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Paul Newman. Un ricordo

di Carlo Gambescia - 29/09/2008



Non siamo critici cinematografici. E del resto poco potremmo aggiungere al fiume in piena di commenti celebrativi su Paul Newman, scomparso sabato scorso: “Quanto era bravo!”, “Quanto era bello!”, “Quanto era liberal!”, eccetera.
Newman - che bravo lo era veramente - ha interpretato sessanta film; non molti rispetto ad altri attori della sua generazione. Di qui il nostro stupore nell’osservare che nessuno si sia soffermato, dal Corriere della Sera al Manifesto, su uno dei suoi film più duri nei riguardi dell’America. Ma non nella solita chiave liberal . Perché, per farla breve, si tratta di un film problematico, che ideologicamente si pone oltre la destra e la sinistra.
Parliamo di Un uomo, oggi (WUSA, tit. or.), prodotto nel 1970. Una pellicola diretta da Stuart Rosenberg e tratta dall’avvincente romanzo di Robert Stone, Hall of Mirrors, (1967); nel senso, se traduciamo correttamente, di una società americana, sempre più somigliante a una sala o corridoio degli specchi deformanti. Stone sceneggiò anche il film.
Insomma siamo davanti a due intellettuali liberal, anzi tre con Newman, in libera uscita dai conformismi di sinistra. Soprattutto Stone che, già in quegli anni, univa alla frequentazione della controcultura un forte senso sociologico dei determinismi sociali (si veda di lui il recente e autobiografico Prime Green: Remembering the Sixties, Harper Collins 2007). Tradotto: del perché la società risulta più forte degli uomini, spingendoli a fare cose che non vorrebbero mai fare. Tuttavia sostenere certe tesi "collettiviste" nella patria di Henry David Thoreau dove anche i castori sono individualisti, può portare all’insuccesso.
Infatti il film, nonostante un cast notevole (oltre a Newman, vi recitavano Joanne Woodward e Anthony Perkins), venne maltrattato da una critica che oggi chiameremmo “politicamente corretta”. Negli Stati Uniti fu stroncato, come cattivo esempio di cinismo e populismo, da Roger Greenspun del New York Time (http://movies.nytimes.com/movie/review?res=9D05E6DE143BEE34BC4A53DFB767838B669EDE). Ma anche in Italia non andò meglio: Tullio Kezich sul Corriere della Sera (http://www.mymovies.it/dizionario/critica.asp?id=52363), lo liquidò, per contro, come poco sociologico ( o poco di sinistra?) e molto "aneddottico".
Ma di che cosa parla Un uomo, oggi ( il titolo italiano, tra l’altro, è molto infelice…)? Di un giornalista mezzo fallito, interpretato da Paul Newman, che pur di campare accetta di lavorare in una radio di estrema destra, la WUSA, nella razzista New Orleans. Ma viene coinvolto in un complotto, rivolto a danneggiare il processo di integrazione sociale dei neri poveri.
Potrebbe perciò sembrare il solito film “liberal”, con qualche cedimento al complottismo, ma rivolto "canonicamente" a scomunicare il razzismo sudista. Ovviamente c’è anche la sacrosanta condanna del White Power, ma non solo. La pellicola vola più alto: per un verso, evidenzia le difficoltà del riformismo, attraverso la figura di un volenteroso ma fragile volontario civile, interpretato da Perkins. Il quale resta psicologicamente imbrigliato, al punto di venirne distrutto, nel corrotto meccanismo di una macchina burocratica, che con la scusa di eliminare la povertà, invece la riproduce… E per l’altro, rivela anche l’ambiguo fascino che la violenza esercita sugli americani, a prescindere dalle scelte politiche e dalle intenzioni più o meno buone. Perciò si può scorgere tra le righe del film una critica alle “soluzioni dirette” anche se rivoluzionarie, o comunque rivolte a eliminare fisicamente i villains, o cattivi.
Del resto - come si sottolinea nel film - la maggioranza silenziosa degli americani, pur di vivere in pace, sembra disposta a rinunciare alla propria libertà individuale, senza fare distinzioni tra buoni e cattivi. Proprio come l’anonimo giornalista-Newman che accetta di lavorare per i razzisti. E guai a coloro che ingenuamente cerchino di turbare tale “equilibrio sociale”, come il giovane volontario civile. Linciato nelle ultime scene del film.
Un uomo, oggi , per metterla sul difficile, potrebbe piacere, se improvvisamente ritornasse tra noi, a un liberale - e non liberal - come Alexis de Tocqueville. Perché fustiga quell’impasto antropologico, tutto USA, di individualismo rapace e gregarismo, da lui individuato con largo anticipo. E che tuttora impregna e avvelena la psiche collettiva americana. Impedendo al tempo stesso sia le riforme che la rivoluzione.
Gli americani - ecco la morale del film - vivono, politicamente parlando, in una specie di terra nessuno. Dove in ultima istanza sembrano contare soltanto denaro e forza. Di cui il dollaro e la sedia elettrica sono i simboli perfetti.
Eccellente l’interpretazione di Paul Newman.