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Iraq: cos'è cambiato?

di Jonathan Steele - 23/09/2008


La situazione della sicurezza è migliorata, ma ora che il fumo del conflitto svanisce i costi umani dell'occupazione dell'Iraq appaiono nella loro totalità




Tornato a Baghdad per la prima volta quest'anno, ero assorbito dalla questione del cambiamento. "Cos'è diverso?", avrei chiesto a quasi ogni iracheno che incontravo. "E tu, che cosa vedi di nuovo?", mi avrebbero domandato a loro volta. Ecco quindi, in pochi paragrafi, un riepilogo delle mie risposte. Alcune cose sono cambiate in meglio, altre in peggio. Iniziamo con il positivo.

La sicurezza è enormemente migliorata. I timori di rapimenti e omicidi casuali sono diminuiti. La frequenza delle autobomba è calata. Laddove gli iracheni lasciavano di rado le loro case, tranne che per andare al lavoro e a fare qualche spesa di corsa, la gente osa uscire di sera. L'altra sera, circa 50.000 persone hanno assistito alla finale del campionato nazionale di calcio a Baghdad – una folla che l'anno scorso di questi tempi sarebbe stata preoccupata di essere l'obiettivo di un attacco suicida.

A ottenere questo risultato è stata la "surge" di altri 30.000 soldati? Ha avuto un ruolo, ma la "surge" più importante e di maggiori dimensioni è stata quella irachena. A Baghdad, le unità della polizia e dell'esercito iracheno sono dappertutto, mentre i soldati Usa si vedono di rado. Iracheni in divisa stanno di guardia o seduti dentro veicoli praticamente a ogni incrocio e a ogni rotatoria. Presidiano i checkpoint ogni poche centinaia di metri, osservando il traffico, di tanto in tanto accostando un conducente, e tenendosi d'occhio l'un l'altro. Un anno fa, gli stessi poliziotti erano fra i sospettati, spesso coinvolti nella brutalità confessionale. Adesso, la polizia è stata ripulita, non ancora completamente, ma abbastanza per fare la differenza, specialmente con l'esercito che sta nelle vicinanze per sorvegliarli.

Anche l'emergere fra i sunniti di al-Sahwa, il cosiddetto "Movimento del risveglio", ha contribuito a migliorare la sicurezza. Questo è il secondo cambiamento positivo. Parecchie zone di Baghdad sono pattugliate da queste nuove milizie, che combattevano gli americani, e poi sono passate a combattere al-Qaeda. Adesso gestiscono da sole le loro zone, dicendo ai poliziotti iracheni, nonché agli americani che non sono graditi. Gli americani le chiamano "Figli dell'Iraq", oppure "cittadini locali impegnati", e le pagano, ma, qualunque sia il loro nome, svolgono una funzione vitale per quanto riguarda la sicurezza.

Un risultato importante  – il mio terzo cambiamento positivo – è che centinaia di famiglie sunnite e sciite che erano state costrette ad andarsene stanno tornando a casa. E' noto che più i rifugiati rimangono lontani, più è difficile per loro tornare. Le loro proprietà vengono saccheggiate, oppure se ne impossessano altri. Loro mettono radici altrove. Un anno fa, sembrava che i quartieri misti della capitale fossero condannati: oltre mezzo milione di abitanti di Baghdad erano fuggiti in diverse parti della città dove si sentivano più sicuri. Baghdad sembrava destinata a diventare un mosaico di enclavi monoculturali etnicamente ripulite.

Questo non è più vero. Una parte dello spostamento forzato di popolazione si sta rivelando reversibile, e il governo iracheno sta facendo uno sforzo serio per accelerarlo: dice che occupare abusivamente la casa di qualcun'altro sarà punibile con tre anni di carcere, e, a partire da questo mese, utilizzerà l'esercito iracheno per cacciare via gli occupanti abusivi.

Il quarto cambiamento è un allontanamento graduale dalla politica islamica di tipo fondamentalista degli ultimi anni verso qualcosa di più inclusivo, tollerante, e democratico. E' difficile capirne la vera ragione, ma c'è un clima più laico nell'aria. Per due anni Baghdad è stata nella morsa di una guerra civile fra arabi: sunniti contro sciiti. Quella fase è finita. La gente ha guardato nell'abisso, e si è tirata indietro.

Il giudizio più ottimista su questa nuova sensazione di moderazione l'ho sentita da Raid Jahid Fahmi, il ministro della Scienza e della tecnologia – un leader dell'Iraqi Communist Party che si è formato alla London School of Economics. "Viviamo in tempi brutali, violenti", mi ha detto, "ma la società irachena sta trovando un nuovo equilibrio". Poi ha aggiunto, avendo in mente i suoi colleghi di governo:

Guarda molti di questi leader islamici. Guarda il modo in cui parlano, la loro pratica, e i progetti che adottano. E' diverso da ciò in cui credevano in passato. La mentalità del settarismo confessionale è in declino. Non so fino a che punto siano sinceri, ma ora accettano il fatto di avere uno Stato fondato sul diritto e una società civile multiculturale. E' difficile trovare una famiglia a Baghdad che non abbia perso almeno uno dei suoi membri, ma le forze che sono state responsabili di questo sono state screditate moltissimo. La gente ha imparato dalle proprie esperienze.

Ahimé, non tutti i cambiamenti a Baghdad sono per il meglio. Dal lato negativo metterei il crescere straordinario dell'odio e del sospetto nei confronti dell'Iran fra gli arabi sunniti di Baghdad. Ai sunniti i mullah di Tehran non sono mai piaciuti; ma adesso, grazie alle uccisioni di massa di sunniti da parte di sciiti degli ultimi due anni, nonché al battere e ribattere costante della propaganda anti-iraniana da parte degli americani, è difficile trovare un leader sunnita che non consideri l'Iran come la fonte principale dei problemi dell'Iraq. Ad A'adhamiya, un distretto prevalentemente sunnita, il leader del "Consiglio del risveglio", Abu Abed Ali Bahjat, ha insistito che "al-Qaida in Iraq" è diretta dall'Iran. Il figlio di Osama bin Laden vive in Iran, mi ha assicurato, dove è responsabile dei collegamenti con gli Hezbollah libanesi.

Il vice presidente iracheno Tariq al-Hashemi, il più influente politico sunnita del Paese, è stato meno paranoico ma ugualmente diretto. "Sfortunatamente, l'Iran è un provocatore, invece di essere un vicino responsabile e onesto. Esiste una minaccia considerevole da parte dell'Iran", mi ha detto.

E' negativa anche la nuova mossa del governo per disarmare al-Sahwa. Un anno fa, i leader sciiti del Paese avevano accettato con cautela il "Movimento del risveglio" come un'arma vitale contro al-Qaeda. Adesso, vedono la sua forza scoperta di recente come un pericolo, e stanno cercando di costringerlo a sciogliersi, nonostante abbia migliorato la sicurezza a Baghdad.

Il terzo cambiamento negativo è il nuovo rischio di scontri armati fra arabi e kurdi. La tensione a bassa intensità fra le due comunità per la regione – ricca di petrolio – di Kirkuk e altre parti del nord Iraq caratterizza la scena irachena da anni. Ma negli ultimi mesi è diventata più acuta, ed esiste un pericolo reale che possa scoppiare all'improvviso una violenza considerevole. Basterebbe una scintilla per dar fuoco al barile di Kirkuk, e allora potremmo vedere uccisioni di arabi contro kurdi in tutte le zone nelle quali entrambe le popolazioni oggi sono vicine. Non bisognerebbe esagerare il pericolo, ma è certamente più reale di un anno fa.

Infine, bisogna menzionare l'enorme lascito di miseria umana scatenato dall'invasione e da cinque anni di occupazione. E' peggio di un anno fa? E' cambiato qualcosa? Probabilmente no, ma mentre la prospettiva di una riduzione delle truppe Usa acquista forza, chiunque vinca la Casa Bianca in novembre, il bilancio totale del disastro diventa più chiaro.

L'impatto dei recenti miglioramenti a breve termine rende più facile comprendere i compiti a medio e a lungo termine che ci attendono. Un Paese con oltre un milione di vedove, dove appena la metà dei bambini va a scuola (a causa degli spostamenti forzati di popolazione, del fatto che continuano a esserci timori per la sicurezza, e della mancanza di insegnanti), con carenze drastiche di energia elettrica e acqua, e un ottavo della sua popolazione che vive all'estero, fra cui molti di coloro che hanno il più alto tasso di istruzione e le competenze di cui c'è maggiore necessità, non si risolleverà tanto presto.


(Traduzione di Ornella Sangiovanni)
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