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Il baratro del deficit inghiotte il potere Usa

di Joseph Halevi - 27/09/2008

 

Il Council of Foreign Affairs mette in guardia dai fondi sovrani
Bollettino di guerra: Strauss-Khan dal Fmi alza le perdite subprime a 1300 miliardi. Bush preme sul Congresso che recalcitra. I fondi sovrani inquietano Washington



Il salvataggio pubblico del sistema finanziario nazionale messo in atto dal governo statunitense ricade principalmente sulla Banca Federale. Gli Usa sono però il maggior paese debitore al mondo mentre i principali creditori, come la Cina, si tengono in una posizione defilata. E tuttavia il timone è ormai passato decisamente nelle mani di quest'ultima, cui si aggiungono l'Arabia saudita, e i paesi del Golfo persico. Nulla però garantisce che nel futuro le zone dell'Arabia rimangano in forma stabile nella sfera di influenza di Washington. Il deficit estero Usa è quindi simultaneamente un problema economico per il paese nonché strategico per le sue classi dirigenti. Il fatto è stato però misconosciuto dalla Federal Reserve Bank. Su queste colonne si è spesso ricordato che il dilagare della liquidità - e quindi della finanza allegra sul piano del credito bancario e del conseguente debito privato - ha controbilanciato fino a ribaltarle le tendenze stagnazionistiche dell'economia Usa nei due trascorsi decenni. Ciò, assieme alla spesa pubblica militare, ha permesso l'espansione dei consumi, dei mutui per l'acquisto di case e dell'occupazione malgrado l'abbassamento da lunga data dei salari reali e la dinamica poco brillante degli investimenti produttivi e infrastrutturali.

L'accumularsi del debito con l'estero ha costituito la contropartita di tale andazzo diventando così un fenomeno strutturale. La finanza allegra è cresciuta sotto la guida dell'allora presidente della Fed, Alan Greenspan, che ha anche preso posizioni di sufficienza nei confronti del deficit e debito estero Usa. Per Greenspan l'interesse a mantenere le eccedenze indurrebbe i paesi esportatori a rifinanziare gli Usa investendo in buoni del Tesoro di Washington, in titoli privati e prodotti cartacei derivati Usa. In tal modo la domanda estera di buoni e titoli Usa avrebbe permesso alla Federal Reserve di mantenere saggi di interesse bassi sostenendo la finanza allegra. Assolutamente vero. Tuttavia l'espansione dell'intermediazione finanziaria veniva vista positivamente in quanto le veniva attribuita la funzione di perfezionare l'informazione e di avvicinare il comportamento effettivo degli operatori all'ipotesi dei mercati perfettamente efficienti, ove appunto incertezza e volatilità scompaiono. In questo contesto non vi è alcuna ragione di preoccuparsi del deficit/debito estero Usa in quanto l'intermediazione finanziaria e la globalizzazione dei prodotti derivati porterebbero ad una trasformazione continua del risparmio estero in piazzamenti finanziari negli Usa. La giustificazione ideologica della finanza allegra cessa però di esistere in un mondo di asimmetrie congenite. In uno studio appena pubblicato dal Council of Foreign Relations, il maggior organismo di analisi politicaeconomica-strategica della classe dirigente statunitense, viene invece rilanciata la questione del deficit estero statunitense (http://www.cfr.org/publication/17074/sovereign_wealth_and_sovereign_power.html) Nel lavoro si osserva che le Banche centrali estere rappresentano la fonte principale del finanziamento estero degli Usa., ben più delle somme dei fondi sovrani.

Questi ultimi sono società di investimento statali che raccolgono le valute dei proventi delle esportazioni e royalties con l'estero cui si sommano i soldi esteri generati dall'afflusso di capitali. Cina, Norvegia, Singapore, Arabia Saudita, paesi del Golfo e Russia sono i paesi con i fondi maggiori caratterizzati da due eccedenze: quella nei conti correnti e quella finanziaria. Il sistema si basa su asimmetrie che rendono gli Usa vulnerabili. I rendimenti delle attività in dollari detenute dalle banche centrali sono bassi, mentre quando il credito veniva organizzato attraverso il Fmi i criteri di condizionalità richiesti dal Fondo apportavano lauti rendimenti. In realtà per sostenere il dollaro, le banche centrali estere devono scegliere in favore di perdite future, continuando ad accumulare dollari, rispetto a perdite immediate, uscendo dal dollaro e causando una crisi nel tasso di cambio americano. Tuttavia, sostiene la ricerca del Council of Foreign Affairs, i detentori di dollari non possono preferire sistematicamente le perdite future. Essi sono in grado di condizionare la politica monetaria Usa senza ricorrere alla fuga dal biglietto verde ma cambiando la composizione dei loro portafogli in dollari. Attività Usa a basso rendimento possono venire rimpiazzate con altre, sempre in dollari, a rendimento più elevato. In un mondo asimmetrico tali sostituzioni non si controbilanciano. Inoltre la Cina ha raggiunto un'accumulazione di dollari superiore al fabbisogno dettato dalla protezione della sua posizione finanziaria mondiale. Il fenomeno, congiunto al dato che l'interscambio con l'Unione europea supera ormai quello con gli Usa, non può che spingere Pechino a ridurre l'acquisto di titoli titoli Usa. La ricerca sostiene che Washington dovrebbe facilitare lo spostamento del finanziamento estero Usa dalle banche centrali e fondi sovrani statali, che possono prendere decisioni politiche, ad entità private. Il vicolo cieco è immediatamente visibile. Le entità private richiederebbero dei rendimenti effettivi obbligando gli Usa ad effettuare un aggiustamento finora evitato e rifiutato. Tutto sommato a Washington conviene che il debito rimanga nelle mani di istituzioni politiche che, pur destinate a sganciarsi dal dollaro, hanno, sosprattutto nel caso cinese, una maggiore consapevolezza delle asimmetrie che caratterizzano l'economia mondiale.