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Perché studiare?

di Michele Orsini - 16/10/2008

 

                                                                

 

Per ogni rovello sociale, sembra che la gente goda

tutti che dicono la loro, facciamo un bel coro

di opinioni fino a quando il fatto non è più di moda

 

                                                                        Giorgio Gaber

 

Di questi tempi gli attacchi rivolti al Ministro dell’Istruzione, Maria Stella Gelmini, non si contano.

Gliene hanno dette di tutti i colori. Uno degli aggettivi più gentili che le sono stati rivolti è: “superficiale”. Non è facile però capire il vero motivo di tale scelta semantica. Forse è solo un riflesso condizionato, forse molti pensano che una bella donna superficiale lo debba essere per forza. Non si capisce, anche perché l’accusa di superficialità è stata lanciata da più parti, ma poco o per nulla argomentata, ed è davvero un peccato, poiché l’accusa non sembra essere infondata, anzi; però andrebbe estesa alla quasi totalità delle persone che, in questo periodo, hanno detto la loro sul tema della scuola. Tutti a dire la loro su grembiulino, voto in condotta, maestro unico (o prevalente), sezioni primavera e chi più ne ha più ne metta: insomma tutti a cogliere l’inessenziale.

Tra i pochi che hanno fatto un passo in più lo psicanalista Claudio Risé che, sul Mattino di Napoli del 29 settembre, ha posto la domanda giusta: “a quali condizioni lo studente si rende disponibile ad apprendere?”. E’ del tutto inutile discutere di blocco del turnover e di lavagne interattive, se i giovani non hanno granché voglia di studiare. Non si usi, per favore, la parola “motivazione”, termine tecnico della psicologia di cui ormai si sono impadroniti i giornalisti sportivi…

I ragazzi non hanno voglia di studiare. Ci sono delle eccezioni, certo, dovute magari a caratteristiche della famiglia d’origine o del singolo individuo: siamo di fronte a quegli alunni che fanno la gioia degli insegnanti, ma nei successi dei quali hanno pochissimi meriti. Esistono poi ragazzi sui quali insistere è tempo perso, ma se si vuole una scuola di massa e dell’obbligo “provarci” anche con loro è un dovere, ed è indispensabile. Tra questi due estremi c’è la stragrande maggioranza formata da ragazzi e ragazze per i/le quali lo studio è o almeno potrebbe essere una priorità, anche se magari non la prima…un buon insegnante dovrebbe essere capace di spingere ad impegnarsi almeno una parte di loro.

Se i ragazzi non hanno voglia di studiare, si potrebbe tentare di spiegare loro perché debbano farlo. Appunto, perché mai dovrebbero farlo? Siamo sicuri che esistano davvero dei buoni motivi? Il successo personale? Suvvia, non scherziamo, per avere successo contano le raccomandazioni, mica le capacità! Allora per servire la Nazione? Disporre di “cervelli” non è forse importante, da un punto di vista strategico, per un Paese? Visto come l’Italia se li lascia scappare, è difficile da credere. Questi discorsi sulla Nazione, poi…è retorica fascista, non sia mai!

Le scuole elementari italiane sono tra le migliori al mondo, mentre i successivi gradi d’insegnamento danno risultati nettamente inferiori: ciò non stupisce, perché i bambini di 6 anni non mettono troppo in discussione le parole dei “grandi”, genitori e maestri che siano, mentre il periodo delle scuole medie corrisponde alla famigerata adolescenza, i ragazzini diventano spesso “problematici”, critici o addirittura ipercritici verso tutto ciò che viene dal mondo adulto.

Gli adulti, tanto la famiglia quanto le istituzioni, dovrebbero proporre agli adolescenti la propria visione del mondo, il che soddisferebbe un loro bisogno psicologico fondamentale: è possibile, infatti, formarsi un’identità prendendo posizione, favorevole o contraria che sia, rispetto all’ordine costituito, ma è molto difficile farlo in un ambiente culturale “non ideologico”, o per meglio dire nichilista, che dice cosa si può fare e come ma non azzarda mai spiegazioni sul perché. In queste condizioni i professori delle scuole medie sono chiamati ad un’impresa quasi disperata.

Negli Stati Uniti nessuno ha problemi a dire che il motivo per impegnarsi nello studio sta nel perseguimento del successo personale, poiché la cultura è sufficientemente impregnata di calvinismo da poter accettare che chi non ce la fa finisca male. In Italia è diverso, il successo è un argomento che usano i genitori con i loro figli (“studia per farti una posizione!”) o più raramente dagli insegnanti coi loro discenti, ma mai o quasi mai dai politici; non possono permetterselo, perché si attirerebbero le critiche tanto di chi trova la società americana intrinsecamente ingiusta, che di coloro che la considerano ideale poiché veramente meritocratica, come la nostra non è e forse non potrà mai essere.

In Corea del Nord, o a Cuba, al contrario, non ci si fa problemi ad affermare che l’impegno nello studio è cosa buona e giusta poiché è un modo di servire il Popolo. In Italia simili discorsi sono considerati più o meno come dei deliri, ma poi ci si lamenta perché “produciamo” (sic!) pochi laureati.

Si tratta d’ideologie contrapposte, che possono piacere o non piacere, ma hanno il pregio di essere almeno espresse esplicitamente, non sussurrate o sottintese come da noi.

Qui in Italia non si va oltre all’ideologia del diritto allo studio di cui ogni individuo sarebbe titolare.

Peccato che la scuola dell’obbligo costi (molto) e sia a carico delle famiglie.

In realtà che tutti vadano a scuola è utile non ad ogni individuo preso singolarmente, ma allo Stato. Per rendersi conto di ciò basta andare ad indagare le origini della scuola di massa: la frequenza obbligatoria è prima di tutto un metodo di controllo sociale, considerato indispensabile dopo l’inurbamento delle masse in seguito alla Rivoluzione Industriale. Bambini e ragazzi, costretti nelle aule, non possono andare in giro a fare danni (questo è il vero servizio pubblico: la scuola costa, ma sempre meno di una baby-sitter, da ciò tutte le polemiche sul tempo pieno…) inoltre si possono “socializzare”, ovvero si può insegnar loro l’autocontrollo necessario per sostituire il forte controllo esterno che caratterizzava, un tempo, la vita nelle campagne. Durkheim, per esempio, vedeva nell’istituzione della scolarizzazione universale lo strumento migliore per depotenziare il rischio che i giovani rappresentavano per la società.

La scuola nata su simili presupposti non poteva certo essere non ideologica, i valori etici trasmessi agli studenti erano ovviamente quelli della borghesia capitalista che a quei tempi era in grande ascesa. Per la possibilità stessa che i valori proposti dalla classe dominante fossero messi in discussione dai giovani, questi erano considerati pericolosi, sovversivi, inclini ad accogliere le tesi rivoluzionarie delle classi operaie. Tocqueville, descrivendo i moti del febbraio 1848, scrisse: “Di solito, sono i bambini di strada parigini che danno inizio all’insurrezione, e lo fanno con l’allegria degli scolari in vacanza”. Tali paure non erano del tutto infondate, se si pensa alla forte componente giovanile dei movimenti che a varie latitudini hanno portato a termine le rivoluzioni.

La scuola serviva allora pure a legittimare le divisioni sociali, facendo accettare ai figli della classe operaia la loro posizione subordinata. Di più, la scuola permetteva anche la formazione di una forza lavoro disciplinata e puntuale.

Per dare una giustificazione ideologica all’obbligo scolastico, nacque la favoletta della scuola come diritto, una favoletta tanto bella che ci credettero in molti e in molti ci credono tuttora: per fortuna ci sono ancor oggi molti insegnanti che intendono la loro opera come una missione. La vera funzione della scuola non è altro che quella di rendere ognuno “solo un mattone nel muro”. La cosa è ancora più grave nel caso di Paesi che si vantano di mettere i diritti dell’individuo sopra ogni cosa: se così fosse per davvero, la scuola dell’obbligo nemmeno esisterebbe.

Esiste, in conclusione, un motivo razionale per impegnarsi oggi nello studio? Un discorso da fare ai ragazzi potrebbe essere questo: “la conoscenza è un’arma, là fuori è una giungla, più saprete e più possibilità avrete di difendervi, innanzitutto capendo in tempo utile da chi vi conviene difendervi…e probabilmente vi toccherà difendervi, per paradosso, anche dallo Stato, proprio l’istituzione che vi obbliga ad andare a scuola!”. Non è un modo d’argomentare consono ad un ruolo ministeriale, certo. Magari qualche professore può esprimersi così in aula, pregando però i suoi studenti di non parlarne troppo in giro.