Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il fabbricante di eco

Il fabbricante di eco

di Claudio Ughetto - 23/09/2008

Fonte: Claudio Ughetto

 


Che strano Paese, l’Italia. Muore David Foster Wallace, forse il più importante scrittore americano contemporaneo, e i nostri telegiornali in sostanza non ne parlano. Ci hanno pensato i quotidiani, è vero, ma è sempre sconfortante accorgersi che viviamo in un paese in cui i media trascurano completamente la letteratura, e lo sforzo di leggere qualcosa che non sia un thriller o un noir è accuratamente evitato. In Italia sembra ritenersi per forza noioso qualsiasi prodotto che ci costringe a pensare, anche quando lo fa in modo piacevole. Forse bisognerebbe riflettere su tale promozione della pigrizia, associata a una vergognosa produzione di immondizia televisiva che troppi showman strapagati conducono in nome della demenza, scambiata per gusto nazional-popolare. Inoltre, bisognerebbe riflettere su un critico del Corriere della Sera che ogni settimana occupa due pagine del Magazine per promuovere libri di cassetta e improvvisare inutili classifiche con in cima Andrea Vitali e Giorgio Faletti e in fondo Antonio Moresco, ignorando chi è Alcide Pierantozzi, liquidando in due righe denigratorie le opere di Foster Wallace e infischiandosene che pochi mesi fa è uscito Il fabbricante di eco, splendido romanzo di Richard Powers. Troppo “difficile” per lui, probabilmente, e poco evasivo, e credo che servirebbe a poco spiegargli che potrebbe anche essere una lettura appassionante.
È un vero peccato che Richard Powers, nato nell’Ilinois nel 1957, sia quasi completamente ignorato nel nostro paese. Il suo romanzo maggiore, Il tempo di una canzone[1], è stato pubblicato in Italia piuttosto in ritardo, e non è più stato ristampato dopo la prima edizione (tant’è che l’ho dovuto ordinare su Internet, perché in libreria era introvabile). Si potrebbe rispondere che di scrittori americani se ne pubblicano tanti e che uno in più o in meno non fa differenza, dispiace però che Palahniuk continui a furoreggiare pur non avendo più nulla da dire da anni[2], mentre libri d’autori più interessanti vadano fuori produzione dopo una sola edizione. Qualche Cornacchione di turno potrebbe replicare che non è il caso di fare gli snob, tacciando d’ignoranza la maggior parte degli italiani che non apprezza i gusti radical-chic di una minoranza che si fa del male fingendo di leggere qualche autore illeggibile o andando in estasi davanti a Inland Empire di David Lynch. Qui stiamo parlando di emozioni, di approccio alla realtà. L’ipercolto e ipercomplesso David Foster Wallace non era uno snob[3], né confezionava quegli oggetti midcult che vagano inutilmente nel labirinto della letteratura che si autocelebra e non parla a nessuno, facendo però credere a troppa gente d’essere colta e intelligente. Nello stesso modo, l’ipercolto e ipercomplesso Richard Powers mira a cogliere la realtà con una prosa ricercata e mai compiaciuta, evitando però la sarcastica sovrabbondanza e la bulimia dell’autore di Infinite Jest.
Il fabbricante di eco è un romanzo relativamente lungo e fitto che nonostante la complessità narrativa racconta storie di straordinaria quotidianità, vissute da personaggi per niente snob, veri come se ne vedono pochi nell’odierna letteratura (brillanti o marginali che siano) in continuo divenire nel loro percorso esistenziale. I loro traumi potrebbero capitare anche a noi, le intense relazioni che vivono sono quelle che potremmo vivere quando la sofferenza di qualcuno che amiamo ci costringe a stargli vicino fino a stare male. Coglie con prosa dettagliata e poetica il posarsi delle gru su un fiume del Nebraska che alcuni speculatori vorrebbero prosciugare, facendoci intuire le ere che hanno visto quegli uccelli evolversi da molto prima che l’uomo comparisse. Poi arriva l’uomo, i personaggi. Mark Schluter, un giovane come tanti della provincia americana, appassionato d’auto truccate e videogame, che lavora come meccanico in un mattatoio, finisce fuori strada col furgone “nel nero innevato”. Karin, sua sorella, percorre miglia e miglia, “in trance” per andare ad assisterlo all’ospedale dove l’hanno portato quella notte, in coma e con poche speranze di cavarsela. Invece Mark si salva, riemerge dal coma gradualmente (e Powers descrive il suo risveglio, la confusione e la rabbia, il difficile recupero sensoriale, con soggettive straordinarie), ma non è più la persona che Karin conosceva. Come residuo della lesione cerebrale gli rimane la Sindrome di Capgrass, una patologia neurologica che impedisce a chi n’è affetto di riconoscere emotivamente le persone più care. A fare le spese di questa dissociazione è proprio Karin. Era scappata da quel paese di falliti, la cui più grand'ambizione dei suoi abitanti è arruolarsi per andare a combattere in Iraq, s’è laureata per distinguersi da un padre morto “d’insonnia fatale” e una madre fondamentalista religiosa (morta anche lei), ha trovato lavoro presso un’agenzia che vende spazi pubblicitari, eppure ha lasciato tutto per tornare da lui e stargli vicino. Non chiede riconoscenza, ma di condividere con lui l’affetto reciproco che hanno sempre avuto. Invece lui non la riconosce come sorella, è convinto che n’abbia preso le sembianze e che la vera Karin sia stata rapita o si nasconda da qualche parte a preoccuparsi ancora per lui.
Con un tema del genere e una simile coppia, molti altri scrittori ci scriverebbero un romanzo di 150 pagine, tutto dialoghi e trovate teatrali. Invece Powers fa di una storia di provincia uno strumento per raccontare di macro e microcosmi: dentro c’è tutta l’America post 11 settembre, le paranoie della nazione si rispecchiano nella dissociazione che ha colpito Mark; c’è la natura con le sue ciclicità minacciate dall’avidità di coloro che l’America considera “vincenti” (tornata in quella cittadina del Nebraska, Karin si divide tra due suoi ex fidanzati: Daniel, quasi un mistico dell’ecologia, che lotta per difendere il fiume che permette alle gru di vivere, e Robert, rampante speculatore che su quel fiume vorrebbe costruirci un villaggio turistico). E c’è il viaggio nella mente, tra le connessioni neuronali e quelle relazionali. A compierlo sono due personaggi a diretto contatto con Mark, gli unici due di cui lui ha piena fiducia: Gerald Weber, un famoso neuroscienziato[4], autore di bestsellers internazionali, che accetta d’incontrare Mark per fare un’analisi e proporre una cura, e che in seguito a quest’incontro dovrà rimettere in discussione la sua esistenza alle soglie della terza età; e Barbara Gillespie, un’infermiera volontaria che si occupa di Mark con passione e dedizione, generando in Karin contrastanti sentimenti di riconoscenza e invidia. 
Sebbene complesso, pieno idee, digressioni scientifiche e filosofiche, Il fabbricante di eco non annoia mai. La prosa raffinata di Powers ci parla di sentimenti generati da legami forti o conflittuali, crisi improvvise e scelte inaspettate. Parte con un incipit poetico, procede in modo dettagliato e incalzante, si ramifica tra molteplici narrazioni ed estreme soggettive, senza mai perdere la visione d’insieme, ha qualche cedimento a tre quarti di libro e riprende il volo sciogliendosi sorprendentemente nel finale. Non mancano suspense e colpi di scena:  chi ha scritto il misterioso biglietto che Karin trova all’inizio del libro, vicino al fratello in coma? Com’è potuto uscire da una strada rettilinea, un guidatore provetto come Mark? Non era neppure ubriaco. Chi ha tagliato la strada a Mark, e perché sulla scena dell’incidente compaiono i segni lasciati da una terza vettura?
In un breve saggio del 1962, La sfida del labirinto[5], Italo Calvino sente crescere in sé una “esigenza stilistica più complessa, che si attui attraverso l’adozione di tutti i linguaggi possibili, di tutti i possibili metodi d’interpretazione, che esprima la molteplicità conoscitiva del mondo in cui viviamo”. Le soluzioni da lui scelte possono piacerci o no, tuttavia verso la conclusione del saggio ci parla di “due filoni della letteratura contemporanea , tendenti (…) a una summa dei modi conoscitivi ed espressivi, e che possono presentarsi  variamente mescolati e intrecciati: il filone neorabelasiano-babelico-goticobarocco (…) si innesta in quello babelico-enciclopedico-intellettuale”. Molta della letteratura statunitense degli ultimi decenni, partendo da Thomas Pynchon e continuando con Don DeLillo, si muove all’interno di entrambi questi filoni. Siamo ben distanti, però, da una letteratura quasi esclusivamente compiaciuta della sua metaletterarietà, oggetto d’intrattenimento midcult. In questo caso, l’enciclopedismo e l’intellettualismo diventano parte dell’opera stessa, necessari per scandagliare la complessità del reale. È proprio Powers a scrivere, riguardo ai propri romanzi: “… le idee non sono astrazioni sospese nel vuoto, prive di tentazioni, di mutamenti improvvisi, di conseguenze e desideri. Anch’esse sono attori di una rete di relazioni, parti in causa di una trattativa. L’idea che ha una voce per esprimerla è un personaggio.”[6] David Foster Wallace e Richard Powers non hanno mai avuto paura delle idee, ma se il primo le affronta in modo “neorabelasiano-gotico-barocco”, il secondo preferisce stemperare l’enciclopedismo, sondando con prosa impeccabile le relazioni tra i personaggi.
Nabokov diceva di detestare le idee nei romanzi: le considerava buone soltanto per appesantirli, o per stordire le menti. Probabilmente si riferiva alle ideologie, perché nessuno può negare che d’idee nei suoi lavori ne mise parecchie. Da parte sua, Richard Powers ci dimostra che nel terzo millennio le idee (quando sono spurgate dalle ideologie) possono diventare parte del romanzo e trasformarsi in strumento di conoscenza. Perché anche i romanzi sono figli del loro tempo, e l’unico compito a cui essi dovrebbero rimanere fedeli è quello d’indagare nei modi più differenti ogni aspetto dell’animo umano.

NOTE
[1] Richard Powers, Il tempo di una canzone, pag. 835, Mondadori, Milano.
[2] Questo senza nulla togliere ai suoi primi romanzi, per quanto discontinui ma capaci di cogliere efficacemente la crisi del nostro tempo.
[3] In realtà David Foster Wallace lascia intuire d’essere stato uno snob (o meglio uno “Snobino”) tra i sei e i dodici anni. Per chiarezza: “Uno Snobino è un bimbo dotato di un’anomalia, precoce scioltezza in Iss (ed è spesso, rammentate, la creatura di due Snob). (… uno di quei) sei-dodicenni che usano correttamente cui e reagiscono a tre strike di fila urlando: - Che incalcolabile orrore! -. Lo Snobino delle scuole elementari è una delle specie di disadattato accademico più precocemente identificabili ed è puntualmente disprezzato dai compagni e lodato dagli insegnanti”. David Foster Wallace, Autorità e uso della lingua, in Considera l’aragosta, pag. 382, Einaudi Torino.
[4] In molti hanno voluto vedere in Gerald Weber un alter-ego del neurologo Oliver Sacks, celebre autore di bestsellers come Risvegli, Emicrania, L’uomo che scambiò sua moglie per un cappello, Un antropologo su Marte e altri (in Italia, tutti pubblicati da Adelphi). In realtà lo stesso Powers ha dichiarato che il dottor Weber è il risultato di più persone da lui conosciute, sebbene Sacks sia quella di maggior spicco.    
[5] Ora in Una pietra sopra, Mondadori, Milano.
[6] Dalla conferenza Embrioni e trame, tenuta da Powers alla scuola Holden di Torino nel Marzo del 2004, a proposito di The Gold Bug Variations, romanzo del 1991 e purtroppo non ancora tradotto in Italia. 

 

Autore: Richard Powers
Titolo: Il fabbricante di eco
Edizioni: Mondadori, Milano 2008
Pagine: 573