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L'architettura dei "non luoghi" e il consumo globale

di Marc Augé - 23/09/2008

Il j’accuse di Marc Augé: «I progetti tengono conto solo in teoria del contesto locale: nella pratica dipendono dalle logiche del consumo globale»


 

 Dopo l’uscita di
Non-luoghi in Francia (1992), l’urba­nizzazione del mondo è proseguita e si è ampliata nei Paesi sviluppati, in quelli sotto­sviluppati e in quelli che oggi si chiamano 'emergenti'. Le mega­lopoli si estendono e così fanno, lungo le coste, i fiumi e le vie di comunicazione, i 'filamenti ur­bani', per riprendere l’espressio­ne del demografo Hervé Le Bras, ossia quegli spazi che, almeno in Europa, dove lo spazio è limitato, saldano gli uni agli altri i grossi agglomerati e accolgono gran parte dei loro abitanti e del tessu­to industriale o commerciale. As­sistiamo dunque a un triplo 'de­centramento'.
  Le grandi città si definiscono in­nanzitutto per la capacità di im­portare o esportare uomini, pro­dotti, immagini e messaggi. Sotto il profilo dello spazio, la loro im­portanza si misura sulla qualità e l’ampiezza della rete autostrada­le o ferroviaria che le collega agli aeroporti. La loro relazione con l’esterno s’iscrive nel paesaggio nel momento in cui i centri 'sto­rici' diventano sempre più og­getto d’attrazione per i turisti di tutto il mondo […].
  Il mondo è come un’immensa città. È un mondo-città. Ma è ve­ro anche che ogni grande città è un mondo, ed è addirittura una ricapitolazione, un riassunto del mondo con la sua diversità etni­ca, culturale, religiosa, sociale ed economica. Queste frontiere o questi tramezzi, di cui talvolta tenderemmo forse a dimenticare l’esistenza di fronte allo spetta­colo affascinante della globaliz­zazione, li ritroviamo evi­denti, impietosamente di­scriminanti, nel tessuto
urbano stranamente ete­rogeneo e lacerato. È a proposito della città che si parla di quartieri diffici­li, di ghetti, di povertà e di sottosviluppo. Oggi una grande metropoli accoglie e racchiude tutte le diver­sità e le disuguaglianze del mon­do. È una città-mondo. Vi si tro­vano tracce di sottosviluppo, co­me si trovano quartieri d’affari collegati alla rete mondiale nelle città del Terzo mondo. Con la sua sola esistenza, la città-mondo re­lativizza o smentisce le illusioni del mondo-città.
  Muri, separazioni, barriere com­paiono su scala locale e nelle pra­tiche di spazio più quotidiane. In America esistono città private; in America Latina, al Cairo e ovun­que nel mondo si vedono appari­re quartieri privati, settori della città dove si può entrare solo giu­stificando la propria identità e le proprie relazioni. Gli immobili in cui viviamo in città sono protetti da codici d’accesso. Accediamo al consumo solo attraverso codici (si tratti di carte di credito, telefo­ni cellulari o carte speciali create da ipermercati, compagnie aeree o altri). Visto dalla scala indivi­duale e dal cuore della città, il mondo globale è un mondo della discontinuità e del divieto.
  D’altra parte, l’estetica dominan­te è un’estetica della distanza che tende a farci ignorare tutti gli ef­fetti di rottura. Le foto scattate dai satelliti, le vedute aeree ci a­bituano a una vista globale delle cose. Le torri degli uffici o delle a­bitazioni educano lo sguardo, co­me fanno il cinema e ancor più la
televisione. Lo scorrere delle auto in autostrada, il decollo degli ae­rei sulle piste degli aeroporti, i navigatori solitari che fanno il gi­ro del mondo sotto gli occhi dei telespettatori ci danno un’imma­gine del mondo come vorremmo che fosse. Assistiamo al debutto del turismo spaziale che consen­tirà a viaggiatori appesantiti di osservare la terra da lontano (da un’altitudine di cento chilo­metri).
 
Il pia­neta terra a quella distan­za offre un’im­magine di u­nità e armo­nia.
 
Ma tale immagine di­venta distur­bata a guar­darla troppo da vicino.
  Osserviamo che, quando si evochi l’ideale di un mondo sen­za barriere e senza esclusione, non è certo che si stia mettendo in discussione il concetto di fron­tiera. La storia del popolamento umano è quella del superamento di quelle che chiamiamo 'fron­tiere naturali' (fiumi, oceani, montagne). La frontiera ha abita­to l’immaginario delle popolazio­ni che colonizzavano la terra. La
prima frontiera è l’orizzonte. A partire dai viaggi di scoperta, c’è sempre stato nell’immaginario occidentale un oriente misterio­so, un oltremare illimitato o un occidente lontano. La frontiera è la minaccia che inquieta o che affascina nei romanzi di Dino Buzzati e di Julien Gracq. Certo, a varcare le frontiere sono stati spesso conquistatori che attacca­vano e dominavano altri esseri u­mani, ma questo rischio riguarda tutte le relazioni umane quando siano improntate a rapporti di forza. Proprio il rispetto delle frontiere è garanzia di pace.
  Il concetto di frontiera segnala di per sé la distanza minima e ne­cessaria che dovrebbe esserci tra gli individui affinché siano liberi di comunicare tra loro come vogliono. La lingua non è u­na barriera in­valicabile, è u­na frontiera.
  Imparare la lingua, o il lin­guaggio, del­l’altro significa stabilire con lui una relazione simbolica ele­mentare, ri­spettarlo e rag­giungerlo, varcare la frontiera. U­na frontiera non è un muro che impedisce il passaggio, ma una soglia che invita al passaggio [...].
  L’opposizione tra mondo/città e città/mondo è parallela a quella tra il sistema e la storia. Ne è, per così dire, la concreta traduzione spaziale. La preminenza del si­stema sulla storia e del globale sul locale ha conseguenze nel
campo dell’estetica, dell’arte e dell’architettura. I grandi archi­tetti sono diventati divi interna­zionali e, quando una città aspira ad apparire sulla rete mondiale, cerca di affidare a uno di loro la realizzazione di un edificio che abbia valore di testimonianza: esso dimostrerà la presenza al mondo, ossia l’esistenza nella re­te, nel sistema. Anche se i proget­ti architettonici tengono conto, in linea di principio, del contesto storico o geografico, vengono presto agganciati dal consumo mondiale: è l’afflusso di turisti da tutto il mondo a sancire il suc­cesso. Il colore globale cancella quello locale. Le opere architetto­niche sono delle singolarità, che esprimono la visione di un singo­lo autore e si affrancano dal particolari­smo locale.
  Testimoniano un cambio di scala. Tshumi a La Villette, Renzo Piano al Beaubourg o a Nouméa, Gehry a Bil­bao, Peï al Louvre sono il locale globale, il locale con i colori del globale, l’espressione del sistema, della sua ricchezza e della sua affermazione ostenta­trice. Ciascuno di quei progetti ha le sue particolari giustificazio­ni locali e storiche, ma alla fine il prestigio arriva dal riconosci­mento mondiale di cui sono og­getto. Architetti come Nouvel in­sistono invece sulla specificità di ciascun progetto in un dato luo­go.
 
Ma tali arringhe in forma di diniego non impediscono che la grande architettura mondiale s’i­scriva globalmente nell’estetica attuale, che è un’estetica della di­stanza tendente a farci ignorare tutti gli effetti di rottura. A dire il vero, è il contesto ad essere cam­biato: è diventato globale [...].
  Nelle sue opere più significative l’architettura sembra alludere a una società planetaria ancora as­sente.
 
Propone i brillanti frantumi di un’utopia esplosa alla quale ci piacerebbe credere, di una so­cietà della trasparenza che non esiste ancora in nessun luogo.
  Delinea al tempo stesso qualco­sa che rientra nell’ordine del­l’allusione, tracciando a grandi linee un tem­po che non è ancora arriva­to, e che forse non arriverà mai, ma che resta nell’ordi­ne del possibi­le. In questo senso il rap­porto con il tempo espres­so dalla gran­de architettura urbana con­temporanea
riproduce, rovesciandolo, il rap­porto con il tempo espresso dal­la vista delle rovine. Nelle rovine percepiamo l’impossibilità d’immaginare completamente cosa rappresentassero per colo­ro che le guardavano quando non erano rovine. Esse non di­cono la storia, ma il tempo, il tempo puro.
 (traduzione di Anna Maria Brogi)