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Tibet, primi ergastoli per le proteste anti cinesi di marzo

di Gian Micalessin - 15/10/2008

 

 

 

La leggenda è antica. Narra che lo Spirito libero del Tibet si nasconda tra i fondali dello Yamdrok Yumtso, il lago dello Scorpione, un bacino sperduto tra rocce e ghiacci a cinquemila metri d'altezza. A imprigionarlo ci pensano 1500 soldati cinesi mandati a circondarne le acque. A cancellarlo per sempre assieme alla leggenda sarà una diga. Svuoterà il lago, imbriglierà le acque farà girare le centrali elettriche progettate per placare la sete d'energia delle province occidentali cinesi. Ma nel Tibet occupato non si cancellano solo laghi e leggende. Prima di loro scompaiono in carcere monaci e dissidenti. Di otto dimostranti in tunica che lo scorsa primavera fecero tremare il sogno olimpico di Pechino conosciamo la sorte. Sono stati trascinati davanti ad un Tribunale del popolo, accusati di aver messo una bomba in un palazzo, condannati a durissime pene detentive che in due casi prevedono il carcere a vita. Poi c'è il dramma oscuro, denunciato all'Onu dal Centro Tibetano per la Democrazia e i diritti Umani, di mille fra monaci e semplici cittadini, svaniti nel nulla da sette mesi, da quando polizie e forze di sicurezza rastrellarono abitazioni e templi e trasferirono migliaia di sospetti in prigioni e campi di lavoro. I due monaci puniti con il carcere a vita e i loro sei compagni condannati a pene minori erano tutti accusati di aver fatto esplodere una bomba in un edificio della città cinese di Gyanbe, 1300 chilometri a est di Lhasa. La sentenza si riferisce probabilmente agli scontri del 23 marzo scorso, quando secondo gli organi ufficiali cinesi, monaci del tempio di Tongx nel Tibet orientale piazzarono un ordigno artigianale dentro il palazzo del governo di Gyanbe. Secondo Gang Weilai, giudice e presidente della Corte del popolo che ha emesso la sentenza, Gyurmey Dhondup e Kalsang Tsering, i due monaci condannati all'ergastolo hanno già confessato tutto. Gli altri, a cui sono toccate pene tra i cinque e i 15 anni, avrebbero collaborato al piano dei loro confratelli. «Volevamo accusarli di tentata secessione, ma alla fine abbiamo deciso di giudicarli esclusivamente per quell'attentato», ha dichiarato Gang Weilai. Le parole del giudice confermano l'uso della procedura comune in quasi tutti i procedimenti politici che prevede l'estorsione di una confessione preventiva sufficiente ad una condanna esemplare e poi il processo. «Il caso dimostra la necessità di invocare il diritto al libero accesso in Tibet per i giornalisti e agenzie dei diritti umani in grado di indagare sui casi di detenzione arbitraria e sui processi sommari», ha detto Stephanie Brigden direttrice della Campagna per un Tibet Libero. Giornalisti e mezzi d'informazione non sempre sono sufficienti per sfuggire alla morsa della repressione cinese. Lo sanno bene i confratelli e le famiglie di Thabkhey e Tsundue, i due monaci del monastero di Labrang che lo scorso sette aprile avvicinarono una delegazione di giornalisti stranieri arrivata nella contea di Sangchu per denunciare il clima di paura e la campagna di arresti e repressione lanciata da esercito e forze di polizia. I due pagarono caro il loro coraggio. Pochi giorni dopo vennero prelevati dalla polizia e a tutt'oggi nessuno conosce la loro sorte.