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Ma è una colpa così grave, per un artista, volersene andare nella «casa in collina»?

di Francesco Lamendola - 24/09/2008

 

 

Ci siamo già occupati dello scrittore trevigiano Giovanni Comisso nell'articolo Una pagina al giorno. Il rosso delle ciliegie di Giovanni Comisso (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice).

Vogliamo qui riprendere alcuni dei concetti allora espressi, sollecitati anche dalla lettura del libro di Raffeele Lucci La tentazione della «Casa in collina», del quale, fra poco, diremo qualcosa.

Prima, però, ci sia concetto di ricapitolare il punto che qui interessa: l'atteggiamento dello scrittore Comisso davanti alle questioni sociali, politiche e, in generale, alle problematiche della storia.

 Nel mondo di Giovanni Comisso non ci sono giudizi, e tanto meno giudizi morali: solo la nuda essenzialità delle cose, riportate alla loro profonda, intima naturalità.

Ha scritto in proposito Carlo Bo, nel suo bel saggio Comisso e la vita (su L'Osservatore politico letterario, Milano, febbraio 1971, p. 17):

 

"(…) l'avventura per Comisso non ha avuto aggettivi, è stata piuttosto sinonimo di stagioni, di ore, di giorni: era l'idea di un provvisorio eterno, del  gratuito non suscettibile di alcuna contrazione. L'avventura comissiana non si sarebbe mai prestata a conclusioni d'alcun genere; non supponeva morali di nessun tipo e di qui l'impossibilità di qualsiasi intervento d'ordine morale. L'uomo che guarda la vita - questo è l'aspetto del Comisso più autentico - non deve essere fermato o trattenuto da nulla, così come non deve chiedersi spiegazioni, gli deve bastare il senso dell'esistenza, al contrario non deve fare scelte: non deve rinunciare a nessun invito. Per Comisso - e qui sta un'altra differenza con il narratore tradizionale - non ha nessun valore esserci stato, bensì l'esserci ancora. Non ha scritto mai pagine di rievocazione, i suoi libri sono fatti d'istantanee ma ogni immagine presa per sé rappresenta un mondo compatto, un unicum. Comisso non si è mai dato cura di legare le sue storie e quando l'ha fatto nei romanzi è andato incontro a dei fiaschi, nel senso che ogni idea di costruzione si opponeva a quel moto continuo. O dare il senso della vita perenne o tradurre la vita in esempi: Comisso è stato obbligato dalla sua natura, dal non poter far altro se non a patto di contraddirsi e di tradirsi che  abbandonarsi alla fantasia delle cose. Nessuno è stato miglior servitore della vita dei fatti di lui, nessuno infatti ha mai saputo mantenere tanta libertà di spirito nei propri movimenti. Gli stessi giudizi che ogni tanto compaiono nella sua pagina non sono che dei pretesti, delle pause che consentono la ripresa rafforzata del racconto. In altre parole ciò che lo interessa e senza darlo a vedere lo avvince è il ritmo stesso degli avvenimenti, per cui ogni dato ne partorisce un altro, così come ogni caso ne preannuncia uno nuovo. Senza notare che, così facendo, Comisso tiene lontano lo spettro del tempo che si chiude, del tempo che porta il nome della morte…"

 

Tutto vero: ma ci riesce davvero, Comisso, a tenere lontano lo spettro del tempo che si chiude e della morte che incombe?

Paradossalmente, ci riesce meglio nel suo libro più famoso, Giorni di guerra, che è in genere considerato il vertice del suo percorso letterario, che in un racconto apparentemente semplice come La Monaca Pazza, dove lo spettro del rimpianto, della vecchiaia e della morte non si può certo dire che venga allontanato con successo dalla protagonista, Isabella; e che incombe, con la sua muta presenza, come un convitato di pietra, anche nei momenti più lieti.

Inevitabile: lo spettro della morte non si può esorcizzare, semplicemente ignorandolo; bisogna affrontarlo, prima o poi. Ma una scrittura come quella di Comisso, tutta giocata sul filo dell'istante e dell'immediatezza, tutta istinto felice e senza tempo, è strutturalmente impossibilitata a porsi in una  prospettiva del genere. Perciò non le resta che la soave ambiguità di quella dimensione anfibia, né acquatica né terrestre, che sta fra il qui-e-ora e il presentimento della fine - e, forse, dell'eternità.

Sarà anche per questo motivo che il paesaggio tipico della narrativa di Comisso è ambiguo, lagunare, semi-terrestre e semi-acquatico - come, appunto, nel racconto che abbiamo preso in esame?

 

Un'altra cosa ci preme dire, a proposito dell'ambiguità fondamentale della narrativa di Giovanni Comisso.

Cercar di tenere lontano lo spettro del tempo che si chiude e di esorcizzare l'angoscia della morte che incombe, significa anche - necessariamente - sforzarsi di sottrarre il tempo delle emozioni al tempo della storia; o, per parlare più propriamente, tentare di cancellare il tempo della storia e risolverlo integralmente nel tempo psicologico ed emotivo.

È quello che Comisso ha saputo fare, con magistrale abilità e con istintiva sicurezza, nel suo libro più noto legato alla storia, Giorni di guerra, ove l'evento del primo conflitto mondiale, vissuto in prima persona e nella realtà drammatica della prima linea, si stempera e si dissolve nel flusso delle sensazioni e, addirittura, nella sensualità del paesaggio, dei colori, della coscienza individuale che si abbevera avidamente dell'attimo, in un oraziano carpe diem che non è, tuttavia - come nel poeta latino - mediato da istanze razionali e filosofiche, ma percepito dall'interno di un io che si abbandona voluttuosamente al grande gioco della giovinezza, alla guerra vissuta come una insolita e aspra, ma sostanzialmente gioiosa, avventura dell'anima.

E, così come non c'è spazio per il senso della storia che si esplica attraverso le vicende di uomini e cose, perché tutto si risolve in una atomizzazione della psicologia individuale, ugualmente non c'è spazio per le ragioni della società, dell'economia, della politica, dell'umano dispiegarsi di forze in lotta, concrete e incessanti, che travalicano l'orizzonte dell'io individuale e tendono a realizzare la trama variegata e complessa del destino collettivo.

In tal modo, con la stessa giovanile baldanza e spensieratezza, Comisso uomo ha vissuto la partecipazione all'impresa di Fiume fra i legionari di Gabriele D'Annunzio: con quella istintiva ricerca del piacere sensuale e dell'effetto estetico che si collocano ancora, in termini culturali complessivi, all'interno dell'orizzonte del decadentismo e, in parte, del futurismo.

Ma davanti al fascismo e, soprattutto, davanti al dramma della seconda guerra mondiale e della guerra civile, l'uomo Comisso e lo scrittore Comisso si ritraggono con un fremito di impazienza, e vanno disperatamente alla ricerca di un luogo dell'anima che sia ancora vergine dalle pretese totalizzanti della modernità, che consenta alla coscienza di ritagliarsi il suo otium e il suo particulare, nel senso rinascimentale di questi termini (si pensi solo alla parva domus di messer Ludovico Ariosto).

Specialmente davanti alla guerra civile del 1943-45 la reazione di Comisso è quella della ripulsa, della chiusura, dell'evasione in una dimensione fatta esclusivamente di affetti e sentimenti privati; e ne è testimonianza il suo libro forse meno noto, ma più sofferto: Gioventù che muore.

Attraverso la vicenda del diciannovenne Guido e della trentenne Adele i quali, sullo sfondo sanguigno della guerra civile, si incontrano, si amano e obliano la brutalità della storia, fino a quando Guido non viene fermato e fucilato dai partigiani, per la sola ragione che se ne va per i monti senza meta e canticchia una canzone fascista, pur non essendo, lui, fascista, ma solo sentendosi estraneo alle ragioni dell'una e dell'altra parte in lotta, Comisso racconta, in filigrana, la sua stessa vicenda.

Egli ha realmente incontrato ed amato un giovane di nome Guido, fucilato dai partigiani perché ritenuto - quasi certamente a torto - una spia fascista. Adele, dunque, non è altri che il suo stesso personaggio di uomo maturo e disilluso, che volge le spalle al dramma della storia per immergersi e tentare di obliarsi nel flusso di una passione strettamente «privata».

Nel fare ciò, Comisso ha optato per la dimensione del privato rispetto a quella del pubblico, e questo in un momento cruciale della storia nazionale: ha fatto una opzione, parafrasando il titolo di un altro suo bel libro, per «la mia casa di campagna», così come Pavese - con altro stato d'animo, però, ossia straziato dall'irresolutezza e dai sensi di colpa - aveva optato per «la casa in collina».

 

Lo storico Raffaele Liucci, nel suo saggio La tentazione della «casa in collina». Il disimpegno degli intellettuali nella guerra civile italiana, 1943-45 (Edizioni Unicopli, Milano, 1999), ha creduto di ravvisare in questi due scrittori, e in alcuni altri meno noti, la «tentazione» tipica degli intellettuali italiani, quella del disimpegno e della fuga davanti alle responsabilità della storia.

In sostanza, potremmo riassumere così la tesi di Liucci: la «casa in collina» di Cesare Pavese e «la mia casa di campagna» di Giovanni Comisso sono due simboli di una condizione tipica di tanti intellettuali italiani, allorché le strette della storia li pongono di fronte alla necessità di fare una scelta fra la letteratura come evasione e rifugio e un immediato, e rischioso, impegno di tipo politico-sociale.

Crediamo vi sia una certa parte di verità in questa analisi, precisando subito - però - che essa non va intesa, moralisticamente, come l'indicazione di una alternativa «secca» fra intellettuali 'buoni' e meno buoni, 'seri' e meno seri, bensì di una condizione caratteristica dell'io dissociato e confuso della modernità, lacerato fra la nostalgia di certezze e valori perduti, e l'eterna tentazione di farsi parte per se stesso davanti a una realtà collettiva sempre più difficile da comprendere e sempre più ardua da dominare o, quanto meno, sulla quale poter esercitare una scelta che sia, al tempo stesso, lucida ed efficace.

In questo senso, anche se - per taluni aspetti - la tentazione della «casa in collina» è un fenomeno abbastanza specifico della cultura italiana, nel senso che ne riflette ambiguità e debolezze strutturali, appartiene anche, però, alla dimensione universale dell'uomo moderno, e non solo nei confronti di singoli eventi storici, per quanto drammatici, come lo è stata la seconda guerra mondiale (e si pensi al dramma, spirituale e umano, di scrittori del valore di Céline, di Pound, di Hamsun, solo per fare qualche nome).

Si tratta, al contrario - se ben vediamo - di una situazione che rispecchia fedelmente lo smarrimento e l'estraniamento dell'uomo moderno rispetto a se stesso e rispetto al mondo che lo circonda; il capolinea, in altre parole, di un lungo processo che inizia, quanto meno, dalla «morte di Dio» di nietzschiana memoria, ma ha le sue lontane premesse fin dall'epoca della cosiddetta Rivoluzione scientifica del XVIII secolo e, poi, dall'Illuminismo; da quando, cioè, l'uomo che si è autoproclamato «moderno» (senza avvedersi, quantomeno, di maneggiare un concetto storico, e quindi relativo, e non un valore assoluto ed autoevidente) ha creduto di poter spazzare via ogni residuo dell'idea trascendente che di se stesso, da Platone in avanti,  si era costruita, per sostituirla con un'immagine di sé tutta terrena, laica e «naturale».

 

Ma cediamo la parola a Raffaele Liucci (Op. cit., p. 89):

 

I tragici avvenimenti di guerra che sconvolsero la vita di Comisso (egli considererà Guido la persona più importante della sua vita), non scalfirono certo la sua estraneità a tutte le ideologie).Piuttosto, rinforzarono i suoi anticorpi a difesa della tentazione di un tradimento del chierico. Lo scrittore veneto è stato però capace , in misura di gran lunga maggiore che in altri autori con le credenziali tutte in regola, di tratteggiare, con spontaneità disarmante, squarci inusuali delle guerre, riuscendo a carpirne sfaccettature esistenziale e metapolitiche assolutamente memorabili.

 

E, a proposito di Gioventù che muore, ancora più esplicitamente (Idem, pp. 90-91):

 

Un rifugio fuori dalla storia e dal tempo, dal quale scrutare, svagato e indifferente, in una immutabile quiete campestre, il tramestio del mondo esterno, i cui complicati e disordinati affanni politici non meritano la minima attenzione. E, tra essi, anche la guerra, di cui Comisso coltiverà fin dagli anni Trenta (e quindi anche per la guerra d'Abissinia) un'opinione totalmente negativa; dimentico, persino, delle sue trascorse esperienze (Grande Guerra e Fiume), di cui aveva però sempre privilegiato il lato esistenziale e vitalistico, rigorosamente apolitico. Date queste premesse, è facile capire che per l'afascista Comisso la guerra civile italiana, tragico epilogo della seconda guerra mondiale, non rappresentasse che un'accecante sventura, all'interno della quale sarebbe stato ozioso distinguere torti e ragioni. (…)

Giovanni Comisso, al pari di Cesare pavese, è stato uno dei pochissimi scrittori italiani in grado di offrire da sponde neutre una rappresentazione articolata e feconda della guerra civile, percepita e vissuta da coloro che non vi parteciparono consapevolmente. In questo senso, la «Casa in collina» pavesiana non è poi molto differente dalla «Casa di campagna» comissiana, essendo entrambe un luogo privilegiato dal quale osservare, super partes, la guerra, che può certo sconvolgere, fisicamente e mortalmente le proprie abitudini di vita, ma non riesce tuttavia a eclissare l'apatia e la non curanza per le ragioni politiche e ideologiche in campo.

 

Ora, a parte il fatto che vi è un abisso - lo abbiamo già accennato - fra lo stato d'animo di Pavese e quello di Comisso davanti alla violenza della guerra civile, essendo il primo attraversato da angosciosi sensi di colpa per la propria inerzia, il secondo tutto immerso in una dimensione squisitamente a-politica e consapevolmente privata, ci sembra sbagliato parlare di «apatia» e di «non curanza» di entrambi per «le ragioni politiche e ideologiche in campo». Né gli scrupoli e i tormenti interiori di Pavese, infatti, né la ripulsa deliberata di Comisso, ci sembrano passibili di una tale interpretazione.

Vero è che Liucci, per sostenere la sua tesi complessiva, fa di Pavese e Comisso (e di alcuni altri) l'emblema di quel particolare atteggiamento di disimpegno e di tradimento della società da parte degli intellettuali che, a suo parere, è bene esemplificato dal concetto storiografico della «zona grigia» (termine ripreso dallo storico Claudio Pavone).

Ecco la definizione che Liucci dà della «zona grigia» (Idem, pp. 15-16):

 

… la compatta presenza, sia nelle città che nelle campagne, di comportamenti e valori che trovano la loro ragion d'essere in tradizioni di lungo periodo, essenzialmente prepolitiche, comunque in larga parte estranee alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo. La zona grigia, fuor da interessate valutazioni o da preconcette denigrazioni, si rivela come il principale collettore dei coni d'ombra dell'attendismo del disimpegno civile, della volontaria sottrazione a qualsiasi impegno attivo nella guerra, della diserzione, anche metaforica, da compiti e responsabilità istituzionalmente richieste all'individuo.

 

Zone grigie, coni d'ombra: già la terminologia fa pensare a qualche cosa che ha a che fare con il disimpegno, il qualunquismo, l'opportunismo o, nel migliore dei casi, l'indifferenza.

Forse perché Liucci ha bisogno di sostenere la sua tesi principale, e cioè che la «zona grigia» si è presa, negli ultimi anni, una rivincita sulla Resistenza, denigrandola sistematicamente, soprattutto nella sua componente comunista, egli è portato a presentare come totalmente negativa la posizione di quanti non si identificarono né con gli uni, né con gli altri, fino al punto di tacciarla di attendismo e di volontaria sottrazione ai compiti e alla responsabilità che l'individuo non può negare alla società in cui vive.

E parla, in proposito, di tradizioni «prepolitiche», per designare l'estraneità alla contrapposizione tra fascismo e antifascismo; senza accorgersi di incorrere in quel peccatum originalis che egli addebita agli intellettuali: lo scollamento con la società civile, la chiusura in un mondo astratto, lontano dalla realtà e dalla vita delle persone comuni.

Come non vedere, infatti, che tale fu l'atteggiamento della maggioranza del popolo italiano durante la guerra civile, e che tale è sempre stato l'atteggiamento delle società contadine davanti al fenomeno «guerra», e, a maggior ragione, davanti a quello spaventoso fenomeno della modernità che è stata la guerra civile scatenata da passioni ideologiche?

 

Ma, tornando a Comisso, ci sembra decisamente sbagliato, oltre che ingeneroso, sostenere che «i  tragici avvenimenti di guerra che sconvolsero la [sua] vita (…) non scalfirono certo la sua estraneità a tutte le ideologie. Piuttosto, rinforzarono i suoi anticorpi a difesa della tentazione di un tradimento del chierico».

E, più in generale, ci sembra sbagliato, oltre che ingeneroso, pretendere da un artista, da uno scrittore, più di quello che egli ha inteso dare, o altro da quello che faceva parte del suo mondo interiore. Uno scrittore va giudicato per quello che ci dà e per quello che è il suo mondo interiore; e noi diciamo che ha saputo svolgere bene la sua parte di intellettuale, se è riuscito a rappresentare coerentemente e limpidamente quel suo mondo; non se è partito da una ideologia impegnata, o politicamente «giusta».

E Comisso vi è riuscito in pieno.

Pensare diversamente, e pretendere da uno scrittore che egli sia anche, sempre e comunque, un campione di lucidità e di impegno politico sociale, significa cadere nella tentazione (questa sì, pericolosissima) di una visione inquisitoria e poliziesca del fatto artistico e culturale.

Così, a dispetto delle loro intenzioni, quanti condividono l'impostazione di Liucci non si accorgono, forse, di approdare su una sponda ben diversa da quella che avevano agognato: quella ove regnano  l'intransigenza moralistica, il settarismo ideologico e l'«impegno» forzato dell'intellettuale, versione post-moderna e sofisticata, ma sempre aberrante, delle velleità totalitarie di controllo sulla cultura e sull'arte da parte di un elemento ad esse estraneo.