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Parliamo ai giovani di mille cose superflue ma non parliamo più loro del Bene e del Male

di Francesco Lamendola - 15/10/2008

Parliamo ai giovani di mille cose superflue, ma non sappiamo più parlare loro della differenza tra il Bene e il Male e della necessità di operare una scelta rispetto ad essi. Come dire che abbiamo perso di vista l'essenziale e che non siamo più in grado di trasmettere ai nostri figli il valore fondamentale perché essi possano costruirsi il proprio futuro. Questa è la nostra grande colpa verso di loro, ed è più di una semplice colpa: è il suicidio della nostra civiltà.

Alla fine, l'hanno avuta vinta i signorini Beatles, quando predicavano: «Let it be», «Lascia che accada». Non c'è più l'idea di un dovere da compiere, di un bene da scegliere e di un male da cui tenersi lontani: è rimasta solo la dottrina secondo la quale ciascuno è libero di seguire il proprio impulso, di cercare il proprio piacere. I termini Bene e Male sono scomparsi davanti alla coppia bene per me e male per me, ossia piacevole e spiacevole: limite estremo del pragmatismo della filosofia angloamericana del Novecento, i cui germi sono già contenuti nell'empirismo inglese del Settecento: in Locke e in Hume (ma non in Berkeley). A nessuno importa più che una cosa sia buona e giusta in se stessa: basta che risulti gradevole al mio palato; e questo è tutto.

La società che abbiamo costruito, che non a caso si autodefinisce «del benessere» (materiale), ha realizzato ciò che aveva legiferato, secondo Dante, la regina Semiramide, per giustificare davanti ai sudditi la relazione incestuosa col proprio figlio (Inf., V, 55), ossia:

 

… che libito fe' licito in sua legge.

 

Se una cosa piace, allora diventa lecita; tutto è lecito quello che piace.

Vengono in mente le parole del celebre motto del mago «nero» Aleister Crowley, uno dei più sinistri fra i «cattivi maestri» del XX secolo (e la cui immagine figurava sulla copertina di uno de più famosi dischi dei signorini Beatles: «Fa' ciò che vuoi». Queste parole potrebbero essere considerate la summa della concezione morale caratteristica della modernità, e scolpite sulle porte delle nostre scuole, delle nostre università e, spesso, anche delle nostre case. Chi oserebbe affermare il contrario? Ne va di mezzo il sacro concetto della libertà!

Poi, però, tutti i benpensanti e i moralisti a un tanto la settimana, si stracciano le vesti allorché le notizie di cronaca ci parlano - mettiamo il caso -  di qualche orribile fatto di pedofilia.

Siamo onesti, per favore: perché scandalizzarsi tanto, se si predica a tutto campo il principio che è lecito e giusto cercar di realizzare tutto ciò che piace? Se si predica senza posa che questa è l'essenza del sacro principio della libertà?

Basti pensare a quante volte un ragazzo, oggi, può aver sentito parlare un adulto circa la distinzione tra il Bene e il Male. Una o due, forse? E, se sì, quasi certamente in termini estremamente vaghi ed astratti; così come si parla, talvolta - ma sempre in forma vaga ed astratta - del concetto di dovere. Meglio parlare a ogni pie' sospinto dei diritti: è più facile, e molto più popolare.

Così, dopo cinque anni di scuola elementare, tre di scuola media inferiore e altri cinque di scuola media superiore, un diciottenne, oggi, ha avuto a che fare con almeno una trentina di adulti in veste di educatori, fra maestri e professori. Ciascuno di essi gli avrà parlato dell'italiano, della matematica, del latino, della chimica e dell'astronomia; ma quanti di essi avranno trovato un minuto per parlargli della differenza tra il Bene e il Male?

Parlare ai giovani del Bene e del Male è divenuto obsoleto e politicamente, se non proprio scorretto, certo alquanto sospetto: sa troppo di limitazione della loro libertà. Del resto, non abbiamo deciso che a diciott'anni un giovane è in grado di andare a votare? In omaggio alla demagogia più sfrenata, si fa finta che egli sia in grado di esercitare responsabilmente il proprio diritto al voto, quando si sa benissimo che - nel novantanove per cento dei casi - un diciottenne non sa neppur vagamente cosa significhino concetti quali «cosa pubblica» e «bene pubblico».

Evviva la libertà! Abbasso gli anziani, animati da una mentalità repressiva e oscurantista, che non hanno fiducia nei giovani. Come se mandare i giovani allo sbaraglio significasse aver fiducia in loro…

Oggi, praticamente, non si parla più del Bene e del Male, come se il Male fosse scomparso e qualunque cosa o azione, purché piacevole, fosse divenuta lecita e buona. Why not?, perché no?, è la parola d'ordine che apre tutte le porte, la chiave universale verso i paradisi della felicità e dell'autorealizzazione.

Meno ancora si parla della volontà, ossia dello strumento mediante il quale la persona è chiamata a operare delle scelte, magari difficili e faticose, ma in armonia con un proprio coerente e responsabile progetto di vita, nel rispetto degli altri e di se stessa. Né si insegna ai giovani che la volontà, esattamente come si fa con i muscoli in palestra, si può e si deve esercitare, affinché ci consenta di affrontare nelle giuste condizioni i passaggi impervi della vita.

Infine, si omette di ricordare ai giovani che la volontà è al servizio della libertà, ma non del libertinaggio; e che ciò che essi e i loro cattivi maestri chiamano libertà è, spesso, niente altro che libertinaggio, ossia il regno incontrastato dell'egoismo individuale.

 

Essere adolescente, oggi, è più difficile di quanto lo fosse due o tre generazioni fa; così come, del resto, è più difficile essere genitori.

I giovani sono esposti a una offensiva senza precedenti da parte dei meccanismi spersonalizzanti e deresponsabilizzanti insiti nella società di massa e portati alle vette più raffinate dalla omologazione consumistica. In breve, essi subiscono un quotidiano lavaggio del cervello, che è sistematico, capillare, diabolico nella sua astuta pervasività. 

A causa di esso, molti di loro hanno perduto, né più né meno, la gioia di vivere, e si sono precocemente ingrigiti e inariditi. Sempre più spesso finiscono per estraniarsi ed evadere nel mondo virtuale dell'informatica; per immedesimarsi, fino alla dissociazione schizofrenica, nei cosiddetti giochi di ruolo; per abbrutirsi nei tristissimi riti di un conformismo sempre più piatto, volgare e anti-umano.

Dietro l'apparenza della salute, del dinamismo e della spensieratezza, molti di loro covano una malattia orribile, che tende a divenire cronica: una generale stanchezza esistenziale. Non credono più in niente, non credono in se stessi; non si vogliono più bene; non sanno ascoltarsi, capirsi e perdonarsi. Si sentono come se qualcuno avesse infranto loro le ali, la voglia di volare. Sono sempre più tristi (nonostante la maschera dell'allegria forzata); sono disperati.

 

E gli adulti, davanti a tutto ciò, che cosa fanno?

Assolutamente niente.

Anzi, peggio che niente: continuano a ingannarli, lusingandoli con generiche parole d'ordine, quali: «largo ai giovani», «l'avvenire è dei giovani», «giovani è bello». Sciocchezze e menzogne a profusione, senza ritegno e senza decenza; frasi studiate per catturare le loro simpatie, per essere applauditi da loro senza alcuna fatica.

E senza assumersi alcuna responsabilità.

In una società che voglia sopravvivere, l'adulto deve assumersi delle responsabilità davanti ai bambini e ai ragazzi.

E, per farlo, deve anche correre il rischio di apparire impopolare; deve saper dire qualche no; deve fissare regole e paletti; deve dare, egli per primo, il buon esempio; deve saper dialogare, ma andando con franchezza fino al cuore dei problemi, e non riempiendosi la bocca di frasi fatte, il cui unico scopo è strappare il plauso dei più superficiali.

In una società che corre verso la propria rovina, l'adulto fa esattamente quello che stiamo facendo oggi: non parla mai del Bene e del Male; non parla mai della volontà; non parla mai della persona, ossia della creatura dotata di libero arbitrio.

Viceversa, si affretta ad esaudire ogni richiesta e ogni desiderio dei ragazzi, ansioso di ingraziarseli, di apparire simpatico e comprensivo. Di essere non un educatore conscio dei propri doveri, ma un complice e un amicone.

Quanti genitori, quanti preti, quanti insegnanti, hanno scelto questa strada: quella di atteggiarsi a complici e ad amiconi dei ragazzi!

E del male non parla più nessuno.

Baudelaire diceva che il miglior favore che si possa rendere al Diavolo è quello di non credere più alla sua esistenza. Noi potremmo aggiungere che il secondo favore che gli si possa fare è quello di non parlare più ai giovani del Bene e del Male.

Perfino nell'ambito della cultura religiosa - o forse, dovremmo dire, in ciò che ne rimane ancora, cioè non molto - non si parla quasi più di colpa e di peccato. Questi termini obsoleti e un poco arcigni sono stati sostituiti, se proprio è necessario alludervi, da quelli di sbaglio, di errore. Siccome in passato i cristiani hanno parlato troppo (o forse, più che troppo, ne hanno parlato male) del concetto di peccato, adesso si fa finta che il peccato non ci sia più.

Tuttavia, se si toglie l'idea di peccato - inteso come allontanamento consapevole dal bene insito nell'ordine divino - il cristianesimo, semplicemente,  cade. Non ne rimane più nulla, se non il guscio vuoto. Niente peccato, niente colpa; niente colpa, niente allontanamento da Dio; niente allontanamento da Dio, nessuna necessità di una redenzione.

Non si capisce bene, a questo punto, che cosa sia venuto a fare sulla Terra Gesù Cristo, né perché la sua incarnazione, passione, morte e resurrezione siano un fatto così importante. Tutto si riduce a delle cartoline un po' leziose, ma ormai così familiari e, perciò, rassicuranti: la cartolina del Natale, la cartolina della Pasqua.

Riti senza sostanza; se non, addirittura, puro e semplice consumismo.

 

Ci aspettano tempi duri.

Il progressivo esaurimento delle materie prime (e non solo il petrolio, ma anche l'acqua), l'aumento incontrollato della popolazione mondiale e la volontà delle nazioni emergenti, come Cina e India, di puntare a un livello di benessere simile al nostro, nonché le tensioni sociali che verranno innescate da una scriteriata politica di immigrazione, renderanno sempre più arduo assicurare a tutti gli esseri umani un posto di lavoro e una fonte di reddito dignitosa.

I nostri economisti e i nostri uomini politici continuano a parlare di ripresa e di espansione, ma adoperano concetti totalmente superati: uomini del XX secolo, non hanno compreso che tutto è cambiato, che il boom del benessere non può crescere all'infinito; che ci aspettano recessione, disoccupazione massiccia, tensioni politiche e sociali sempre più aspre.

Non l'hanno compreso, o - come è più probabile - lo hanno compreso fin troppo bene, e sono decisi a giocarsi gli ultimi spiccioli di potere e di benessere, ingannando deliberatamente le masse. Predicano l'ottimismo, confondendolo con l'irresponsabilità; e hanno anche già pronto un marchio d'infamia da appendere al collo di chi osa dubitare della loro ricetta, ossia una ostentata quanto generica «fiducia nel futuro»: li chiamano piagnoni, disfattisti, profeti di sventura, uccelli del malaugurio, quelli che «remano contro».

Hanno anche coniato un termine più ideologico e sferzante per metterli alla gogna: li chiamano catastrofisti.

Ma la realtà non si cura delle loro chiacchiere, e il tempo a nostra disposizione per prendere dei provvedimenti seri e delle efficaci contromisure, è già quasi scaduto. Lo scricchiolio delle banche americane è stato solo un primo segnale. È tutto l'edificio dell'economia mondiale che sta per crollare, minato da innumerevoli, piccole crepe che però, sommate, producono una fatale debolezza dell'intero sistema.

E noi adulti, di fronte a questa situazione, che cosa stiamo facendo per i giovani, al di là degli slogano demagogici e irresponsabili? In che modo li stiamo aiutando a prepararsi a fronteggiare i tempi durissimi che si annunciano da più segnali; quali coordinate morali stiamo loro insegnando affinché possano affrontare la tempesta rimanendo saldi sulle loro gambe, come la casa costruita sulla roccia, che non si lascia abbattere dai venti?

Niente: non stiamo facendo nulla di nulla.

Stiamo loro trasmettendo il messaggio opposto a quello di cui avrebbero estremo bisogno: che non esiste alcuna differenza tra Bene e Male; che tutto è uguale, purché consenta di realizzare i propri desideri; che la cosa più importante nella vita è soddisfare ogni capriccio, ogni impulso, ogni appetito.

E, così facendo, li stiamo mandando al macello.

 

È necessario, quindi, un soprassalto di orgoglio; un ritorno al senso di responsabilità.

Dobbiamo tornare a parlare del Bene e del Male; dobbiamo tornare a parlare della volontà; dobbiamo tornare a dare, noi per primi, il buon esempio, non a parole ma coi fatti.

Anche se non sembra, i giovani si aspettano questo cambiamento da parte nostra; non sanno che farsene di complici e amiconi di trenta, quaranta o cinquant'anni. Per questo, ci sono già i loro coetanei.

Forse non tutto è perduto, se ci riscuotiamo e torniamo ad assumere propositi più virili.

E, se non siamo capaci di farlo, smettiamola almeno di nasconderci dietro pretesti e menzogne d'ogni tipo: diversamente, oltre che in malafede, saremmo anche patetici.

Il re, e ormai lo possono vedere proprio tutti, è in mutande.

Possibile che non ci sia neppure un adulto disposto a dirlo ad alta voce?