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Un quadro al giorno: Bosco di castagni sopra Stresa, di Guido Boggiani (1884)

di Francesco Lamendola - 17/10/2008

  

 

Abbiamo già avuto occasione di occuparci, in un precedente articolo, della singolare figura di Guido Boggiani, etnologo ed esploratore, tragicamente scomparso nel Gran Chaco all'alba del XX secolo, mentre si apprestava ad avvicinare una tribù fino ad allora sconosciuta (cfr. Ricordo di Guido Boggiani, pittore-esploratore, 1861-1901, consultabile sul sito di Arianna Editrice). Da esso riprendiamo alcune notizie biografiche, prima di passare a considerare l'altro aspetto della sua varia e ricca personalità: quello della produzione pittorica.

Era nato a Omegna, sul Lago d'Orta, nel 1861. Non era quello il paese natale dei genitori; la famiglia vi si trovava, semplicemente, in vacanza. Giuseppe Boggiani, suo padre, gli trasmise il gusto per il disegno e la pittura; da sua madre Adele, figlia di un famoso professore di zoologia, probabilmente ereditò una certa qual attitudine al lavoro scientificamente ordinato.

Nel 1878, a diciassette anni, si iscrisse all'Accademia di Brera ed ebbe un professore d'eccezione, il pittore Filippo Carcano, celebre soprattutto per i suoi paesaggi e le sue marine, incline alla tendenza divisionista impostasi in ambiente lombardo verso la fine dell'Ottocento. Nel 1881 espose alcuni quadri; nel 1883, a soli ventidue anni, vinse il premio "principe Umberto" con un dipinto divenuto famoso: La raccolta delle castagne. In questo quadro, che si trova nella Galleria d'Arte Moderna, a Roma, sono riassunti gli aspetti salienti del Boggiani pittore: amore sconfinato per la natura, intuizione vivissima dei giochi di luce, ariosità ed armonia del paesaggio; il tutto, forse, un po' a scapito della profondità dell'interpretazione. Per chi voglia farsene un'idea, l'opera è riprodotta - purtroppo in bianco e nero - nella Enciclopedia Italiana, alla voce Boggiani: riconoscimento non certo trascurabile del suo valore di artista.

Comunque, con La raccolta delle castagne il nome del Nostro s'impose definitivamente all'attenzione della critica, e da più parti egli venne salutato come la grande promessa nel futuro della pittura italiana. Socio onorario dell'Accademia di Brera (dalla quale era uscito dopo soli due anni), amico di Gabriele D'Annunzio, conosciuto personalmente dalla famiglia reale: la sua carriera di artista sembrava trionfalmente avviata. Invece…

Improvvisa, la decisione della partenza. Un taglio brusco, quasi violento col passato. Nel 1887 Boggiani s'imbarca per il Sud America e va a stabilirsi a Buenos Aires. Non ha scordato, tuttavia, la sua antica passione, e nella capitale della Repubblica argentina, sulle prime, espone i suoi quadri e continua a lavorare. Ma a Buenos Aires non si ferma più d'un anno; poi, la smania dei viaggi lo afferra nuovamente, lo trascina lontano dalla grande città, lontano da quel mondo affollato e convulso che non è se non la caricatura di quello che ha già lasciato, al di là dell'Oceano.

Nel 1888 è nell'alto Paraguay, regione a quel tempo ancor selvaggia e poco conosciuta, e ben presto comincia a organizzare le sue spedizioni etnografiche verso l'interno, fra le tribù indigene che hanno risentito finora in ben scarsa misura l'influsso della civiltà occidentale.

Nei suoi frequenti viaggi si sofferma specialmente fra i Ciamacoco del Gran Chaco e fra i Mbayà o Caduvei del Rio Nabileque, affluente del Paraguay, sull'orlo più meridionale del Mato Grosso.

La sua attività è molteplice: studia ad un tempo gli usi, i costumi, la lingua, i prodotti dell'artigianato degli indigeni con i quali viene a contatto; prende appunti preziosi, note di viaggio: articoli che verranno poi pubblicati da importanti riviste geografiche; compila dei vocabolari delle lingue indiane - lui quasi sprovvisto di nozioni linguistiche di tipo scientifico - che verranno poi giudicati dagli esperti dei piccoli capolavori d'intelligenza e d'intuizione; e, naturalmente, dipinge, ma soprattutto traccia una gran quantità di schizzi, disegni, bozzetti, che più tardi, tornato in patria, esporrà al pubblico.

Per sostenere le spese dei suoi viaggi, talvolta Boggiani deve impegnarsi in attività commerciali, come la compra-vendita di pelli pregiate; talvolta, seguendo gli usi del tempo, paga gl'indigeni con acquavite, cosa non certo encomiabile. Ovunque, però, riesce a farsi benvolere per la sua spontanea generosità e per le sue doti di umanità.

Nel 1893 torna in Italia, per un breve periodo di riposo e per riordinare il materiale etnografico raccolto. Pubblica, quindi, un Vocabolario dell'idioma Guanà (in Atti dell'Accademia dei Lincei, 1895); I Caduvei (in Memorie della Società Geografica Italiana, 1895); Viaggi di un artista nell'America meridionale: i Caduvei (Roma, 1895), la sua opera maggiore, illustrata da numerosi disegni e quadri dell'Autore. Intanto cede i manufatti raccolti al Museo preistorico-etnografico di Roma, tiene conferenze d'interesse geografico, espone al pubblico i suoi dipinti di soggetto sud-americano.

Nel 1895 prende parte al viaggio in Grecia di D'Annunzio sullo yacht Fantasia, insieme a noti esponenti del mondo dell'arte e della cultura, come Hérelle (il traduttore francese di D'Annunzio) e Scarfoglio. A Olimpia, si commuove fin quasi alle lacrime davanti all'Hermes di Prassitele. Scriverà: «L'ho toccato più volte, come si toccano le immagini divine…». 

Ma in settembre è di nuovo a Roma, per partecipare ai lavori del II Congresso Geografico Italiano, portandovi il contributo di ben tre comunicazioni: tutte di argomento sud-americano. Nel suo animo, il Paraguay sembra essere divenuto quasi un'ossessione; già lo avevano notato i suoi amici, durante il viaggio in Grecia. E finalmente, il 1° luglio 1896, riparte.

Nel 1897 è di nuovo tra i suoi vecchi amici Caduvei nel Mato Grosso; raccoglie informazioni sulla lingua, sulla manifattura, sulla religione; prende ancora una quantità di schizzi. Sono molte le spedizioni verso l'interno realizzate all'epoca da Boggiani, partendo dalla capitale Asunciòn. I vasti materiali raccolti li spedisce in Europa, ove sarebbero andati in parte al Museum für Völkerkunde di Berlino, in parte presso la Società Geografica Italiana.

Continua a scrivere: appaiono, in Italia, Nei dintorni di Corumba, nel Bollettino della Società Geografica Italiana, 1897; La questione dei confini tra le Repubbliche del Paraguay e della Bolivia, in Memorie della Società Geografica Italiana, 1897  (un'opera quasi profetica, visto che la questione di quei confini sarebbe sfociata poi nella sanguinosissima guerra del Chaco fra le due nazioni); Guaicurù, ivi, 1898. Fonda, ad Asunción, la rivista dell'Instituto paraguayo. E in tutte queste attività rivela non solo  una profonda conoscenza di prima mano dei problemi geografici ed etnografici affrontati, ma anche un vero talento di scrittore: vivacità, brio ed eleganza di stile, ottenuta senza alcuno sforzo o ricercatezza e ben diversa, quindi, dalla prosa del suo amico D'Annunzio.

Per dare un'idea della vastità dei suoi interessi e della multiforme, instancabile attività della sua mente, basti dire che in questo torno di tempo Boggiani scrive al suo amico francese Hérelle chiedendo che gli spedisca un testo di storia greca antica e moderna e una traduzione francese dell'Odissea, per distrarsi «dalla miseria di questa vita solitaria e triste., come scrive di suo pugno l'esploratore, rivelandoci un altro aspetto, tutto interiore e raccolto, della sua personalità.

Nell'estate del 1901 Boggiani ha stabilito di rientrare nuovamente in Italia, allorché gli giunge notizia di una tribù "selvaggia" dell'interno del Chaco, che da molto tempo desiderava avvicinare. Si tratta degli Indiani colà noti col nome generico di Moros, nomadi e, in confronto ai Caduvei, estremamente primitivi, temuti egualmente dai bianchi e dagli altri indigeni che li considerano inavvicinabili, crudeli e fors'anche cannibali. Il loro vero nome è Ayoréos; pochissimi Europei, da allora e fino ad anni recentissimi, hanno potuto vederli; tra quei pochi l'esploratore novarese Maurizio Leigheb, che all'inizio degli anni '70 del secolo trascorso, a rischio della vita è riuscito a prenderne alcune fotografie, prima di vederli scomparire nel folto del monte, ossia della foresta.

Nell'agosto del 1901 Boggiani lascia Asunción, ben deciso a stabilire un contatto con i Moros. Possiede una piccola scorta, che però, all'ingresso nella selva, viene rimandata indietro. Con lui non rimangono che un fido compagno, tal Gregorio Gavilàn, e alcuni Ciamacoco che dovrebbero far loro da guide.

Il 18 ottobre scrive un'ultima lettera al fratello Oliviero, in Italia, dicendosi intenzionato ad avanzare, a cavallo, sino in vista degli ultimi contrafforti orientali delle Ande, ossia ad attraversare tutto il Gran Chaco nel senso della longitudine, e riproponendosi di compiere delle scoperte notevoli presso quelle ancor sconosciute popolazioni.

Il 24 ottobre lascia, insieme al paraguayano Gavilàn e a quattro indiani Ciamacoco, la fattoria di Los Mèdanos, ultimo avamposto della civiltà in quelle regioni ancora selvagge. Da allora la spedizione sembra essere scomparsa nel nulla, come si fosse volatilizzata. Per mesi e mesi, nessuna notizia dell'esploratore e dei suoi compagni giunge a squarciare le sinistre ombre del mistero.

Il 18 giugno del 1902 parte da Asunción una spedizione di soccorso, guidata dal coraggioso spagnolo José Fernandez Cancio, e finalmente il mistero può essere chiarito.

Durante la sua marcia nel Chaco, Fernandez Cancio ha incontrato una tolderìa  (villaggio) dei Ciamacoco, presso i quali vengono rinvenuti vari oggetti appartenenti indiscutibilmente a Boggiani. Gli Indiani forniscono confuse spiegazioni alle domande che vengono fatte loro; da ultimo uno di essi, di nome Luciano, finisce per confessare la verità.

Per due mesi e mezzo Boggiani era vissuto fra i Ciamacoco, spostandosi in vari luoghi e raccogliendo materiale etnografico, scattando fotografie ed eseguendo pitture e disegni. Gl'Indiani gli si erano affezionati, ma erano anche terrorizzati dalla prospettiva dell'incontro coi Barbudos - com'essi chiamavano  i Moros o Ayoréos -, che l'italiano voleva ad ogni costo avvicinare. Nel gennaio del 1902, poiché Boggiani insisteva affinché lo guidassero presso quella tribù, i Ciamacoco lo avevano ucciso insieme a Gavilàn.

La spedizione di Fernandez Cancio ritrova quindi i resti dei due uomini. Il cranio di Boggiani presenta i segni inequivocabili di un colpo d'arma bianca alla tempia e di un ancor più terribile colpo di clava. Luciano viene assicurato alla giustizia, condotto ad Asunción, processato e imprigionato; ma più tardi riuscirà ad evadere, profittando di torbidi politici scoppiati nel Paraguay.

 

Ma ora vogliamo parlare del Boggiani pittore; e, più precisamente, del Boggiani pittore dei paesaggi prealpini del Lago Maggiore; ossia del giovane artista che, a poco più di vent'anni, si era fatto notare come uno dei migliori discepoli di Filippo Carcano ed era ormai avviato a una carriera di sicuro successo, se non l'avesse bruscamente interrotta partendo per il Sud America, appena ventiseienne, e lasciandosi afferrare dalla passione per le regioni più interne e meno conosciute, che non lo avrebbe mai più lasciato; e che lo avrebbe condotto, appena quarantenne, ad una tragica e solitaria fine.

Ha scritto il professor Emilio Malesani, già docente di Geografia a Parma (nella Enciclopedia Italiana, edizione 1949, vol. VII, p. 276):

 

Come pittore il Boggiani fu entusiasta amatore degli spettacoli naturali, che rappresentò in ariosi e spontanei paesaggi, nei quali la rapidissima intuizione degli effetti nuoce talvolta alla profondità dell'interpretazione.

 

E l'anonimo Autore  di un ottimo articolo sulla rivista medica Il giardino di Esculapio, Milano,  1951 (direttore C. Villani), n. 1, pp. 29-30:

 

Nel 1887, quando partì per l'Argentina, era già un pittore alla soglia delle celebrità. Nato a Omegna, sul lago d'Orta, nel 1861, aveva manifestato nella adolescenza una viva  inclinazione per la pittura ed era stato quindi mandato a diciassette anni a studiarla a Milano, all'Accademia di Brera, sotto la guida di Filippo Carcano, l'eccellente paesista che era allora fra i primi nella pittura lombarda e che apprezzò e amò quel ragazzo pieno d'ingegno e d'entusiasmo.

La rivelazione del suo talento d'astista si ebbe nel 1883, quando il suo Bosco di castagni richiamò la viva attenzione del pubblico  e della critica in quell'esposizione romana ove s'era anche affermata nella sua maggior potenza l'arte di Francesco Paolo Michetti col famoso Voto.  Ma egli aveva già esposto  prima, e negli anni seguenti altri quadri espose che gli meritarono a Milano il premio Principe Umberto e a Monaco una medaglia d'oro.

Edoardo Scarfoglio, in un articolo sulla morte del Boggiani, scriveva con una certa iperbolicità che quella esposizione era stata «una delle ultime grandi esplosioni  del genio italiano». E il giovine piemontese si recò nella capitale «con le mani piene di tutti i doni della gioventù  e di tutte le promesse della gloria. Fu un momento unico nella nuova esistenza di Roma. Per la prima volta forse, dopo gli splendori del Rinascimento, questa città ardeva e sfolgorava di una possente vita ideale…». A quella esposizione, dunque, fra i giovani che davano i primi passi, si presentò Guido Boggiani «co' suoi boschi di castagni pieni d'aria e di luce, con le sue visioni del Lago Maggiore armoniose e vibranti, co' suoi vent'anni (ne aveva ventidue) ardenti di fede ed assetati di bellezza. E noi lo accogliemmo con grida di gioia e lo salutammo fratello».

L'amicizia fu rapida e calda, come comportavano l'età, il temperamento e il comune amore del bello.

Michetti, di dieci anni maggiore, lo mise subito nel numero di quelli ch'egli invitava al suo convento di Francavilla, divenuto lieto ritrovo d'artisti e di scrittori, dove fu ospitato più volte e più a lungo Gabriele d'Annunzio Il quale, curioso e alquanto lezioso giornalista in quel tempo, tra versi e prose di miglior letteratura, in una corrispondenza da Pescara alla Tribuna, del 12 agosto 1885, firmata con lo pseudonimo di Filippo La Selvi, parlando del «cenacolo di Francavilla» annunciava prossimo l'arrivo di Francesco Paolo Tosti e di «altri eletti artisti… per inspirarsi o per riposare sotto li olivi che Guido Bioggiani ha dipinto».

E a Francavilla lo Scarfoglio visse con lui ore di cordiale confidenza che evocò nel sopra citato articolo, ricordando tra l'altro l'episodio della condanna a morte d'uno dei cani di Michetti troppo indocile eseguita dal narratore e dal  Boggiani con lungo patire della vittima e orrore finale degli uccisori. Strano episodio in una vita di serena intimità spirituale. «Quante volte, dopo aver corso il litorale solatio levando le allodole intorpidite dal sole, noi sedemmo alla foce del Foro fra i giunchi arsi dell'estate e i canneti mormoranti, col fucile fra le gambe, abbandonandoci alla voluttà della mistica rivelazione che è una delle necessità della giovinezza?».

Allora, «tra li olivi» delle colline francavillesi, la pittura pareva la sua grande dominante vocazione. Ma non la sola. (…)

Egli era snello e biondo, raffinato di gusti e di modi: quel che ci voleva perché l'ingegno trovasse più caldo favore e quel che di meno faceva presagire una vita da esploratore. E tuttavia un giorno si seppe che il signorile artista, fra i più degni d'ornare un salotto di belle dame dal nome aristocratico e dai piccanti capricci, s'era imbarcato per l'America meridionale e si recava in quell'Argentina a cui cominciavano ad affluire i contadini delle più povere regioni d'Italia in cerca d'un lavoro più sicuro e d'un meno gramo guadagno…

 

Il quadro che vogliamo prendere in considerazione è una tela ad olio di 98 x 200 cm., dipinta  nel 1884, intitolata Bosco di castagni sopra Stresa.; è custodito presso il Museo del Paesaggio di Pallanza, ed è un dono del comm. Marco De Marchi.

Il tema è lo stesso del più celebre La raccolta delle castagne, che abbiamo già ricordato sopra e che si trova presso la Galleria d'Arte moderna di Roma. Si direbbe che Boggiani fosse affascinato da quel particolare specie arborea e quella particolare stagione  dell'anno, tra la fine dell'estate e l'autunno, quando i possenti tronchi sono ombreggiati da un densissimo manto di fogliame e gli effetti di luce, nelle radure o sui margini del bosco, permettono di sviluppare al massimo i contrasti di colore.

La luce, infatti, e i contrasti cromatici di verde, giallo e arancio, sono i veri protagonisti di quest'opera che ha la leggerezza e la felicità di tocco di una poesia di Teocrito o di una musica di Vivaldi; e che riesce a creare un'atmosfera intensa e partecipe, pur escludendo totalmente la presenza della figura umana e anche quella degli animali domestici, così caratteristica, invece, di altri paesaggisti italiani dell'Ottocento, a cominciare da Fontanesi.

Ombra e luce giocano e si rincorrono sotto le chiome dei grandi alberi di castagno, le cui dense chiome si fondono le une nelle altre e pare si abbraccino, avvolgendo quest'angolo incantato in una atmosfera raccolta, di pace  e di quiete, ma anche pervasa dal vivo e gioioso respiro della natura. Più che Fontanesi, questo paesaggio ricorda certe atmosfere di Carducci, ad esempio il bosco di faggi e abeti della Carnia descritto ne Il comune rustico. Vogliamo dire che vi è,  in esso, certamente, un elemento tardo-romantico; ma, più ancora, vi è un elemento classicistico; e un altro che saremmo quasi tentati di definire impressionistico. Ha qualcosa della freschezza dei campi di papaveri di Renoir; evoca il profumo dell'erba, delle foglie, della terra, come solo riescono a fare i pittori che lavorano en plen air non solo con la testa, ma con tutta l'anima.

D'altra parte, non si tratta di un capolavoro.

Gli mancano, per essere tale, una certa qual profondità d'interpretazione; una capacità di filtrare e tradurre il dato immediato sensoriale - la festa, e quasi l'esplosione del colore e della luce - in un linguaggio mediato a fondo dall'artista e reso, perciò, universale. Guardandolo, non possiamo non ammirare la perizia tecnica e la scioltezza e la naturalezza della resa figurativa; ma, al tempo stesso, non possiamo fare a meno di intuire vagamente un vuoto, una mancanza, un qualcosa di non  interamente risolto ed espresso.

Il quadro è bello: troppo bello, quasi; ma della bellezza di una fotografia ben riuscita o, forse, di una cartolina sapientemente impostata. La freschezza, la spontaneità colpiscono di primo acchito; ma, in un secondo tempo, lasciano un po' freddi. Sentiamo di trovarci al di qua del confine - che esiste, anche se non sempre è ben definito - tra artigianato di alta qualità ed arte vera e propria. È la poesia, insomma, che difetta. I giochi di ombra e luce non bastano a creare un clima poetico compiuto e coinvolgente; sono solo il primo passo. Ma poi l'artista si ferma a mezza strada, e non procede oltre. Insomma, manca qualcosa; manca la vera poesia.

 

Lo stesso limite si trova nelle altre opere del periodo italiano - quelle del periodo sudamericano richiederebbero un discorso a parte.

Ne Le cave di Baveno, del 1881 (cm. 90 x 170, Museo del Paesaggio di Pallanza, dono del comm. De Marchi), il paesaggio è ancora più tradizionale, con la montagna sullo sfondo, il cielo e le nuvole a completare l'impianto costruttivo «classico»; così come fresco e vivo, ma ancor più tradizionale, è l'uso del colore.

Più originale, e forse più spontaneo, il dipinto Strada a Carciano, del 1882 (cm. 78 x 130, Museo del Paesaggio di Pallanza, dono del col. Oliviero Boggiani), dove il contrasto fra ombra e luce, nella stretta via di un paese di montagna popolato (insolitamente) di figure umane, di balconi di legno e di vasi di fiori alle finestre, è portato fino al limite del virtuosismo, creando una atmosfera intensamente suggestiva.

 

Forse, chissà, senza volerlo abbiamo sfiorato il grande segreto della vita di Guido Boggiani: quel colpo di testa inaspettato, quella partenza verso il Sud America degli indios più remoti, che lasciò di stucco amici e ammiratori dei dorati salotti romani.

Boggiani, forse, aveva compreso che non sarebbe riuscito a creare dei capolavori; che una fresca percezione della natura e un ottimo mestiere di colorista non bastano a raggiungere la vera arte: mentre questo, ormai, si aspettavano tutti dall'enfant prodige.

E allora, meglio cambiar vita e cambiar mestiere; meglio ricominciare daccapo dove nessuno ci conosce e nessuno ripone in noi eccessive aspettative. Meglio lasciare il rimpianto in quanti, conoscendoci, si aspettavano capolavori che non arriveranno.

Come aveva fatto, nel campo della poesia, Arthur Rmbaud, partendo per l'Africa e chiudendo per sempre, bruscamente, la sua stagione creativa.

E ancora, chissà: è uno spingersi troppo lontano vedere in quell'ultimo viaggio senza ritorno, fra i Moros del Gran Chaco, che nessuno mai aveva avvicinato prima, una sorta di cupio dissolvi, un inconscio desiderio di autodistruzione?

Ci si perdoni questo sconfinamento nel territorio ambiguo delle congetture e delle ipotesi indimostrabili.

Ma c'è, nella vita di Guido Boggiani - questo è evidente - un nucleo di mistero, che nessuno è mai riuscito a chiarire in modo soddisfacente (chiarire, si fa per dire: in fondo ad ogni essere umano c'è un mistero; più grande di ciò che egli stesso possa sospettare). Orbene, anche nella pittura di Guido Boggiani c'è qualcosa di non detto, di non svelato, di non risolto.

Come fare per sottrarsi alla tentazione di collegare le due cose: il mistero dell'uomo  e il mistero del pittore?

Ma, se la nostra ipotesi possiede un nucleo di verità, o almeno di verosimiglianza, allora dobbiamo concludere che Guido Boggiani, anche se non è stato un autore di capolavori, possedeva però l'animo esigente e intransigente dell'autentico artista.

Strano sarebbe stato, così stando le cose, vederlo indugiare nei salotti delle belle signore e negli eletti cenacoli decadentisti, accontentandosi di quella meta quasi raggiunta, di quella capacità espressiva quasi perfetta, che aveva ormai raggiunto.

Molto più logico vederlo partire per lidi lontani, fra popoli sconosciuti, cercando nello studio dei loro usi e costumi quelle risposte che non era riuscito a trovare nella propria vena artistica.