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La parabola del corporativismo novecentesco

di Sergio Romano - 18/10/2008

In questo momento di ormai feroce crisi economica, con una crescente contrapposizione tra rappresentanze politiche, economiche e sindacali, mi è tornato in mente un discorso di Benito Mussolini sul corporativismo. Il 31 luglio 1926 all'inaugurazione del nuovo ministero delle Corporazioni in Via XX Settembre a Roma, così lo elogiava: «È l'organo per cui al centro o alla periferia, si realizza la corporazione integrale, si attuano gli equilibri fra gli interessi e le forze del mondo economico...Perché solo lo Stato trascende gli interessi contrastanti dei singoli e dei gruppi, per coordinarli ad un fine superiore». Ma che cosa fu davvero il corporativismo?
Davvero si rivelò essere una fallimentare utopia di regime?
Possibile che questo tipo di regolamentazione statale dei rapporti tra le categorie lavorative non avesse alcun concreto aspetto positivo?


Mario Taliani ,

Caro Taliani,
Alle origini di qualsiasi movimento corporativo del XX secolo vi è il ricordo delle corporazioni medioevali: società di mestiere che stabilivano le regole per l'ammissione di nuovi membri, fissavano le procedure di lavorazione, gli standard di qualità dei prodotti, regolavano il rapporto gerarchico fra il maestro e l'apprendista ed erano in molti casi un veicolo per la rappresentanza politica di tutti coloro che ne facevano parte. Nella loro fase più dinamica ebbero il merito di fare dell'Italia una potenza commerciale, il Paese in cui si lavorava con maggiore perizia, soprattutto in alcuni settori: la lana, la seta, il vetro, il ferro delle armi e delle armature. Nella fase del loro declino divennero i gelosi custodi dello statu quo a difesa di gruppi familiari che trasmettevano i loro privilegi da una generazione all'altra. Come ricorda Ludovico Incisa nella voce «Corporativismo » del «Dizionario di Politica » edito oggi dalla Tea, le corporazioni furono travolte nell'Europa più avanzata da due grandi fenomeni del XVIII secolo: la rivoluzione industriale e la rivoluzione francese. La prima sgombrò il campo da tutto ciò che poteva frenare l'impetuosa crescita di nuove aziende. La seconda le sciolse in nome della libertà e della eguaglianza.
Le corporazioni divennero nuovamente di moda nella seconda metà dell'Ottocento grazie ad alcuni studiosi cattolici e soprattutto all'enciclica (la «Rerum Novarum ») con cui Leone XIII delineò la dottrina sociale della Chiesa. Mentre il socialismo predicava la lotta di classe, la Chiesa e i suoi intellettuali sognavano una società in cui datori di lavoro e lavoratori avrebbero convissuto all'interno di grandi associazioni e regolato insieme il problema dei profitti e delle perdite. Ma il momento di maggiore popolarità internazionale del corporativismo venne quando il regime fascista fece della corporazione la chiave di volta della sua politica economica. Con l'aiuto di un giurista nazionalista, Alfredo Rocco, Mussolini annunciò la nascita di un sistema in cui lo Stato avrebbe diretto dall'alto, con piglio sovietico, le sorti dell'economia nazionale e in cui gli industriali e i lavoratori dei diversi settori (il legno, la carta, il vetro, l'edilizia, la chimica, la siderurgia e così via) avrebbero operato armoniosamente per il bene della nazione. Nello Stato corporativo fascista molti osservatori stranieri e studiosi nazionali, anche cattolici, videro il superamento di tutto ciò che aveva maggiormente agitato le acque della politica europea negli anni precedenti: il capitalismo «rapace», l'individualismo sfrenato, la lotta di classe, il comunismo livellatore. Furono creati dapprima un Consiglio nazionale delle corporazioni, poi, al posto della Camera dei deputati, una Camera dei fasci e delle corporazioni. Vi furono imitazioni in molti Paesi e persino, per certi aspetti, nel programma iniziale di Franklin Delano Roosevelt dopo il suo ingresso alla Casa Bianca nel 1933. Il sistema creò un considerevole apparato burocratico, ma l'aereo continuò a rullare sulla pista senza decollare. Alla fine della guerra, quando fu necessario ricostruire tutto ciò che era stato distrutto, fu deciso che il capitalismo e il mercato, temperati dalle previdenze dello Stato assistenziale, sarebbero stati più efficaci. Questo non significa che il corporativismo sia morto. Gli ambiziosi progetti degli anni Trenta sono finiti negli archivi della Storia, ma in alcuni Paesi, fra cui l'Italia, il corporativismo sopravvive con le sue caratteristiche peggiori: quelle delle corporazioni medioevali nella fase in cui badavano soprattutto a conservare i privilegi dei loro soci.