Newsletter, Omaggi, Area acquisti e molto altro. Scopri la tua area riservata: Registrati Entra Scopri l'Area Riservata: Registrati Entra
Home / Articoli / Il passato riappare nel ricordo o il ricordo ci restituisce l'eterno presente?

Il passato riappare nel ricordo o il ricordo ci restituisce l'eterno presente?

di Francesco Lamendola - 29/09/2008

 

 

 

 

Scende lunga e buia la sera d'autunno, con le sue ombre che odorano di vendemmia, con la precoce umidità che annuncia il netto cambiamento di stagione.

Nuvole turchine e violette si stagliano come scolpite all'orizzonte, sopra i monti, contro un cielo al tramonto di colore sanguigno.

E i ricordi, improvvisi, inattesi, si affollano alla coscienza: non ampi e dettagliati, ma a sprazzi, lampeggianti come un temporale estivo; scaglie, spezzoni di ricordi: non propriamente ricordi, ma odori, luci, frammenti di ricordi, minuscole gocce come la spuma dell'onda quando si frange sugli scogli. Non un discorso, ma parole; non parole, ma singole lettere; nemmeno: suoni fugaci, sospiri, silenzi carichi di non detto, di inesprimibile.

Quel cavalcavia, laggiù presso la stazione; quel viale di alti bagolari; quel profumo di cachi, simili a gocce d'oro fra i rami; quell'odore di vernice fresca, delizioso; le note di quella piacevole canzone che indugiano,  indefinite, nella mente; quelle luci delle insegne dei negozi, nella sera che avanza; quella busta di carta da lettere, con il disegno stilizzato di una ragazza con le trecce, intenta a scrivere; quella maniglia del cancelletto, nella casa di campagna, a forma vagamente di conchiglia; e il crepitare delle caldarroste sulla pentola, là sotto gli alberi, e poi il cartoccio caldo, quasi bollente fra le mani…

Ed ecco la strada del vecchio borgo, fra le antiche case coi balconi e le scale esterne di legno, come si usa in montagna, dove il tempo sembra essersi fermato; quelle care, vecchie bottegucce povere e mal messe, ma piene di umanità e di calore; quella vecchietta infagottata nel suo gran scialle di lana, che ti serve ansimando, e poi conta uno ad uno i rotolini di liquirizia e il mandorlato custodito in bocce di vetro: ghiottonerie che fanno venire l'acquolina in bocca a un bambino che è felice di così poco, in fondo: e più dell'atmosfera, che della cosa in sé…

E quella piccola vetrina incassata nel muro, stranamente lontana dal negozio di giocattoli, simile a una finestra spalancata sul regno incantato dell'immaginazione, dietro la quale stanno schierati in bella mostra, su dei ripiani di cristallo, indiani e cow-boys di terracotta, in sella ai loro cavallucci ben dipinti; in quella certa sera d'estate, con la luce della luna che la fascia di splendore nel suo manto regale…

E, ancora, quel cielo al tramonto, simile a questo di oggi (ecco, forse, il legame!), che si staglia contro gli alberi e gli edifici, quasi in procinto di gridare addio, come qualcuno che parta in mare per un lungo, lungo viaggio; quel riflesso della luce sui vetri; quei giardini e quegli orti che s'intuiscono dietro i muri bassi e in fondo ai cortili acciottolati…

 

Il ricordo!

Filosofi e psicologi si sono affannati per tentare di spiegarlo; e, in genere, lo hanno interpretato come un ripresentarsi di esperienze passate, sul filo della memoria: come un frammento del passato che ritorna alla coscienza mediante una operazione della mente.

Il filosofo Giovanni Piana, nel suo libro Elementi per una dottrina dell'esperienza (Il Saggiatore, Milano, 1979, pp. 74-75), si è particolarmente occupato del problema, e ha fatto su di esso alcune osservazioni penetranti.

 

Volgiamo lo sguardo indietro, nel tempo, e il passato riappare. Riappare la figura che ci è stata mostrata qualche giorno fa, riviviamo un episodio da tempo trascorso, le nostre esperienze passate. Ma naturalmente ciò non significa che nel ricordo vi sia una effettiva ripetizione dell'esperienza.  Questo è ovvio. Ma allora che cosa significa qui «riapparire»? In che modo possiamo parlare di una presenza, nel ricordo,  riferendoci a qualcosa che è in ogni caso assente e trascorsa? Ciò che era ovvio, ci può sembrare all'improvviso misterioso.

Senza dubbio, alcune spiegazioni sono qui necessarie. Tuttavia dovremmo evitare di conferire a problemi che pongono nient'altro  che compiti descrittivi, la forma di enigmi che sono, in realtà, giocati solo sulle parole.

Ciò può accadere  proprio a questo punto: il fatto in se stesso ovvio che la presenza del contenuto memorativo non possa essere intesa come una presenza «autentica», potrebbe essere proposto  come una difficoltà di cui è necessario in qualche modo venire a capo. Ed ancora una volta potrebbe sembrare un'idea buona  quella di trarre profitto dall'analogia con le raffigurazioni.  Proprio perché il riapparire del passato non può essere inteso come un'autentica ripetizione, ciò che appare  non può essere altro che un'immagine di esso. In un senso certamente non letteralmente identico a ciò che intendiamo propriamente con raffigurazione: ma questa nozione può essere esplicitamente richiamata per fornire una sorta di illustrazione analogica del rapporto che il ricordo istituisce con il passato. Ci potremo allora avvalere sia della struttura di riferimento, sia della «povertà» essenziale della raffigurazione. Abbiamo l'impressione che «il ricordo sia un tipo di esperienza in certa misura secondaria in confronto a quella della realtà presente. Diciamo: "Di questo possiamo avere solo un ricordo". Come se il ricordo fosse, in senso primario, un'immagine un po' pallida e incerta di ciò che originariamente fu davanti a noi in piena chiarezza». (Wittgenstein, Osservazioni filosofiche, trad. it., Einaudi, 1976, oss. 5, p. 39).

Si comincia dunque con il dire: nel ricordo un evento passato si ripresenta in quanto passato. Ma se il passato è passato come può essere presente e per di più come passato? Come è possibile questo? Come facciamo a capire una cosa simile? L'analogia con le raffigurazioni dovrebbe indicarci la via per uscire dal vicolo cieco. Solo un'immagine del passato è presente, e non il passato stesso.

Abbiamo così risolto un enigma che non esiste. Abbiamo ottenuto chiarezza solo facendo grandi confusioni. Infatti non vi è dubbio che ciò che contraddistingue la percezione del ricordo non è certamente la questione dell'immediatezza. Il riferimento alle raffigurazioni ci deve servire per sottolineare che se parliamo di immagini, non possiamo intenderle, né nell'uno né nell'altro caso, secondo il rapporto istituito dalle sintesi raffigurative.

Dovremmo dire piuttosto: ciò che caratterizza questa presenza è proprio il fatto che l'evento è passato. E di ciò non è il caso di meravigliarsi. Altrimenti dovremmo meravigliarci anche del fatto che io sono qui e la sedia è là, eppure la percepisco. Invece dobbiamo meravigliarci soltanto di questo eppure e declinare ogni responsabilità della meraviglia che esso esprime.

Se in luogo di costruire enigmi, ponendo strani problemi di intellegibilità, ci atteniamo allo statuto descrittivo dell'esperienza del ricordo, in essa non troviamo nessun rapporto di riferimento tra una cosa ed un'altra, nessun effetto raffigurativo, nessuna immagine. Non vi sono idee della memoria, ma solo cose che si ricordano. L'albero che ora ricordo è proprio quell'albero che vidi l'altro giorno in giardino e che probabilmente si trova tuttora al suo posto. La melodia che ora mi torna in mente è la melodia che ieri ho udito, e se dico «ora mi torna in mente», ciò significa solo che la ricordo e non che essa, fra ieri e oggi, è diventata una cosa dentro la mia mente.

 

Ci sia concesso di dissentire radicalmente, tuttavia, da questa impostazione della questione del ricordo.

Se è vero, infatti, che «non vi sono idee della memoria, ma solo cose che si ricordano», allora ciò che si ricorda è la cosa stessa; dunque, il ricordo non è la memorazione di immagini, suoni, odori, colori, sapori, ecc.; bensì la presentificazione di oggetti, di oggetti reali, che sono qui e ora: cose, appunto, e non idee, cioè copie sbiadite delle cose.

Ma come è possibile che il ricordo ci fornisca delle cose, dei contenuti concreti, se quei contenuti appartengono al passato?

Secondo il modo di vedere tradizionale, il presente è il piano di realtà reale, mentre il passato è un piano di realtà inattuale, dismesso, quindi irreale: un non essere, o, quanto meno, un non-più essere (e il futuro sarebbe ugualmente un non essere, ma nel senso di non-ancora essere). Non è molto chiaro, però, se la intendiamo in questo modo, come l'essere diventi non essere (dal presente al passato), né come il non essere diventi essere (dal presente al futuro). E, di conseguenza, non è affatto chiaro come l'isola del presente si possa reggere sull'oceano «vuoto» del non essere (non più essere e non ancora essere).

Se il passato fosse realmente passato (e lasciando perdere, in questa sede, il problema del futuro, che non ci riguarda), di esso dovremmo parlare come di qualcosa che ha cessato di esistere, dunque come di qualcosa che può esistere solo nel ricordo, come immagine sbiadita e attenuata di ciò che, un tempo, era presente. Questa, lo abbiamo visto, è la riflessione di Wittgenstein sulla natura del passato.

Ma è proprio così?

Prendiamo il caso di una melodia udita tanti anni prima, e che ci ha colpito, per qualche ragione, tanto da imprimersi bene nella nostra coscienza. Ora noi la ricordiamo. Vogliamo con ciò dire che ne ricordiamo l'idea? No, perché nell'atto stesso di ricordarla, noi non la stiamo ricordando come idea, ma come cosa: dunque, non la stiamo ricordando, ma ne stiamo facendo l'esperienza al presente. Intendiamo con ciò dire che, adesso, quella melodia non è soltanto - più o meno sbiadita - un fatto del ricordo di qualcosa che non c'è più, ma una esperienza viva e attuale, l'esperienza di una cosa che esiste, qui e adesso.

D'altra parte, se fosse vero ciò che afferma Giovanni Piana, e cioè che «il riapparire del passato non può essere inteso come un'autentica ripetizione» e che, di conseguenza, « ciò che appare  non può essere altro che un'immagine di esso», allora che differenza ci sarebbe fra il concetto di idea e quello di immagine? Infatti, abbiamo appena visto che i contenuti del fatto memorativo non sono idee, bensì cose. E a noi, francamente, questo non pare che sia un falso problema o un gioco di parole; ci sembra, invece, che sia  una questione di concetti.

Secondo Piana, l'albero ricordato è divenuto una cosa dentro la mia mente; egli ammette, al tempo stesso, che si tratta proprio di quello stesso albero «che vidi l'altro giorno in giardino e che probabilmente si trova tuttora al suo posto».

Dunque, l'albero del ricordo non è un'idea, ma una cosa, una cosa dentro la mia mente (il che non è lo stesso che dire: della mia mente); ed è una cosa perfettamente identica a quella di cui abbiamo fatta l'esperienza in precedenza, tanto da poterne fare anche oggetto di previsione per il futuro (sostenendo che, se torneremo in quello stesso luogo, probabilmente vedremo la stessa cosa sempre lì, nel posto che occupava prima).

Bisogna chiarire, peraltro, che quando diciamo che i contenuti del ricordo sono cose, e non idee (nel senso che gli empiristi inglesi e Hume davano alla parola «idee», ossia impressioni, riflessi della realtà immediata), non intendiamo dire che sono cose in senso materiale, o cose autosussitenti. La loro esistenza dipende dalla nostra facoltà, sia volontaria che involontaria, di memorarle, ossia di chiamarle, per così dire, presso di noi. Tuttavia - e questo è il punto centrale dell'intera questione - nemmeno le cose dell'esperienza sono tali in senso materiale.

Gli empiristi - come bene aveva visto Berkeley - non sono mai stati abbastanza coerenti, non sono mai andati sino in fondo alla loro concezione filosofica. Se lo avessero fatto, avrebbero dovuto pur convenire che né le cose le quali ci si rivelano nell'esperienza ordinaria, né quelle che ci sono date nella nostra vita mentale, sono concepibili dalla nostra mente come se esistessero veramente al di fuori di essa. Di fatto, noi le percepiamo sempre all'interno della nostra mente; e non siamo in grado di dire assolutamente nulla di ciò che avviene al di fuori di essa.

Eppure - si dirà - le cose che ci si offrono nella mente - sia quando le evochiamo volontariamente, mediante il ricordo o l'immaginazione, sia quando ci si presentano spontaneamente, non chiamate in maniera cosciente e, a volte, perfino contro la nostra stessa volontà, possiedono, per così dire, una consistenza soggettiva; mentre quelle dell'esperienza immediata dei sensi appartengono a un piano oggettivo di realtà.

Può darsi; ma quali prove abbiamo che ciò sia vero?

Noi siamo nella condizione di chi non può sperimentare la realtà in maniera diretta e immediata, ma solo in maniera mediata e indiretta (si ricordi il mito platonico della caverna). Di conseguenza, nulla possiamo dire di quello che c'è fuori della nostra mente, ossia della cosa in sé.

Non vogliamo, con questo, negare che la cosa in sé esista: la possiamo dedurre quale principio logico e necessario dell'esistente, non foss'altro di quella particolare forma di esistente che è la nostra coscienza, ossia della consapevolezza che la nostra mente ha di sé medesima. Dunque, la cosa in sé non è altro che l'Essere: l'Essere, grazie al quale esistono le cose che esistono, e senza del quale nulla esisterebbe, perché nessun esistente è in grado di darsi l'esistenza da se stesso.

Se le cose si danno la pena di esistere; se, in luogo del nulla, c'è qualche cosa (per quanto noi fatichiamo molto a definire meglio la specificità di questo qualcosa), allora vuol dire che la realtà è stata tratta dal non-essere all'essere per mezzo di un principio assoluto: la Cosa in Sé, l'Essere necessario e, quindi, definibile con la E maiuscola.

 

Ci avviamo a concludere.

Tanto le cose della realtà «esterna» (gli enti cosiddetti materiali), quanto le cose della realtà «interna» (presenti come realtà nella mente: sogni, ricordi, fantasie, idee) non ci sono date direttamente, e noi possiamo farne solamente una esperienza indiretta. I contenuti del ricordo, sotto questo punto di vista, non differiscono sostanzialmente dai contenuti immediati della vista, dell'udito, del tatto, ecc. L'albero del ricordo non è meno reale dell'albero del giardino; e, del resto, il fatto che ci si possa presentare alla memoria anche da se stesso, non chiamato volontariamente, suggerisce che esso non è meno sostanziale dell'altro.

Ma, in effetti, entrambi sono cose esistenti nella nostra mente: dunque, se non è una cosa concreta e materiale l'albero del ricordo, non lo è, propriamente parlando, neppure quello del giardino. La differenza che passa tra l'albero del ricordo (o anche del sogno) e quello del giardino, non  è di natura qualitativa, ma quantitativa: è una differenza di spessore percettivo, non di spessore ontologico. Entrambi hanno (forse) il proprio noumeno fuori di noi; ma entrambi possono essere da noi esperiti solo e unicamente all'interno della nostra mente.

Ecco, dunque, che ci si disvela l'effettiva condizione del nostro essere chiamati nel mondo: che non è finalizzata né al pensiero assoluto (sopravvalutato dai razionalisti, da Cartesio a Hegel e oltre), né all'azione assoluta (sopravvalutata dagli empiristi (da Locke a Marx a Russell), ma piuttosto alla contemplazione, grata e amorevole, dell'esistente: unica via a noi dischiusa per il reintegro nell'Essere, dal quale procediamo e al quale aspiriamo ardentemente a ritornare.

È ben per questa convinzione che abbiamo a suo tempo sostenuto, nell'articolo L'amore è un dono irrevocabile che, una volta offerto, non potrà mai più essere ripreso (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), che nessuna forza al mondo sarà mai in grado di «togliere», e tanto meno di cancellare, il sentimento dell'amore che sia stato nutrito per qualcuno o per qualcosa. Esso, infatti,  continuerà a vivere nella parte più profonda dell'amante, a dispetto del fatto che la persona (o la cosa) amata non sia più tale; e, quanto al passare del tempo, esso non conta affatto, perché l'amore conosce un solo e unico tempo: il presente.

Abbiamo anche sostenuto che non si può parlare dell'amore al passato o al futuro; l'amore è, semplicemente; e, se è, allora è sottratto allo scorrere del tempo, e accompagnerà fedelmente l'amante fino all'ultimo istante della sua vita - e oltre.

Ebbene: la stessa cosa vale per qualunque contenuto dei ricordi (non per i ricordi in sé, i quali costituiscono solo il mezzo, il veicolo per richiamare determinati contenuti). In un certo senso, chi ricorda qualche cosa compie una operazione molto simile alla magia: evoca cose (apparentemente) lontane, le costringere a obbedire ad un richiamo irresistibile.

Ma, in effetti, quelle cose sono sempre state qui, accanto a noi; solo che non ce ne eravamo accorti. Se, infatti, la contemplazione è la forma necessaria del nostro esserci nel mondo, allora per essa vale esattamente quanto detto a proposito dell'amore: che non conosce altro tempo verbale all'infuori del presente, un eterno e necessario presente.

Tutto è (come voleva Parmenide); il passato e il futuro non sono altro che illusioni della nostra prospettiva. Ricordare, quindi, non vuol dire richiamare ciò che non è più, ma rendere visibile ciò che è sempre stato presente.

E, a quanti obiettassero che ciò significherebbe istituire un legame indissolubile anche con le cose che odiamo e che vorremmo cancellare per sempre dalla nostra memoria, dobbiamo rispondere che, agli occhi di  colui che ha raggiunto la perfetta trasparenza della contemplazione, non esistono cose odiose o che si desidera dimenticare, perché l'essenza dell'autentica contemplazione è l'equanimità verso le cose. Le quali sono tutte preziose e necessarie per la crescita della nostra consapevolezza; e proprio il volerne conservare alcune ed estirparne altre è il segno visibile della nostra inadeguatezza, della nostra immaturità e della nostra sterile sofferenza. I nostri sforzi disperati per liberarci dai ricordi sgradevoli, infatti, somigliano molto a quelli di colui il quale volesse strappare via da sé la propria stessa anima.

Solo quando saremo riusciti ad accettarci integralmente, a perdonarci integralmente e ad amarci integralmente, il nostro sguardo ritornerà abbastanza trasparente da consentirci di accogliere tutto lo splendore ineffabile dell'Essere, che ci parla attraverso le cose del mondo, ma che non è di questo mondo.