormono poco e male, non si fermano quando sentono l'insorgere della stanchezza, perché sembrerebbe loro di «perdere tempo»: e, così facendo, ignorano i messaggi inequivocabili che il loro organismo e la loro psiche inviano loro, disperatamente, per metterle in guardia finché sono ancora in tempo.

 

Il secondo elemento decisivo che produce ansia, insicurezza, nevrosi e frustrazione, è quello del livello crescente di complessità delle normali pratiche della vita quotidiana.

Oggi, anche sbrigare le faccende più semplici è diventata un'impresa estremamente complessa e, spesso, superiore alle possibilità delle persone comuni. Il mondo si è automatizzato: e, se ciò ha permesso di risparmiare tempo e di ridurre l'impiego di personale umano, ha complicato a dismisura il disbrigo delle normali attività della vita d'ogni giorno.

Per entrare e uscire dall'autostrada, bisogna vedersela con una macchina; e così pure per pagare una prestazione medica o per prenotare un appuntamento. Per entrare in una banca, bisogna passare attraverso una bussola claustrofobica (si ricordi quanto detto a propositi delle difficoltà degli anziani), indi munirsi di un numero e attendere; ma anche per accedere a uno sportello postale bisogna munirsi di un numero, e perfino per essere serviti al banco del supermercato. Ottenere la comunicazione telefonica con un ufficio pubblico o privato è, spesso, un'ardua impresa: occorre ascoltare lunghe e complicate istruzioni registrate,  digitare una serie di tasti, attendere in linea per tempi notevolissimi.

Decifrare la ricetta del medico, poi, è un'impresa superiore non solo alle forze del paziente, ma anche del farmacista che dovrebbe servire quest'ultimo; effettuare la denuncia dei redditi è cosa che richiede l'aiuto di un commercialista, anche nel caso di un lavoratore a reddito fisso; per non parlare di tutto quello che ormai è indispensabile fare tramite la rete informatica. Si tratta di un insieme di gesti, di operazioni, di pratiche, alle quali ci stiamo sempre più abituando, ma non senza pagare uno scotto consistente, tra l'altro, in un continuo accumulo di tensione nervosa.

I bambini, in particolare, imparano in fretta; ma chi può dire quale danno non ricavino dal dover diventare degli adulti a tappe forzate, specialmente al livello della creatività e dell'affettività? Gli anziani, invece, sono esposti a un vero e proprio tracollo nervoso: è come se il mondo cambiasse più in fretta di quanto essi possano tollerare; come se qualcuno li costringesse a spostarsi su di un tappeto mobile  che viaggia troppo velocemente. Chi non sa usufruire della tecnica, anche nelle cose più semplici, si trova tagliato fuori o è costretto a ricorrere continuamente all'aiuto di altre persone, perdendo la fiducia in se stesso e sentendosi sempre più impotente ed «inutile».

Non si dovrebbero sottovalutare gli effetti negativi di un tale stato di cose per tutti, né gli esiti discriminatori nei confronti di alcune categorie di persone: gli anziani e i malati in primo luogo; ma anche tutti coloro che, per una ragione o per l'altra, stentano a tenere questo ritmo e ad assimilare le nuove pratiche tecnologiche.

Si dirà che questo è il costo del progresso, e che è inevitabile che la società evolva sempre più in fretta; e, inoltre, che quanti non sono in grado di adattarsi alle nuove situazioni, prima o poi scompariranno, come sono scomparsi gli animali e le piante del passato allorché non seppero adattarsi ai mutamenti climatici e geologici. Si dirà che, se così non fosse, non vi sarebbe progresso, e la civiltà si fermerebbe.

Gira e rigira, si ricade sempre lì: nel darwinismo sociale. La vita è una lotta; la società si divide in due sole categorie, quella dei vincenti e quella dei perdenti; e chi si ferma è perduto.

Chi sostiene questo tipo di ragionamento si rende assertore, in buona o cattiva fede, di un determinismo sociale di matrice biologica, di una vera e propria «naturalizzazione» dei fenomeni sociali. Dimenticando o ignorando, però, che non è affatto un «destino» quello che spinge la società in una determinata direzione piuttosto che in un'altra, bensì il risultato di un insieme di meccanismi economici e di scelte politiche .

La logica del «progresso» è subalterna all'idea dello sviluppo illimitato, ossia alla follia più tipica della modernità: la persuasione che tutto si possa incrementare all'infinito: la produzione, il consumo, il profitto, perfino il sapere; e che il risultato di questa crescita esponenziale debba essere, chissà mai per quale trucco da prestigiatore, un aumento (illimitato anch'esso) del benessere e, chissà, magari anche della felicità.

Ma su quali basi si può ragionevolmente sostenere che un individuo sarà più felice se, invece della bicicletta, riuscirà ad acquistare un'automobile utilitaria; se, invece di un'automobile utilitaria, riuscirà ad averne una di lusso; se, dopo averne messa una nel garage, se ne procurerà una seconda, una terza, e così via?

E su quali basi si può ragionevolmente sostenere che la nostra vita sarà migliore se riusciremo a viaggiare più in fretta («code» stradali permettendo), se potremo vedere la partita di calcio in diretta, se la lavastoviglie, l'aspirapolvere o la falciatrice elettrica dimezzeranno il tempo (e la fatica) che dobbiamo dedicare al lavoro manuale; anche se, per procurarci tutte queste cose, e molte altre che sembrano divenute indispensabili, dovremo profondere più tempo e più fatica di quanta non ne faremmo senza di esse?

 

Ci stiamo disumanizzando a partire dalle piccole cose di ogni giorno, e non ce ne rendiamo conto. In Giappone hanno appena messo a punto un robot che può dirigere un'orchestra sinfonica: e, ogni volta che dal mondo della tecnica ci giunge una notizia del genere, ci sembra di aver guadagnato qualche cosa, di aver realizzato un progresso. Ma è proprio così?

Del resto, non è solo dal mondo della scienza e della tecnica che avanza la disumanizzazione della vita d'ogni giorno, anche se è un ben triste spettacolo vedere un bambino, che magari ha anche la fortuna di vivere in un luogo ecologicamente ancora integro, spendere le sue ore libere, un giorno dopo l'altro, davanti allo schermo del computer o di qualche videogioco. Bisognerebbe ricordare, infatti, che scienza e tecnica esprimono l'orientamento spirituale di una data società e sono, in buona parte, l'effetto e non la causa di un progressivo allontanamento di essa dalla misura veramente umana del vivere.

Qualche cosa si è rotto a un livello ben più profondo di quello della tecnologia; e, se non riusciremo a rendercene conto, continueremo lungo la strada della crescita illimitata e del progresso materiale fine a se stesso, assistendo a un asservimento dell'uomo sempre più pronunciato: non tanto nei confronti delle macchine, quanto nei confronti della falsa idea che egli si è fatta di se stesso. E la falsa idea che l'uomo moderno si è fatta di se stesso consiste in questo: aver negato la propria  dimensione di creatura finita, di creatura fallibile, di creatura ferita e bisognosa di rispetto, compassione e perdono (cfr. il nostro precedente articolo Siamo tutti feriti nell'anima e tutti bisognosi di compassione e di perdono, sempre sul sito di Arianna).

C'è una ferita originaria, nella nostra condizione di esseri umani, che invano cerchiamo di esorcizzare con gli strumenti della potenza materiale, che sono - appunto - quelli della tecnoscienza; e, al centro di questa ferita, c'è la consapevolezza della nostra mortalità. Sappiamo di dover morire, di doverci separare dalle persone e dalle cose di questo mondo.

Ebbene, a partire da un certo momento storico - dalla cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVII secolo - l'uomo europeo ha deciso di non accettare la propria condizione, il proprio destino, e si è ribellato contro di essi. Ha voluto farsi il Dio di se stesso; ha deciso di rifiutare il proprio destino di creatura mortale, costruendo un mondo artificiale sul quale esercitare una manipolazione e un dominio sempre più forti, illudendosi che ciò gli avrebbe dato un surrogato di immortalità. Questo, e non altro, è il significato del racconto biblico della Torre di Babele: la follia dell'arroganza umana,  in rivolta di fronte alla propria condizione mortale.

E così, per costruire un mondo a misura del proprio dominio, l'uomo moderno ha finito per costruire un mondo non più a misura di se stesso; nel quale si muove sempre più a fatica, sempre più confuso e alienato, sempre più esacerbato e spossato, in balia di ritmi che non sono, né potranno mai essere, i suoi.

Questa, dunque, è la nemesi della modernità e di un'idea aberrante di ciò che è il progresso: che l'uomo, per essersi voluto ergere a Dio di se steso, ha finito per diventare lo schiavo di se stesso, delle proprie  aspirazioni smodate, del proprio orgoglio, dei propri miti e, in ultima istanza, perfino delle proprie  macchine.

O Capaneo - dice il gran padre Dante - in ciò che non s'ammorza la tua superbia, se' tu più punito…

E san Paolo, nell'Espitola ai Romani: «Essi, che vollero farsi sapienti, hanno già ricevuto in se stessi il proprio castigo».

 

Dante, san Paolo: ciascuno può pensare ciò che vuole di tali personaggi, ma una cosa nessuno potrebbe dire: che fossero degli stupidi.

Forse, è giunto il tempo che ci fermiamo a riflettere sulle parole di alcune grandi anime le quali, già prima che la modernità cominciasse a produrre i suoi fiori velenosi, avevano messo in guardia contro le conseguenze funeste della mancata accettazione, da parte dell'uomo, della propria condizione di creatura fragile e mortale, e della propria impossibilità a salvarsi da sé, con le sue sole forze.

Infatti, se anche fosse vero che l'uomo è in grado di salvarsi da solo, chi mai potrebbe perdonarlo per la malvagità quasi inesauribile da lui dispiegata nel corso della storia, e che vediamo all'opera anche nei fatti - apparentemente piccoli - della vita d'ogni giorno?