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È possibile amare qualcuno e, nello stesso tempo, non stimarlo o perfino disprezzarlo?

di Francesco Lamendola - 20/10/2008

 

 

 

 

Nella LXXII poesia dei Carmina. Caio Valerio Catullo opera una radicale distinzione fra il sentimento dell'amore, inteso in senso puramente passionale, e quello del bene velle, ossia il voler bene arricchito dalla stima e dall'affetto per la persona amata.

 

Dicebas quondam solum te nosse Catullum,

Lesbia, nec prae me velle tenere Iovem.

Dilexi tum te non tantum ut vulgus amicam,

sed pater ut gratos diligit et generos.

Nunc te cognovi: quare etsi impensius uror;

multo mi tamen es vilior et levior.

Qui potis est? Inquis. Qod amantem iniuria talis

cogit amare magis, sed bene velle minus.

 

Diamo qui la traduzione di Enzo Mandruzzato (in: Catullo, I canti, a cura di Alfonso Traina, Rizzoli Editore, Milano, 1982; Fratelli Fabbri Editori, 1994, pp. 314-15):

 

Una volta dicevi, Lesbia: «Per me non c'è che Catullo,

neanche Giove vorrei al posto suo».

A quel tempo t'amavo, non come la gente un'amante,

ma come un padre ama i figli, ama i generi.

Adesso ti conosco. Per questo, se brucio di più,

mi vali molto meno. Mi sei molto di meno.

«È tanto strano». Ma un'offesa così ti costringe

ad amare di più e a voler bene meno.

 

Vorremmo pertanto riflettere su questo problema: se sia possibile amare una persona e, nello stesso, stimarla poco, non volerle più bene, o, addirittura, disprezzarla; problema che non è affatto teorico e astratto, ma che - lo possiamo vedere tutti i giorni e, forse, anche nella nostra stessa esperienza personale - riveste una immensa importanza pratica, nel contesto della vita affettiva.

Il lettore che ci abbia sin qui seguito negli ultimi anni, forse ricorderà un nostro articolo intitolato Amore passionale, un'invenzione della modernità? (consultabile sempre sul sito di Arianna Editrice), nel quale sostenevamo, in buona sostanza, che l'amore passionale è, in larga misura, una creazione dell'Occidente moderno, eretta al rango di Moloch crudele, al quale vengono offerti  sacrifici e tributati omaggi, pur mostrandosi ogni giorno lo spettacolo cruento delle vittime che esso esige, e di cui sono piene le pagine di cronaca e i notiziari del telegiornale.

E l'Occidente avrebbe fatto questo nel contesto della frustrazione, della rabbia repressa, dell'infelicità, che il modo di vita moderno produce, ossia come risposta - nevrotica e distruttiva - a  un generale sentimento di angoscia e infelicità che à, a sua volta, il prodotto dello spirito della modernità, i cui caratteri essenziali si possono ricondurre a questi cinque punti qualificanti:

1)      la sete di conoscenza-dominio sul mondo naturale;

2)      un aristocraticismo venato di profondo disprezzo per le masse;

3)      una crescita ipertrofica dell'Ego individuale;

4)      uno stravolgimento e una perversione della normale libido sessuale;

5)      un pragmatismo e un utilitarismo ipocritamente mascherati da moralismo.

A nostro avviso, l'amore passione tanto esaltato e tanto sbandierato dalla letteratura e dal cinema non è affatto indice di amore per la vita, ma una sua segreta, violenta e radicale negazione. Coloro che oggi esaltano la «bellezza» dell'amore passionale e coloro che vi si gettano a capofitto, convinti di vivere esperienze uniche e, anzi, le sole capaci di dare un senso alla propria vita, non si rendono conto di comportarsi come quegli sprovveduti che, con giovanile incoscienza e per noia esistenziale, si baloccano con le sedute spiritiche e l'evocazione dei morti e dei demoni: scatenano, cioè, delle entità terribili, capaci di distruggerne le menti, di annullarne le volontà, di spegnerne per sempre ogni possibilità di pace e serenità. È un gioco pericolosissimo, che si sa come incomincia ma si ignora dove, quando e come avrà fine; un gioco al massacro dal quale non si ritorna mai indenni.

Ma, se questo è vero; e se sono vere le tesi di Denis de Rongement., secondo il quale l'amore, così come noi lo conosciamo in Occidente, è una invenzione dei trovatori medioevali e, in parte, del Catarismo, con il suo rigido dualismo e con l'idea di trasgressione che la ricerca dei piaceri terreni reca inevitabilmente con sé; allora come accade che Catullo, un poeta latino dell'età di Cesare, sia divenuto famoso proprio per il suo disperato amore passionale per la bellissima Lesbia, cui ha dedicato le sue più belle poesie?

In effetti, Catullo - come abbiamo precisato fin dall'inizio, e come si evince dal testo poetico sopra riportato - aveva una lucidissima consapevolezza che la dimensione passionale del suo amore era scissa dall'amore più vero e profondo, che è fatto di tenerezza, rispetto, stima e affetto per la persona amata; in altre parole, che era un furiosa tempesta dei sensi, ma non vero amore. E, da buon Romano, se ne vergognava non poco: perché innamorarsi a quel modo era considerata cosa poco virile e indegna di un uomo che sa stare al mondo. Né i Greci, maestri dei Romani, la pensavano diversamente: sia per quanto riguardava le relazioni eterosessuali, sia per quanto riguardava quelle omosessuali (a prescindere dal fatto di considerare queste ultime, come nel caso di Platone, superiori alle prime, o viceversa).

Non è un gioco di parole.

Non vogliamo certo dire che, se l'amore-passione non è vero amore, allora il problema non esiste; il problema esiste ed esisterà sempre, finché ci saranno uomini e donne che ne subiranno il fascino. E non vogliamo nemmeno domandarci perché esso sia tanto magnificato dai moderni, mentre gli antichi lo tenevano in pochissima considerazione: crediamo, infatti, di avere già risposto, almeno in termini generali, a questo interrogativo.

La cosa su cui vorremmo riflettere è come possano coabitare l'amore passionale e la disistima o il disprezzo dell'altro, all'interno di un rapporto affettivo che sia, anche, ragionevolmente equilibrato e almeno parzialmente armonioso e gratificante.

Ora, il fatto che tale coabitazione, di fatto, si verifica abbastanza di frequente, ci sembra indicare che - sempre parlando in generale - i rapporti affettivi propri della modernità si vanno facendo sempre più spesso disarmonici e squilibrati: causa ed effetto, al tempo stesso, di una disarmonia e di uno squilibrio di fondo che sono costituitivi della modernità stessa. E l'esaltazione irresponsabile e compiaciuta dell'amore passionale - che lo scrittore francese Raymond Radiguet, nel 1923, ha così efficacemente descritto nel romanzo Il diavolo in corpo, e il regista Claude Autant-Lara ha trasposto sul grande schermo, nel 1947 - ne è la prova: visto che, in una società normale, le cose buone vengono celebrate, e quelle cattive sono oggetto di riprovazione.

Anche Alberto Moravia, nel romanzo Il disprezzo, ha descritto una relazione amorosa in cui un uomo insegue disperatamente una donna che non solo ha cessato di amarlo, ma finisce per disprezzarlo profondamente. Qui, però, la situazione è più semplice e più banale di quella descritta da Catullo (ed è la differenza fra un grande poeta e un romanziere mediocre ed enormemente sopravvalutato): non vi è nulla di particolarmente insolito, purtroppo,  nel fatto che una persona ne ami un'altra ma ne riceva, in cambio, solamente disprezzo; ben più strano è il fatto che una persona ne ami un'altra e, contemporaneamente, non le voglia bene, la disistimi o la disprezzi. Questa, sì, è una situazione esplosiva, potenzialmente schizofrenica: perché, se è vero che le nostre passioni ci spingono a immedesimarci, idealmente, con l'oggetto verso cui sono dirette, allora accade che una persona ami e disprezzi se stessa, nello stesso tempo. E ciò comporta una vera e propria scissione dell'io, una deflagrazione dell'unità della persona.

Torniamo, quindi, al problema di fondo; da qualunque punto della circonferenza si parta, sempre si ritorna al centro: la tendenza necrofila della civiltà moderna, la sua mancanza di amore per la vita, che impregna i singoli individui con il disamore verso se stessi. Se le persone si volessero un po' più di bene, non avrebbero la predisposizione a infiammarsi d'amore per delle altre persone cui non vogliono bene, che in fondo disprezzano e dalle quali sanno che riceveranno solo sofferenze e umiliazioni (cfr. anche il nostro precedente scritto: La « Venere infernale » come pedina diabolica nella partita che ha per posta l'anima dell'uomo, sempre sul sito di Arianna Editrice).

Ma certo non possiamo tirare la comoda conclusione che, se le persone non si vogliono bene e, perciò, tendono a infliggersi sofferenze mediante rapporti affettivi sbagliati e masochisti, la colpa è tutta della società è, quindi, non c'è niente da fare e tanto vale rassegnarsi al destino. Nossignori: la società è fatta di uomini; e anche i caratteri distruttivi della modernità sono opera dei pensieri e dei comportamenti umani: pertanto, sono modificabili e migliorabili.

Inoltre, se ci si domanda perché tante persone, oggi, non si vogliono più bene, non si tarderà a rendersi conto che il fenomeno ha origine nell'adolescenza. Il bambino, in condizioni familiari normali, sta bene al mondo: ci si trova a suo agio, ci si muove con relativa disinvoltura; percepisce le cose, in linea di massima, come amiche. L'adolescente, invece, sta male con il mondo e con se stesso: non gli piace la realtà che lo circonda e, in fondo, non gli piace nemmeno se stesso. E questo fenomeno, pur se presenta tratti legati alla psicologia della crescita in quanto tale, si è enormemente accentuato, crediamo, proprio a partire dalla modernità; per poi prendere una piega pericolosissima,  nel corso delle ultime due generazioni.

Strana contraddizione! Proprio nell'epoca in cui gli adolescenti sembrano essere al centro dell'attenzione della società, essi si trovano a vivere una crisi che non è soltanto fisiologica, ma storica: la crisi degli adolescenti della società «del benessere». E questa crisi., che al tempo dei nostri nonni rientrava gradualmente con l'ingresso nell'età adulta, oggi tende a cristallizzarsi e a prolungarsi artificialmente per tutto il resta della vita. Gli adulti che non si vogliono bene sono degli adolescenti il cui sviluppo psicologico e affettivo si è bloccato, e nei quali la crisi «di passaggio» dall'infanzia alla maturità è divenuta una condizione permanente e immodificabile.

 

Se questo è vero, allora possiamo incominciare a intravedere, forse, un po' di luce nella buia galleria che, presentemente, stiamo attraversando. Sappiamo, per lo meno, da dove ha origine il disagio di molte persone; da dove si alimenta il loro disamore per se stesse, e il loro bisogno patologico di aggrapparsi a qualcuno cui non vogliono bene, ma che le attrae, come la luce della lampada attrae le falene che, su di essa, finiranno per bruciarsi a morte.

L'adolescente si sente in distonia col mondo perché non lo trova all'altezza dei suoi sogni, dei suoi desideri e delle sue aspirazioni. Restituire fiducia in se stessi e gioia di vivere agli adolescenti,  significa mostrare loro attraverso quali vie essi possono dare un senso alla propria vita, ristabilendo il legame incrinato con il mondo esterno e ritrovando motivi di autostima nell'agire in mezzo al mondo che è dato loro, per modificarlo con pazienza e con amore. Se l'adolescente riesce a ricostituire un dialogo con il mondo che lo circonda - che è poi, il mondo degli adulti - egli potrà elaborare una propria via personale verso la realizzazione di sé, divenendo a sua volta un adulto soddisfatto della propria vita (il che non significa, come vorrebbe certa psicologia pragmatista, pronto a dire di sì a tutte le forme dell'esistente).

Ecco, forse la crisi adolescenziale si è trasformata da fisiologica a storica negli anni intorno al Sessantoito, quando lo slogan di tanti cattivi maestri è stato: vogliamo tutto e subito. Poiché, ovviamente, il «tutto e subito» non è arrivato, molti giovani hanno cominciato a covare un sordo rancore contro la società, contro la vita e, in fondo, contro se stessi. Divenuti degli adulti disperati, hanno messo al mondo dei figli ai quali hanno trasmesso la loro sorda disperazione. Magari erano persone socialmente arrivate, economicamente benestanti e, in apparenza, perfettamente inserite nella società; ma, in fondo all'anima, erano dei disperati, i figli non meno dei padri.

E questo terribile morbo, il morbo della disperazione - cioè, alla lettera, la mancanza di speranza nel futuro - si è trasmesso anche ai loro nipoti: ed essi sono gli adolescenti del terzo millennio, ricchi di oggetti materiali, ma affettivamente e spiritualmente poverissimi - e sempre più a disagio nel mondo in cui si trovano a vivere.

Se vogliamo interrompere la catena infernale, dobbiamo rimboccarci le maniche e insegnare ai giovani d'oggi che la filosofia del «tutto e subito» è una filosofia tanto sbagliata, quanto lo è quella dell'adattamento passivo (e, magari, furbesco) allo stato di cose esistente. L'una pecca di rivoluzionarismo velleitario, l'altra di fatalismo rinunciatario.

La saggezza della vita, in fondo, consiste in questo: nel comprendere che in tanto noi possiamo godere dalla vita, in quanto siamo disposti ad impegnarci per migliorare noi stessi, affinando le nostre potenzialità ed espandendo il nostro livello di consapevolezza, in un rapporto di dono reciproco con la realtà esterna. Chi non sa dare, non potrà ricevere; e chi vuol ricevere tutto e subito (e, magari, senza sforzo e sacrificio personale), non otterrà nulla. Imparare a vedere i lati belli della vita è cosa che nasce dalla soddisfazione del lavoro, dell'impegno e, più importante di tutto, dalla capacità di stupirsi e di vedere la bellezza, anche quando essa riveste gli abiti apparentemente umili delle cose d'ogni giorno.

Chi sa stupirsi, sa godere della vita; e chi sa godere della vita, la ama, e vuol bene anche a se stesso. Infine, chi vuol bene a se stesso vuol bene anche all'altro: non lo cerca per stordirsi in una passione travolgente che somiglia a una droga, ma per completarsi armoniosamente e per arricchirsi nel  rapporto con lui.

Una persona così non farà l'esperienza schizofrenica di amare e disprezzare, nello stesso tempo, la persona amata.

Non la farà perché, volendosi bene, cercherà di unire la sua strada soltanto a quella delle persone che riterrà degne della sua stima, della sua tenerezza e del suo affetto.