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Autocritica (dell'utopia liberista...)

di Massimo Gramellini - 04/10/2008

Dice il saggio: si nasce incendiari e si muore pompieri, nel senso che chi a diciott’anni immaginava di ribaltare il mondo, giunto alla famigerata età adulta rivaluta la moderazione dei padri. Di solito l’utopia da cui ci si emenda con la maturità è quella socialcomunista: l’uguaglianza e la solidarietà imposte per legge. Ma io conosco uno che a diciott’anni credeva nell’utopia opposta, la liberista. Iniziativa individuale e meritocrazia erano le sue stelle polari. Brandiva Reagan e Milton Friedman come gli altri Marx e Che Guevara. E oggi si ritrova deluso anche lui dal fallimento dei sogni della sua adolescenza minoritaria. Il comunismo reale ha ucciso il comunismo immaginario perché ne ha tradito il valore fondante, l’uguaglianza, creando una società di burocrati e di oppressi. Allo stesso modo il liberismo reale ha ucciso quello immaginario perché ha tradito il valore del merito. Non è sana una società dove i cortigiani del capo guadagnano non 3, non 30 ma 300 volte più di un bravo impiegato. Soprattutto non è sana una società in cui il manager cattivo è strapagato come quello buono e chi affossa le aziende viene liquidato come un sultano a spese dei dipendenti e dei risparmiatori. Prima o poi la natura si ribella alle esagerazioni, che con la loro indecenza ne alterano la fondamentale tendenza all’armonia. Così le utopie realizzate diventano incubi, lasciando chi ci ha creduto senza altri sogni che non siano quello, minuscolo ma sincero, di dare l’esempio. Provando a rispettare il prossimo e, prima ancora, se stesso.