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Si può fermare il disastro? Uscire dalla globalizzazione

di Prem Shankar Jha - 17/10/2008

 
L'espansione del capitalismo globale e il cambiamento del clima sono sfide senza precedenti all'esistenza umana. E sono legate, perché una è responsabile dell'altra


L'epoca attuale è diversa da tutte le altre che la nostra specie ha conosciuto finora. Si distingue per tre sfide senza precedenti. Per la prima volta gli esseri umani non devono affrontare una sola minaccia alla loro esistenza, ma due. Per la prima volta queste minacce non riguardano una parte della razza umana, ma la sua interezza. E per la prima volta la rapidità con cui esse progrediscono non lascia all'umanità il tempo necessario - o ne lascia poco - per adattarsi o per prendere provvedimenti.

Entrambe le minacce provengono dalla globalizzazione e dal riscaldamento globale. Ciascuna, presa singolarmente, sarebbe una sfida tale da mettere a dura prova la capacità del genere umano di agire collettivamente. Ma non sono indipendenti l'una dall'altra. Al contrario, la prima è causa della seconda, che è la più grave. Combatterla è perciò infinitamente più difficile. Eppure dobbiamo farlo, se vogliamo sopravvivere.
Le due minacce sono legate ineluttabilmente l'una all'altra, poiché l'espansione inesorabile del capitalismo che sta dietro la globalizzazione è anche direttamente responsabile del riscaldamento globale.
Negli ultimi anni la parola globalizzazione è tra le più presenti nel discorso pubblico. Ma è anche una delle meno comprese. Infatti gran parte del dibattito ha riguardato il suo impatto economico sulla vita delle persone. Ancora adesso, pochi realizzano che questo fenomeno sta anche danneggiando i sistemi politici nazionali e internazionali. (...)
La globalizzazione sta distruggendo il «contenitore» dello stato-nazione, per usare come suo nuovo contenitore la maggior parte del globo. Per fare questo, sta devastando le istituzioni dello stato-nazione. E' responsabile della deindustrializzazione strisciante dei paesi industrializzati caratterizzati da salari alti e, allo stesso tempo, della frenetica industrializzazione della «periferia» precedentemente sottosviluppata; della crescita della disoccupazione cronica e della crescente condizione di insicurezza anche di chi ha un lavoro, e di una brusca crescita della disuguaglianza nella distribuzione del reddito nei paesi di vecchia e nuova industrializzazione.
La globalizzazione ha indebolito le istituzioni del welfare state: il sindacalismo, la contrattazione collettiva, il diritto all'assistenza sanitaria, alla casa, alla pensione. L'arretramento dello stato rispetto ai suoi obblighi sociali ha coinciso con la resa precipitosa di larga parte della sua sovranità economica; ciò ha pregiudicato la sua capacità di proteggere la popolazione dagli shock esterni. I governi non possono più imporre barriere tariffarie per proteggere il mercato interno, svalutare le loro monete per incrementare le esportazioni o avere grandi deficit di bilancio per finanziare sussidi o welfare nelle parti più povere del paese. È questo il motivo principale del senso di tradimento che si avverte nei paesi industrializzati. Combinato con una disoccupazione cronica, esso sta alimentando una rabbia che ora cerca capri espiatori.

Per la gioventù di oggi questo nuovo mondo è imprevedibile, insicuro e terrificante. Di conseguenza, sono sempre di più le persone che gli voltano le spalle e vivono volutamente in un «eterno presente». Una conseguenza di questa situazione è la svalutazione della storia. Nel suo libro ampiamente letto, The Age of Extremes, Eric Hobsbawm fa l'esempio di uno studente a New York il quale dopo una lezione gli chiese: «Lei ha fatto riferimento alla seconda guerra mondiale, professore: questo significa che ce n'è stata anche una prima?».

Riscaldamento globale

Il mondo ha risposto alla minaccia rappresentata dal riscaldamento globale in modo molto simile. Esso vede verso cosa sta correndo, ma non sa che farci. Perciò preferisce non sapere, e continuare a vivere nel più sicuro dei luoghi, l'eterno presente.
Due decenni di ricerca hanno permesso ai climatologi di definire la minaccia che il mondo ha di fronte. La crescita esponenziale della combustione di carburanti fossili, iniziata intorno al 1800, sta immettendo nell'atmosfera anidride carbonica in quantità che gli oceani e le foreste non riescono più ad assorbire. L'accumulo di questo e di altri gas serra, come il metano, sta intrappolando sempre di più il calore che la terra cerca di irradiare all'esterno, nello spazio, durante la notte. Il conseguente riscaldamento dell'atmosfera sta sciogliendo le calotte polari, riducendo i ghiacciai e riscaldando gli strati superiori dell'acqua degli oceani.
Fino a vent'anni fa la maggioranza degli scienziati riteneva che l'effetto principale, se non l'unico, sarebbe stato un aumento del livello dell'acqua fino a un metro entro la fine del XXI secolo, con la conseguente immersione di milioni di chilometri quadrati di terre basse. Tragico per gli abitanti di quelle zone, ma non una crisi insormontabile per la razza umana. Oggi essi sanno che la vera minaccia rappresentata dal riscaldamento globale è che a un certo punto la terra stessa comincerà a reagire all'aumento della temperatura dell'aria in modo tale da rendere inarrestabile il riscaldamento ulteriore. La neve e il ghiaccio riflettono il 90% del calore del sole. Perciò quando i ghiacciai e le calotte polari cominciano a ritirarsi, e le zone scure della superficie terrestre si espandono, la quantità di calore solare catturato dalla terra aumenta. Questo velocizza lo scioglimento del ghiaccio e fa aumentare ulteriormente le zone scure della superficie terrestre. Allo stesso modo lo strato superiore dell'oceano, diventando più caldo dell'acqua sottostante, cessa di fare da «lavandino».
In questa calotta di acqua calda, le sostanze nutritive presto si esauriranno. Le alghe che vivono grazie ad esse, e che garantiscono i due terzi dell'assorbimento di CO2, cominceranno a morire. Mentre il mare si trasformerà in un deserto, la CO2 si accumulerà nell'atmosfera con un ritmo sempre più veloce. Nessuno sa dove si fermerà questo processo. Ma episodi passati, come l'inizio dell'Eocene, un periodo molto caldo risalente a 55 milioni di anni fa, hanno visto un improvviso aumento della media di circa 8 gradi centigradi nelle regioni temperate, e di circa 5 gradi ai tropici. Ma la terra sarà inabitabile molto tempo prima che le temperature arrivino a quel punto.

Gli scienziati non sanno esattamente quale sia questo punto di non ritorno, a quale temperatura la terra si assumerà il compito di distruggere la civiltà umana. Ma quasi tutti ammettono che ci siamo vicini.
Una elaborata simulazione al computer i cui risultati sono stati pubblicati nel 1994 ha dimostrato che, quando la concentrazione di anidride carbonica nell'aria raggiungerà le 500 parti per milione, succederanno quasi simultaneamente due cose: lo strato di ghiaccio spesso 3.000 metri della Groenlandia comincerà a sciogliersi e le alghe dell'oceano cominceranno a morire. Questo corrisponderà a un aumento della temperatura dell'aria di circa tre gradi centigradi. Siamo già a 386 parti per milione, e solo negli ultimi trent'anni in Groenlandia e nelle regioni artiche le temperature sono già salite di quasi due gradi. Il Quarto rapporto del Comitato internazionale sul cambiamento climatico (Ipcc) ha previsto che entro il 2028 potrebbe verificarsi un ulteriore aumento da 0,8 a 1,6 gradi vicino al polo nord, e qualcosa di meno nell'Antartico. Non sorprende che il tasso annuale di scioglimento del ghiaccio sia raddoppiato nell'Oceano artico e triplicato in Groenlandia.

Non sappiamo nemmeno con precisione cosa succederà quando la terra oltrepasserà il punto di non ritorno. È certo però che anche azzerare l'emissione dei gas serra, se pure fosse possibile, non farebbe nessuna differenza per il nostro destino. E ancor peggio, i mutamenti che seguiranno non saranno graduali ma bruschi. I dati paleo-climatici degli ultimi 15.000 anni mostrano che quando la terra è entrata e uscita dalle ere glaciali, grandi e piccole, lo ha fatto in un periodo che va soltanto da tre decenni a un decennio. Dunque, una volta che i mutamenti saranno cominciati l'umanità avrà ben poco tempo per adattarsi al suo destino.
Quanto tempo ci resta? Alcuni stimati climatologi, come il britannico James Lovelock, credono che potremmo avere già oltrepassato quel punto. Ma anche il più prudente James Hansen, che nel giugno 1988 fu la prima persona a informare il senato Usa della minaccia proveniente dal riscaldamento globale, sostiene che abbiamo al massimo due decenni per far scendere la concentrazione di CO2 dalle attuali 386 parti per milione alle 350 parti del 1970. Può sembrare poco, ma richiede la riduzione drastica di circa l'80% delle emissioni di CO2 prima del 2050. Questo è l'obiettivo: molto più elevato del taglio del 50% suggerito dal G8 a Hokkaido in Giappone quest'estate.

Il problema è che questo risultato deve essere raggiunto malgrado una crescita economica inarrestabile. Perché la caratteristica del capitalismo, che lo rende unico sin dalla sua nascita 700 anni fa, è l'aver fatto dipendere la stabilità sociale, politica e internazionale (equilibrium) da un'espansione economica costante (disequilibrium). Perciò questo è il punto in cui le due sfide, apparentemente distanti, che l'umanità ha di fronte, diventano una cosa sola. Perché la globalizzazione sta indebolendo lo stato-nazione senza mettere niente al suo posto. Il «caos sistemico» che ne deriva ha reso ancor più difficile organizzare il consenso e la volontà politica intransigente di cui la comunità internazionale ha bisogno per impedire la catastrofe.

Una via d'uscita?

C'è dunque un modo per arrestare il riscaldamento globale nei prossimi due o tre decenni? L'unico antidoto concepibile al riscaldamento globale è smettere di usare combustibili fossili per generare energia, e passare a fonti alternative di energia entro i prossimi trent'anni, non più tardi. Ma gli unici carburanti che un mondo globalizzato e altamente competitivo accetterà sono quelli che non ridurranno i suoi profitti né eroderanno la sua competitività. Nessuna delle alternative attualmente in voga, l'energia eolica, solare e nucleare risponde a queste esigenze.
Insomma, un modo per arrestare il riscaldamento globale c'è: ma non sarà trovato finché il mondo accetterà i limiti che un sistema capitalistico globale impone alle nostre scelte e cercherà una risposta al loro interno. Il primo di essi è che fermare o comunque rallentare sensibilmente la crescita non è una opzione, poiché i conflitti che questo sistema alimenterà tra e nelle società renderanno impossibile promuovere azioni concertate. Il secondo è che la conservazione dell'energia, cui l'occidente sta dedicando la maggiore attenzione, non servirà nemmeno a rallentare sensibilmente la corsa verso il punto di non ritorno. Le proiezioni ampiamente citate di Exxon-Mobil sulle possibilità di conservazione dell'energia dimostrano che persino nello scenario più ottimistico le emissione di CO2 aumenteranno da circa 25 miliardi di tonnellate nel 2005 a 32 miliardi di tonnellate nel 2030. Per citare Hansen, questo è sufficiente a garantire che «saremo spacciati».


Traduzione di Marina Impallomeni