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Le commesse laureate. I giovani e il lavoro flessibile

di Carlo Gambescia - 01/10/2008



Oggi partiamo, per parafrasare Ortega, dalla sociologia del tranvai. Ovvero da una sociologia intessuta di piccole osservazioni personali. Ne faremo però solo una: conosciamo una ragazza di ventotto anni, laureatasi tre anni fa in psicologia, iscritta all’ ordine e alla scuola di specializzazione, che ha accettato di fare la commessa, lavoro per carità dignitosissimo, ma per il quale la nostra giovane psicologa risulta “sovradimensionata”. E poi in che modo svolge il suo "lavoro"? Cumulando contratti a termine, pur di sopravvivere. E privando chi, con meno titoli, avrebbe altrettanto bisogno, e soprattutto diritto a quel lavoro. Guerra tra poveri? Decida il lettore.
Sembra, insomma, che i giovani tra i 25 e i 30 anni abbiano smesso di “lottare” per migliori condizioni di lavoro e vita. E anche se laureati, finiscono per accontentarsi di lavoretti a termine, malpagati e spesso in nero ( si veda per tutte la recente ricerca di Almalaurea, sui laureati italiani 2007, ( http://www.almalaurea.it/universita/occupazione/occupazione06/presentazione.shtml Per farla breve, un laureato su due accetta un contratto di lavoro atipico e spesso privo di relazione con i suoi titoli universitari Perché?
In primo luogo, perché i giovani sono le principali vittime di una società che celebra la “flessibilità”. Oggi viene definito buon lavoratore chiunque accetti di cambiare continuamente ruolo, funzione, impresa, e soprattutto di non discutere l’entità della paga. E se giovane deve fare “gavetta”. Negli ultimi quindici, venti anni si è passati dal lavoratore “iperprotetto” al lavoratore “ipoprotetto”. La politica sociale è diventata “costosa” e l’economia ne ha subito approfittato per imporre nuove, anzi vecchie regole: prima il profitto, poi le tutele. In certo senso l’Europa ha adottato, in modo più o meno rigido secondo le particolarità nazionali, il modello socioeconomico americano, basato sulla discontinuità del rapporto di lavoro.
In secondo luogo, il mordi e fuggi nei riguardi dei lavoratori è frutto di un autentico rovesciamento di valori. Un solo esempio: se ai tempi dell’Autunno Caldo il salario era considerato una variabile indipendente dalla produttività (il che era troppo), oggi è la produttività che viene considerata tale (il che è poco). Per riprendere il titolo di una canzone allora in voga, oggi chi non produce non lavora. Nel senso che il lavoro deve essere produttivo prima di profitti per l’impresa, e poi di salari e stipendi per i suoi dipendenti. Non è più accettata l’idea di una soglia onorevole (né poco né troppo) di benessere e stabilità lavorativa. E ciò spiega a sufficienza precarietà e bassi stipendi.
Di conseguenza, e in terzo luogo, per “gli under trenta” che si sono “socialmente” formati nell’ultimo quindicennio, precarietà e basso stipendio rappresentano la “normalità”. E qui la pressione sociale ha giocato e gioca un ruolo determinante. Quante volte capita di vedere in TV interviste a giovani “ex precari”, ma oggi famosi? Il messaggio, per così dire, subliminale, è di accettare ogni lavoro anche malpagato, precario e privo di tutele, per mostrare al mondo “quanto si è bravi”. Perché chi riesce a vivere con mille euro al mese, non è un lavoratore sfruttato ma ha le giuste chances per diventare un futuro presentatore televisivo, un cantante, una velina, eccetera… E così il precariato diventa segno di distinzione. Dal momento che il giovane precario avrebbe in tasca il biglietto vincente della grande lotteria del darwinismo sociale.
In quarto e ultimo luogo, alla rassegnazione dei giovani perdenti, che è anche corroborata dalla speranza prima o poi di vincere, si accompagna una socialità al contrario, segnata dalla lotta spietata tra coloro che vogliono emergere a tutti i costi. Un fatto che spiega la bassa sindacalizzazione e persino l’assenza di vita relazionale sul posto di lavoro. Tutti corrono per arrivare primi in termini di rinnovi contrattuali e premi di produzione individuali. Nell’altro non c’è il collega, o comunque lo specchio del proprio precariato, ma un pericoloso concorrente nella gara che ha come traguardo l’egoistico benessere individuale.
Apparentemente questo processo di degradazione del lavoro umano sembra inarrestabile. Il capitalismo del Dopo Muro non temendo più rivoluzioni sociali, impone ai lavoratori, come ai tempi della rivoluzione industriale, il massimo di flessibilità. Perciò molti giovani potrebbero essere costretti a una vita da precari. Ma anche a un brusco risveglio, come sembra preannunciare la crisi finanziaria mondiale in corso. Un risveglio che potrebbe essere ancora più spiacevole per chi oggi costringe i giovani a vivere, e per giunta illudendoli, con seicento, e se “fortunati”, mille euro al mese.