La Gran Bretagna produce circa 400 milioni di tonnellate di rifiuti ogni anno, e il problema di come smaltirle è visto come una delle principali sfide ambientali del Paese.
Il Regno Unito (anche se quello dei rifiuti è un problema quasi prettamente inglese, più che britannico) è attualmente sotto pressione per riuscire a rispettare i target europei che impongono di ridurre la quantità di rifiuti che finiscono nelle discariche e negli inceneritori, dato che (in tutta Europa) nessuno ha ancora negato il fatto che questi ultimi siano terribilmente dannosi per la salute e decisamente svantaggiosi dal punto di vista economico. Addirittura Margaret Beckett, ministro per “l’edilizia e la progettazione”, membro della Camera dei Comuni, ex leader del partito Laburista inglese (prima di Tony Blair), nonché ex ministro degli esteri (unica donna ad aver ricoperto quella carica), ha totalmente escluso la costruzione di nuovi inceneritori per far fronte a questa “emergenza rifiuti” d’oltre Manica. In mancanza quindi di ministri (o di Primi Ministri) che facciano magicamente scomparire l’immondizia sotto il tappeto come in Campania o che promuovano per motivi più o meno occulti i termodistruttori, il Governo britannico sta cercando di scongiurare almeno il rischio delle sanzioni da 500 mila sterline al giorno che i suoi contribuenti dovrebbero pagare nel caso non dovesse rispettare entro il 2010 le regole dell’Unione riguardanti appunto lo smaltimento dei rifiuti.
La Gran Bretagna, che in questi giorni si è anche trovata ad affrontare l’umiliazione di essere al trentunesimo posto in una lista di trentacinque Paesi industrializzati stilata da uno studio internazionale riguardante, fra le altre cose, le percentuali di raccolta differenziata (11% in GB contro il 50% di Germania, Austria e Svizzera), ha stanziato 140 milioni di sterline (quasi duecento milioni di euro) per portare le autorità locali ad aumentare la quantità di rifiuti che verranno riciclati. Ancora più importanti sono poi le proposte di incentivi e di tassazioni (ridotte o maggiorate, a seconda dei casi) che incoraggino il riuso dei materiali.
La strada da percorrere è ancora lunga, soprattutto se si pensa alla capitale, Londra, che nonostante le belle parole e le buone intenzioni (tipo quella di voler diventare la più “verde” e la più “sostenibile” delle grandi metropoli mondiali), non prevede ancora alcun obbligo per i suoi cittadini di raccolta differenziata dell’immondizia.
Ma perché lo ritengo un problema culturale? Perché nonostante si stia giustamente parlando di riciclaggio e di riuso, nessuno ha ancora parlato di riduzione, la vera chiave del problema dei rifiuti. Il mito della crescita economica e dei consumi sarà molto duro a morire nella culla del capitalismo e dell’industrializzazione. E in un momento di ormai malcelata crisi economico-finanziaria, nemmeno i politici più virtuosi, impavidi ed intraprendenti si sognerebbero di dire che l’unico modo per ovviare al problema sarebbe quello di ridurre i consumi, in una società iper-consumistica come quella inglese. Nessuno sarebbe ancora disposto a mettere in discussione gli stili di vita anglo-americani, che hanno ormai contagiato gran parte del globo, proprio laddove sono nati.
Forse solo alcuni scienziati indipendenti ed alcuni intellettuali hanno il “coraggio” di demistificare e di mettere in discussione i meccanismi sociali e psicologici che mantengono in moto la macchina dei consumi. Uno di questi è sicuramente il celebre sociologo britannico (seppur di origine polacche) Zygmunt Bauman, il quale afferma:
- In una società “liquido-moderna” (ossia una società nella quale le situazioni in cui agiscono gli uomini si modificano prima che i loro modi di agire riescano a consolidarsi in abitudini e procedure, ndt), l’industria di smaltimento dei rifiuti assume un ruolo dominante nell’ambito dell’economia. La sopravvivenza di tale società e il benessere di coloro che ne fanno parte dipendono dalla rapidità con cui i prodotti vengono conferiti alla discarica e dalla velocità e dall’efficienza con cui gli scarti vengono rimossi. In una società simile a nulla può essere concesso di restare più dello stretto necessario. La costanza, la resistenza e la vischiosità delle cose, inanimate e animate, costituiscono il più sinistro e grave dei pericoli, sono la fonte delle peggiori paure e il bersaglio delle aggressioni più violente. La vita nella società liquido-moderna non può mai fermarsi. Deve modernizzarsi o perire. Spinta dall’orrore della scadenza, non richiede più di essere trainata dai sogni delle meraviglie immaginate come esito estremo dei travagli della modernizzazione. Ciò che bisogna fare è correre con tutte le forze semplicemente per rimanere allo stesso posto, a debita distanza dalla pattumiera dove gli altri sono destinati a finire. […] I rifiuti sono il prodotto principale, e probabilmente il più abbondante, della società dei consumi liquido-moderna; tra tutte le industrie della società dei consumi, la produzione dei rifiuti è la più massiccia e non conosce crisi. Lo smaltimento dei rifiuti è perciò una delle principali sfide che la “vita liquida” ha di fronte; l’altra riguarda il rischi di finire tra i rifiuti.-
Per Bauman “vita liquida” significa autoesame, autocritica ed autocensura costante; si alimenta dell’insoddisfazione dell’io rispetto a se stesso. È la paura di finire fra i rifiuti, se non abbastanza al passo con i tempi.
Non è per caso la nostra attuale situazione? Il punto debole delle stesse relazioni umane al giorno d’oggi? Non è questa l’origine, ancor prima delle mafie e della cattiva gestione, di tutte le “emergenze rifiuti”, e l’origine di ogni forma di inquinamento: il continuo senso di inadeguatezza, il vuoto interiore che in molti pensano di poter riempire con un sacco di oggetti inutili dalla breve durata?

Fonti:

  • BBC News
  • Environmental-Expert.com
  • Zygmunt Bauman, “Liquid life”, Polity Press, 2005; edizione italiana: “Vita liquida”, Ed. Laterza, 2008