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Nell'apologo virgiliano del « vecchio di Corico» c'è più della nostalgia per la vita semplice

di Francesco Lamendola - 02/10/2008

 

Chi abbia una certa familiarità con gli studi classici ricorderà, probabilmente, quel curioso episodio del IV libro delle Georgiche in cui Virgilio descrive la vita semplice e frugale e la serenità dell'animo di un vecchio contadino dei dintorni di Taranto, che aveva dissodato un piccolo appezzamento di terra, liberandolo dalle rocce, e trasformandolo in uno splendido orto e in un fiorente giardino con le sole armi della tenacia e dell'amore.

 

Namque sub Oebaliae memini me turribus arcis,

qua niger umectat flaventia culta Galaesus,

Corycium vidisse senem, cui pauca relicti

iugera ruris erant, nec fertilis illa iuvencis

nec pecori opportuna seges nec commoda Baccho.

Hic rarum tamen in dumis holus albaque circum

lilia verbenasque premens vescumquepapaver

regum equabat opes animis seaque revertens

nocte domum dapibus mensas onerabat inemptis.

Primus vcererosamatque autumno carpere poma

et, cum tristis hiemps etiamnum frigore saxa

rumperet et glaciecusus frenaret aquarum,

ille comam mollis iam tondebat hyacinthi

aestatem increpitans seram Zephyrosque morantis.

Ergo apibus fetisidem atque examine multo

primus abundare et spumantia cogere pressis

mella favis; illi tiliae atque uberrima pinus,

quotque in flore novo pomis se fertilis arbos

induerat, totidem autumno matura tenebat.

Ille etiam seras in versum distulit ulmos

eduramque pirum et spinos iam pruna ferentis

iamque ministrantem platanum potantibus umbras.

Verum haec ipse  equidem spatiis  exclusus iniquis

praetereo atque aliis post me memoranda relinquo.

 

Ed ecco la traduzione di Luca Canali (Virgilio, Georgiche, Intr. Di A. La Penna, Rizzoli Editore, Milano, 1983, pp. 313-15):

 

Infatti ricordo sotto le torri della rocca ebalia,

per dove il bruno Galeso bagna bionde coltivazioni,

di aver veduto un vecchio di Corico, che possedeva

pochi iugeri di terra abbandonata, infeconda ai giovenchi,

inadatta alla pastura di armenti, inopportuna a Bacco.

Questi tuttavia, piantando radi erbaggi fra gli sterpi,

e intorno bianchi gigli e verbene e il fragile papavero,

uguagliava nell'animo le ricchezze dei re, e tornando a casa

tornando a casa colmava la mensa di cibi non comprati.

Primo a cogliere la rosa in primavera e in autunno a cogliere i frutti,

quando ancora il triste inverno spaccava i sassi

con il freddo e arrestava con il ghiaccio il corso delle acque,

egli già tosava la chioma del molle giacinto

rimproverando l'estate che tardava e gli Zefiri indugianti.

Dunque era anche il primo ad avere copiosa prole

di api e uno sciame numeroso, e a raccogliere miele

schiumante dai favi premuti; aveva tigli e rigogliosi pini,

e di quanti frutti, al nuovo fiorire, il fertile albero

si fosse rivestito altrettanti in autunno portava maturi.

Egli ancora trapiantò olmi tardivi in filari,

e duri peri e prugni che ormai producevano susine,

e il platano che già spandeva ombra sui bevitori.

Ma impedito a ciò dall'avaro spazio, tralascio, e affido

questi argomenti ad altri che li celebrino dopo di me.

 

Al di là del quadretto di maniera, noi sentiamo la sincera commozione del poeta di fronte allo spettacolo di tanta frugalità e semplicità, di una tale capacità di diventare ricco con poco; al punto che il vecchio di Corico (un ex pirata, probabilmente, venuto dalla natia Cilicia dopo una sorta di amnistia concessa da Pompeo, al termine della campagna militare del 67 a. C. contro quei pirati) ha trovato la pace dell'animo; e, quando siede alla mensa imbandita con i prodotti del suo orto, egli si sente più ricco di un re.

Tuttavia, oltre all'elogio della vita semplice e del ritorno alla sana vita dei campi, dopo gli orrori delle guerre civili, vi è in questo episodio anche un sentimento di filosofica contentezza nel poco, che è, in fondo, la traduzione in termini rurali del «vivere nascosto» caro agli Epicurei. Né si tratta di un atteggiamento puramente letterario, di una estensione delle humiles mirycae delle Bucoliche, ovvero di una poesia minimalista, delle «piccole cose» di timbro quasi crepuscolare (nemmeno per le Bucoliche, peraltro, a dispetto degli stilemi di genere mediati da Teocrito, si può parlare di semplice letteratura, ma bensì, come sempre in Virgilio, di sofferta poesia della vita reale). Il minimalismo sotteso alla filosofia di vita del senex Corycium non è affatto una posa; come lo è, invece, in sostanza, quella del vecchio pastore nell'episodio della fuga di Erminia, nella Gerusalemme Liberata di Tasso.

Come ha osservato anche, fra gli altri, Concetto Marchesi (in Storia della letteratura latina, Principato Editore, Milano, 1966, vol. 1, pp. 415-18, passim):

 

È sorprendente la potenza poetica onde [Virgilio] sa ridurre a continua visione la semplice precettistica rurale. Non è abilità, è sentimento. (...)  La terra è sacra, ma è dura; dura al contadino che deve lavorarla, durissima al poeta che voglia cantare quella fatica. (…)

La terra, dunque, è lo scenario di questo dramma georgico: essa ricolma l'anima e la immaginazione del poeta, e anche la volta celeste apparisce piccola dinanzi a questa superficie coltivata dagli uomini. Nella Georgica, più che altrove, è una insistente visione di azzurro. Virgilio ama la luce, la grande luce abbagliante e raggiante del «sole d'oro che caccia l'inverno sotto terra e apre il cielo» agli occhi inebriati dei mortali…

 

Alla nostalgia della vita semplice, al mito ruralista del ritorno ai valori della terra e del lavoro dei campi, Virgilio aggiunge una nota tutta sua, un sentimento struggente di amore per le piante, per gli animali, per tutti ciò che è vivo e lotta e soffre per esistere; e, inoltre, una aspirazione alla santità della vita, un anelito verso la purezza del cuore, che si traduce in compassione per tutti i sofferenti e nell'ammirazione per tutto ciò che protegge e conserva la vita.

 

La semplice, istintiva saggezza del vecchio di Corico contiene un messaggio spirituale che è valido, crediamo, anche (e forse soprattutto) per gli uomini d'oggi.

È la saggezza di chi ha compreso il segreto di una vita serena: che non risiede nella quantità, ma nella qualità delle cose, del tempo, dello spazio che ci circonda; e nella intuizione che, se il regno della quantità dipende, in gran parte, da fattori esterni al nostro volere, quello della qualità dipende, invece, massimamente da noi.

Nell'uomo di città si tratta di una saggezza particolarmente rara; mentre si accompagnava spesso, anche se non sempre, alla figura del contadino nelle società pre-industriali; e, talvolta, accompagna ancora la figura del contadino dei nostri giorni., specialmente se vive - accontentandosi di poco - di quella piccola porzione di terra che può coltivare con le sue mani. Oggi questa figura è sempre più rara, perché in una società industrializzata non solo le fabbriche, ma anche l'agricoltura, per essere competitiva, tende alla concentrazione; e lo testimonia il triste spettacolo delle colline già ricche di vigneti, e ora abbandonate, perché i piccoli poderi non valgono più la fatica di coltivarli, specialmente se non sono raggiungibili dalle macchine agricole,.

Esiste, però, la figura del pensionato che, disponendo ormai di una fonte di reddito sicura, anche se assai modesta, è libero di dedicarsi interamente al suo campicello, al suo orto o al suo vigneto, e magari anche ad un piccolo allevamento di api. Ebbene, in figure del genere (che noi abbiamo avuto il privilegio di conoscere) è ancora possibile trovare quella semplicità di vita, quella schiettezza di sentimenti e quella purezza di atteggiamento verso il mondo, delle quali ci parla l'apologo virgiliano, unite alla profonda saggezza di chi ha vissuto lungamente del lavoro delle proprie mani, magari da emigrante, ed è tornato al paese natio ricco di esperienza, con la fedeltà e con l'amore con i quali si ritorna, dopo una lunga assenza, dalla propria madre.

Vi sono anche dei giovani che, disillusi dal disordine della vita cittadina e dalla banalità di una professione magari discretamente remunerativa, ma povera di sostanza umana, fanno la scelta di piantare tutto e andarsene a vivere in campagna, dedicandosi alla terra e agli animali con criteri non produttivistici e rifiutando, pertanto, tutte quelle pratiche di coltivazione e di allevamento che si basano sull'uso di sostanze chimiche, e che sono finalizzate unicamente al guadagno.

Certo, non tutti possiamo tornare alla terra per dissodare il nostro campicello, come il vecchio di Corico; non tutti possiamo permetterci di piantare in asso un reddito sicuro, sia pure allo scopo di lasciarci alle spalle le nevrosi cittadine e riscoprire le gioie semplici della vita in campagna.  Contadini non ci si improvvisa; e, inoltre, la vita rurale difficilmente dispensa i suoi doni di frugalità e serenità al di fuori di un contesto sociale ampio e articolato, quale era quello della ormai scomparsa famiglia patriarcale. Senza quel contesto, anche la magia della terra rischia di rimanere muta, specialmente nei confronti di chi non h alcuna familiarità con essa.

C'è una cosa, però, che tutti possiamo fare, prendendo a modello l'apologo virgiliano del vecchio di Corico: riscoprire la bellezza e la tranquilla armonia di una vita semplice, fatta di piccole cose realizzate con amore, e della pace dell'anima che viene dal sentirsi ricchi, perché non si desidera in maniera compulsiva sempre di più che quel che si possiede. Comprendere che il poco, se vissuto con amore, dà una soddisfazione enormemente superiore al molto che, però, sia privo di tale componente: questa è la vera grandezza. E che, in tal senso, è veramente povero solo colui che si sente tale, perché si è lasciato sedurre dalla spirale del possesso illimitato.

Quello di cui si sente maggiormente la mancanza, nella società contemporanea, è proprio la tranquillità dell'animo. Sono ormai rare le persone calme e serene, ottimiste senza leggerezza e meditative senza tetraggine; le persone, cioè, che hanno trovato in sé stesse il proprio baricentro, ma non in senso narcisistico, bensì in armoniosa fratellanza con il resto del mondo. Forse perché ci siamo allontanati, materialmente e spiritualmente, dalla nostra madre terra, la quale - dice san Francesco - ne sustenta et governa, ossia da colei che - sola - può placare le nostre ansie febbrili e restituirci una visione limpida e pacificata della vita.

Del resto, come meravigliarsi se, avendo smarrito il senso di una verità così elementare, la nostra esistenza si è fatta così faticosa e frustrante, così carica di angoscia e di intima insoddisfazione? Abbiamo smarrito la misura umana del vivere; e, fino a quando non l'avremo ritrovata, ogni sollievo sarà aleatorio, ogni benessere, instabile e precario.

Forse, come il vecchio di Corico, è arrivato il momento di fermarci e di fare il punto della nostra situazione, prima che sia troppo tardi.

Forse, è arrivato il momento di chiederci seriamente se siamo davvero contenti di continuare così come abbiamo fatto sinora; o se non sia necessario dare una svolta alle nostre vite, facendo delle scelte chiare e coraggiose intorno a ciò che riteniamo sia davvero importante.