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Iraq: ritiro USA entro il 2011, farsa o verità?

di Eugenio Roscini Vitali - 20/09/2008

Sono ormai alcuni mesi che i vertici del Pentagono annunciano con soddisfazione gli effetti della nuova politica americana in Iraq; successi che spesso rimangono legati a contesti del tutto particolari, ma che non nascondono il fatto che qualche cosa sta cambiando. Come il trasferimento dei poteri avvenuto nella provincia di Al Anbar dove, dal primo settembre 2008, le forze di polizia irachene hanno assunto il controllo della sicurezza territoriale di quella che è definita la più turbolenta ed estesa regione sunnita del paese della Mezzaluna fertile. Undicesima delle 18 province irachene tornata sotto il controllo di Baghdad, Al Anbar è stata fino allo scorso anno la principale roccaforte di Al Qaeda e l’area nella quale per lungo tempo la media giornaliera delle perdite Usa è stata superiore ad uno. In questo momento di grave crisi internazionale Washington guarda perciò con grande fiducia ai progressi iracheni e promette una drastica diminuzione delle truppe, argomento che tra l’altro rappresenta uno dei principali cavalli di battaglia della campagna elettorale di entrambi i candidati americani alla presidenza. Ma a cinque anni dall’inizio del conflitto, il piano di disimpegno miliare dall’Iraq pubblicizzato dalla Casa Bianca è possibile o è solo un’altro specchio per le allodole?

Cinque anni di guerra hanno certamente cambiato la vita di milioni di persone. Da parte irachena si contano decine di migliaia di morti, civili diventati “danni collaterali” delle operazioni militari della Coalizione o vittime delle fazioni in guerra o, ancora, assassinati da un terrorismo usato come arma di destabilizzazione in un paese già diviso e devastato dalla violenza. A questi vanno aggiunti gli oltre 4 milioni di rifugiati e profughi interni e le centinaia di migliaia di persone appartenenti a minoranze confessionali che per sfuggire alla minaccia degli attentati sono state costrette ad accettare l’isolamento, obbligate a vivere in quartieri circondati da muri e barriere che con il tempo sono diventati dei veri e propri enclavi.

Le cifre sul numero dei civili morti rimangono comunque un mistero: si passa dalle oltre 650 mila vittime registrate nei primi tre anni di conflitto dalla Johns Hopkins University (studio pubblicato nell'ottobre 2006 dalla rivista medica britannica Lancet) alle 151 mila dichiarate per lo stesso periodo dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).

La banca dati pubblica ed indipendente dell’Iraq Body Count (IBC) parla invece di 95 mila morti in cinque anni, civili uccisi in seguito ad azioni militari condotte dalla Coalizione o ad atti terroristici compiuti dalle diverse fazioni. Rispetto agli altri studi, la metodologia del progetto fondato da John Sloboda e Hamit Dardagan dà un’immagine completamente diversa degli effetti della guerra irachena: pur basandosi sui resoconti delle agenzie e delle testate giornalistiche, non calcola le conseguenze derivanti da un conflitto moderno e, per stessa ammissione dei responsabili dell’IBC, il sistema non tiene in considerazione i devastanti effetti della criminalità e del banditismo.

Ai morti e ai profughi va poi aggiunta la condizione giuridica degli oltre 20 mila prigionieri iracheni che sono ancora reclusi nelle prigioni americane di Camp Cropper e Camp Bucca. Gli 11 mila prigionieri rilasciati lo scorso anno hanno infatti fatto posto ad 8 mila nuovi detenuti, per la maggior parte iracheni, arrestati per motivi precauzionali e quindi senza prove a carico. I reclusi, che dovrebbero rimane sotto custodia preventiva per un periodo non superiore ai tre mesi, vengono mediamente trattenuti per circa un anno, al termine del quale vengono rilasciati senza aver subito alcun processo.

Per quanto riguarda le forze della coalizione, i dati sono sicuramente più contenuti ed attendibili. Dal momento dell’invasione, marzo 2003, hanno perso la vita 4470 soldati della Coalizione, 4156 dei quali statunitensi; la media giornaliera è di 2,23 morti; il picco massimo, registrato nel trimestre aprile-giugno 2007, è di 356. Anche se le azioni terroristiche continuano a mietere vittime, soprattutto tra la comunità sciita e le forze di polizia, il trasferimento dei poteri avvenuto nella provincia di Al Anbar e la diminuzione delle perdite sono comunque fatti tangibili e positivi: 580 militari Usa morti nel 2003, 906 nel 2004, 897 nel 2005, 871 nel 2006, 961 nel 2007, 256 nei primi nove mesi del 2008. Dai 230 militari statunitensi morti nel trimestre luglio-settembre 2007, si è passati ai 42 dello stesso periodo 2008.

Quindi, anche se velata da uno stato di permanente insicurezza, si può iniziare a parlare di graduale normalizzazione del paese, una normalizzazione che l’amministrazione Bush e i candidati alla presidenza americana sembrano aver salutato con l’annuncio di un graduale ritiro delle truppe ed un progressivo trasferimento dei poteri alle autorità di Baghdad. Tutto questo in teoria, dato che in pratica le “buone” intenzioni della politica si scontrano con il problema della sicurezza nazionale, con il ritorno alla guerra fredda e con i programmi del Pentagono che in questo particolare momento potrebbe non coincidere con la parola “ritiro”. Per gli Stati Uniti l’Iraq ha infatti un grandissimo valore strategico: ci sono le enormi riserve petrolifere e la sua posizione geografica che taglia in due il Medio Oriente, controlla il confine occidentale dell’Iran e quello orientale della Siria e il passaggio che dalla penisola dello Shatt al Arab porta al Golfo Persico.

Una prima intesa con Baghdad sul ritiro delle truppe, previsto inizialmente per il 2011, doveva essere finalizzata già nel luglio scorso ma le continue smentite della Casa Bianca e del Dipartimento di Stato Usa hanno rimesso in discussione l’accordo. Washington sostiene che per ora si tratta solo di una "bozza d'accordo" e questo sembra aver scatenato la reazione del premier iracheno Nouri al-Maliki che ha subito chiesto alle forze Usa di iniziare la smobilitazione già a partire dall’inizio del prossimo anno, preludio al ritiro finale del 2011. Per ora però il Pentagono prevede solo il rientro in Patria di due delle quindici brigate attualmente rischierate in Iraq, il 10 percento circa dei 60 mila soldati che compongono il cuore operativo della missione americana: 146 uomini in totale.

Smobilitare la più grande ambasciata americana del mondo e chiudere le numerosi basi sparse per il paese sembra quindi essere per il momento quantomeno improponibile: una prova del fatto che per Washington la presenza americana in Iraq è un fatto strategico e per questo va visto come progetto a lungo termine. Ufficiosamente gli Usa hanno per ora suggerito un programma che prevede la sua fase conclusiva entro il 2015, ma non è ancora chiaro cosa tornerà a casa, se le sole truppe di terra o l’intera missione.

Nel caso venisse perseguita la prima ipotesi sarebbero migliaia i tecnici, civili e militari che rimarrebbero in Iraq per ancora lungo tempo: non verrebbero smobilitate le basi aeree e non verrebbero ritirati i velivoli da combattimento, rimarrebbe operativa l’efficientissima struttura intelligence messa in piedi in questi anni così come le sofisticatissime apparecchiature e la rete di comunicazione. Le truppe da combattimento rimarrebbero parcheggiate oltre il confine kuwaitiano e l’annunciato disimpegno non sarebbe altro che l’ennesimo specchio per le allodole.