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Come il '29? Parla l'economista francese Jean-Paul Fitoussi

di Anna Maria Merlo - 04/10/2008

 


Ogni giorno ci sono nuove notizie che segnalano l'aggravamento della crisi finanziaria. I politici fanno a gara nel rassicurare i cittadini, clienti delle banche, per evitare a tutti i costi che si diffonda il panico e che ci siano code agli sportelli, come nel '29 - o come un anno fa in Gran Bretagna, per la Northern Rock. Ma le dichiarazioni sono fin troppo rassicuranti per essere vere. Una prova dell'ampiezza della crisi, che ha ormai contagiato in pieno l'Europa, è la proposta di Nicolas Sarkozy di costituire un fondo comune europeo di 300 miliardi per poter intervenire e salvare le banche in difficoltà, subito respinto dalla Germania. Della crisi finanziaria mondiale, delle sue cause e delle conseguenze sul futuro discutiamo con l'economista Jean-Paul Fitoussi, professore a Sciences Po a Parigi, presidente dell'Ofce (Osservatorio francese delle congiunture economiche), coordinatore della Commissione sulla misura della performance economica e del progresso sociale.

Professor Fitoussi, cosa sta succedendo? Siamo solo all'inizio di una depressione che impoverirà tutti?

Se facciamo riferimento alla storia, le crisi finanziarie ricorrenti sono inerenti al sistema capitalista. Ma la crisi attuale ha una sua specificità: direi che è una crisi della comprensione. Abbiamo l'impressione, che peraltro è una realtà, che i protagonisti stessi non capiscano cosa fanno e non capiscano più il sistema. Hanno creato dei prodotti talmente complessi di cui nessuno sa più valutarne il valore e, quindi, questo valore crolla. Adesso siamo nel momento del crollo di questo valore.
Per il momento si tratta più di una crisi di comprensione che di una crisi di fiducia generalizzata?

La crisi concerne gli operatori del sistema bancario. Non hanno più fiducia in se stessi e quindi non hanno fiducia negli altri. Sapendo in che stato sono, non hanno più voglia di prestarsi i soldi uno con l'altro. Allora il sistema si blocca. Di norma, difatti, i depositi sono una frazione dei prestiti. Le banche hanno in permanenza bisogno di rifinanziarsi poiché prestano di più di quanto abbiano in cassa attraverso il mercato interbancario. Adesso questo mercato non funziona più. E poiché non possono più rifinanziarsi, siamo di fronte al grande pericolo che non possano più prestare alle famiglie e alle imprese. Questo può portare all'asfissia totale del sistema, con la conseguente paralisi dell'attività economica, l'aumento della disoccupazione, la ripetizione di quello che è successo negli anni '30.

Siamo quindi sull'orlo di un altro '29?

Non credo, perché oggi i governi non stanno facendo gli stessi errori di allora. Persino i più liberisti nazionalizzano le banche. Si tappano il naso, ma nazionalizzano, con lo scopo di ristabilire la fiducia nel sistema. Gli Usa stanno tentando un'esperienza fondamentalmente buona, anche se c'è dibattito e il piano potrebbe essere migliorato. Paulson fa un tentativo per ristabilire la fiducia tra gli operatori del sistema che, anche se non capiscono cosa sta succedendo, dovrebbero ritrovare questa fiducia se non sono più gravati da attivi non valorizzabili.

A differenza degli Usa, l'Europa tergiversa: Francia e Germania non sono d'accordo, l'Irlanda va per conto suo. Se crolla una banca che ha sportelli in vari paesi europei, cosa succederà?

In Europa sono gli stati che si fanno garanti, nazionalizzando le banche con aumenti di capitale. È quello che è successo, per esempio, con Dexia. E se gli europei saranno incapaci di intendersi su un piano comune, sarà il paese dove la banca ha la sua localizzazione principale a dover far fronte. Sarkozy ha proposto un fondo comune europeo di 300 miliardi. I tedeschi hanno detto di no e di conseguenza questo piano non si farà. Così in questa crisi appare la differenza fondamentale tra Stati uniti e Unione europea: gli Usa sono capaci di mobilitarsi in fretta, mentre gli stati europei reagiscono in ordine sparso.

Da dove vengono fuori tutti questi soldi per salvare le banche, quando da anni i governi ripetono che le casse sono vuote quando si tratta di finanziare programmi sociali?

Ci hanno sempre presi in giro quando ci hanno detto che le casse erano vuote. È semplicemente un modo per resistere a domande di spesa. Ma le casse non sono mai vuote, perché le casse dello stato sono le tasche dei cittadini. Lo stato può sempre ricorrerre alle tasse e le casse non saranno vuote fino a quando non lo saranno le tasche dei cittadini. Oggi, i piani per le banche non sono però spesa corrente, ma investimenti. In parole povere, gli stati tirano fuori miliardi per comprare titoli e banche che valgono poco. Ma tra 4 o 5 anni, questi titoli e queste banche potranno avere un valore considerevole. Sono possibili anche buoni affari. È esattamente quanto è avvenuto in Corea, che aveva reagito alla crisi asiatica del '98-'99 nazionalizzando il sistema bancario. Cinque anni dopo ha rivenduto facendo profitti considerevoli. In altri termini, questo tipo di investimento ha forti potenzialità, mentre non fare nulla fa correre il rischio di un crollo dell'economia e di un impoverimento generalizzato.
Oggi l'intervento pubblico e domani la corsa riprenderà come prima? Non ci sarà nessun cambiamento di fondo del sistema?

Per il momento bisogna agire, in fretta. In caso contrario andiamo dritti verso la catastrofe. Dopo si dovrà riflettere su come migliorare la regolamentazione. Ma non ci facciamo illusioni: sappiamo che tra 20 anni una crisi simile si riprodurrà. Le crisi finanziarie sono nel genoma del sistema capitalistico.