Si è discusso moltissimo di grembiulini, e di maestro unico. Argomenti importanti, che però toccavano aspetti relativamente esterni al «core business» della scuola: gli allievi, e la loro capacità/disponibilità ad apprendere. Come si fa ad insegnare qualcosa a un bambino, e poi a un adolescente? A quali condizioni lo studente si rende disponibile ad apprendere, organizzare le idee, mettere a fuoco un linguaggio? La funzione, e la difficoltà della scuola, infatti, è proprio questa.
Ammesso che i maestri sappiano cosa devono insegnare, la parte più difficile è però far loro capire come farlo. Mentre moltissimi sembrano disposti a scendere in piazza in nome della lotta ai grembiuli, e, naturalmente, della pluralità dei maestri (che significa anche moltiplicazione dei posti), pochi sembrano interessati alle condizioni psicologiche che rendono possibile l’apprendimento.

Eppure il grande problema della scuola negli ultimi anni sembrava proprio quello. I ragazzi non erano affatto motivati a imparare, non ne avevano nessuna voglia. E infatti non imparavano nulla, o quasi, come puntualmente risultava dai test di ammissione alle università, o alle aziende.
Se si scambia Costantino per un tronista, non è solo perché si guarda troppa televisione. È anche (ad esempio) perché la Storia antica ti è stata presentata in modo noioso, e nessuno ti ha raccontato l’episodio del sogno fatto prima della battaglia, dove il futuro imperatore sogna la croce, e «sente»: «Con questo simbolo vincerai», affrettandosi quindi a farne la nuova insegna dell’esercito romano, e sbaragliando l’avversario.
L’episodio manca dai libri, in parte perché è leggendario, e si pretende che a scuola ci siano solo fatti (salvo poi diffondere miti già morti, ma «politicamente corretti»); in parte perché presenta una conversione, e ciò puzza di clericalismo; in parte perché l’Impero romano viene fatto in fretta e male, per timore di alimentare simpatie fasciste. Così nessuno sa chi è Costantino, che ricorderebbe se qualcuno gli avesse raccontato la cinematografica storia del sogno.
Questa è invece la prima condizione necessaria perché gli studenti imparino: la scuola deve interessarli. Per farlo sarebbe meglio, almeno fino agli ultimi anni del liceo, non impartire direttamente delle nozioni, ma raccontare delle storie. Ogni sapere, scienze comprese, è traducibile in storie: dei protagonisti, delle idee, dei processi della natura.
Le storie, però, occorre saperle narrare. Raccontare le storie è un’arte precisa e complessa: per questo chi la possedeva godeva di grande prestigio, nei villaggi e nelle comunità. Ogni comunità si costituisce attorno a delle storie che si raccontano e che ne costituiscono l’anima, come quelle narrate nel passato attorno al fuoco, nei paesi. Anche la comunità scolastica nasce non attorno a degli edifici (in Africa a volte non ci sono neppure), ma attorno a uno storyteller che narra delle storie, nel giusto modo, catturando l’attenzione di chi l’ascolta. Perché questo accada occorre che chi racconta sappia innanzitutto stupirsi, commuoversi, e rimanere affascinato, lui per primo, quando racconta una storia. Deve sempre essere come se fosse la prima volta che anch’egli l’ascolta.
Questa è del resto la prima qualità del maestro: la sua capacità di stupirsi, come Platone ci racconta che Socrate costantemente faceva con i suoi allievi. È questa anche la differenza dal falso maestro, che ha invece un tono sapiente, come se sapesse tutto, e nulla più lo stupisse. Così diventa noioso, e per gli allievi l’avventura dell’apprendere non comincia mai.