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Acqua ostaggio delle spa: il riscatto è salato

di Saverio Monno - 20/10/2008

 
 

“Utile, humile, pretiosa et casta”. Sono gli aggettivi che Francesco d’Assisi dedica all’acqua nel suo “cantico delle creature”. Tutto è cambiato da allora e l’acqua non ha fatto eccezione. Oggi è un grande affare, un business attraverso cui controllare la collettività. Una preziosa fonte di ricavo che in Italia alimenta un giro d’affari superiore ai 10 miliardi di euro. Sorella acqua è a tutti gli effetti un prodotto da s.p.a. Dall’igiene personale agli usi in cucina e dalla pulizia della casa all’irrigazione delle piante, passando per lavastoviglie e lavatrici, sembra che in media ogni italiano consumi dai 170 ai 200 litri d’acqua giornalieri [fonte: istituto ambiente Italia-Dexia – Ecosistema urbano Europa]. Il dato sarebbe già di per sé abbastanza critico, se non fosse che queste cifre, in realtà, non riflettono la totalità dei consumi. Tenuto conto, infatti, che circa l’87% dei nostri connazionali è solito bere acqua in bottiglia e che il consumo medio giornaliero di acque minerali si attesta sopra il mezzo litro pro capite, al computo del consumo medio annuo bisogna aggiungere i quasi 194 litri (fonte: ISTAT) che non sgorgano dal rubinetto di casa.

Nel corso degli ultimi mesi, anche per effetto della crisi economica in atto, ci si attendeva una flessione delle vendite delle minerali, magari a vantaggio di un “meno” oneroso consumo domestico. Ma per il consumatore italiano, l’acqua minerale, liscia o gassata che sia, non si tocca, ed il risparmio, se indispensabile, va ricercato – spesso a malincuore – in tutta una serie di sprechi, derivanti da riconosciute cattive abitudini. Nel frattempo, se da una parte le s.p.a. delle “bollicine”, possono rallegrarsi dell’ottimo stato di salute e continuare quella cavalcata trionfale che, dal 1985 ad oggi ha condotto ad una progressiva quanto inesorabile estensione dei consumi (più che triplicati), dall’altra, il ricorso spropositato alle minerali conferma la diffidenza dei cittadini; non solo verso le reti idriche locali, ma anche nei confronti delle istituzioni, evidentemente carenti nel controllare e garantire il sistema.

Ad allontanare l’italiano “assetato” dal rubinetto di casa, dunque, non è una questione di gusto. Il sapore dell’acqua ha un ruolo marginale e, come sostenuto anche da Legambiente, “a mettere in discussione il consumo domestico di potabile è la paura della potabile”. Nell’incertezza quindi, meglio una bottiglia sigillata. Magari povera di sodio, con poche o tante bolle, che aiuti la diuresi: un’acqua che sia salutare, come quella della pubblicità. Già, la pubblicità. Martellante, ossessiva, opprimente, seconda solo al ricchissimo settore della telefonia mobile, la pressione promozionale del settore, stando alle stime di Altreconomia, ha sviluppato nell’arco del solo 2006, una mole d’affari superiore ai 200 milioni di euro. Cifre da capogiro in un campo in cui i quattrini zampillano quasi quanto l’acqua.

Un giro immenso di denaro reso agevole da una politica scellerata in materia di concessioni per lo sfruttamento idrico. Grazie ai profitti che potrebbero derivare da una gestione più vigile dell’affare acqua, le regioni dormirebbero sonni più tranquilli. Eppure i canoni incassati per lo sfruttamento di questa grande risorsa sono a dir poco irrilevanti, almeno quanto i numeri degli occupati in un settore che predilige tecnologie avanzate al lavoro umano. Generalmente le concessioni prevedono canoni forfettari che consentono alle grandi multinazionali di poter attingere acqua alla fonte, quasi gratuitamente.

Ad oggi, infatti, sono solo 8 le Regioni in cui è previsto un pagamento proporzionale agli ettari in concessione e ai consumi. E’ il caso della Basilicata, Campania, Lazio, Lombardia, Marche, Piemonte, Umbria e Veneto. Anche se, nei fatti, si tratta di cifre oltraggiose, come i 5 centesimi ogni mille litri in Campania o i 30 centesimi della Basilicata. Nel Lazio si pagano invece 2 euro e la cifra varia se si utilizza il vetro per le bottiglie o se si attua il servizio di “vuoto a rendere”. Ad oggi il canone più “salato” per volume imbottigliato si paga in Veneto, con 3 euro ogni mille litri. Ma il vero scandalo è che nella maggior parte dei casi le imprese hanno la possibilità di fare auto-lettura sul consumato. Il contributo versato alle regioni, infatti, non è riferito all’emunto (la quantità concretamente prelevata), ma alla quantità effettivamente imbottigliata.

Se in un primo momento il volume d’affari, relativamente basso, poteva legittimare, in qualche modo, il generoso “regalo” della politica alle aziende del settore, il successivo ampliamento del mercato ed il deciso innalzamento dei consumi, spianavano la strada a numerosi dubbi sull’effettiva razionalità del regime delle concessioni. In fondo, la normativa nazionale – ed un pizzico di buonsenso – prevede che “l’acqua sia un bene di pubblico interesse”, che deve essere garantita a tutti. Per quale motivo allora, favorire la formazione di sacche di privilegiati, liberi di trarre profitti spropositati da risorse appartenenti all’intera collettività?

La spiegazione è goffamente ermetica. Sembra infatti che, proprio in virtù dell’interesse pubblico delle risorse idriche e della necessità che queste siano accessibili a tutti, i canoni di concessione non possano essere aumentati in modo indiscriminato. L’acqua è di tutti, è per questo quindi, che non si possono aumentare i canoni di concessione. Sarebbe un furto. E’ per essere sicuri di non sbagliare allora, per non fare un torto a nessuno, che gli enti regionali hanno opposto ai ricavi forsennati delle imprese il giogo pesante del laissez faire.

Tra i sostenitori della necessità di un accesso aperto e generalizzato all’acqua, non poteva mancare un convinto no-global come Giulio Tremonti. Il ministro dell’economia, infatti, evidentemente pago dell’andamento degli affari nel campo delle minerali, ha pensato bene di consegnare ai privati tutta la gestione dei servizi idrici (precedentemente affidati alle cure di società ad hoc comunque controllate da enti locali), sancendo di fatto, con l’art. 23 bis del decreto legge numero 112 del 5 agosto 2008, la privatizzazione dell’acqua e la sottomissione del prezioso “bene” alle regole dell’economia capitalistica. D’altra parte perché lasciare ai privati solo i ricavi dell’acqua in bottiglia quando possiamo dare loro anche quelli dell’acqua del rubinetto?

Come se non bastasse, in settimana, un’indagine dell’Osservatorio Prezzi e Tariffe di Cittadinanzattiva, che ha preso in esame, per tutti i capoluoghi di provincia italiani, il servizio idrico integrato (acquedotto, canone di fognatura, canone di depurazione e quota fissa o ex nolo contatori), denunciava gli aumenti indiscriminati delle bollette, che nel corso degli ultimi sei anni avrebbero registrato un tornito +32%, con un +4,6% raggiunto nel solo biennio 2006/2007. In soldoni, nel corso dell’anno una famiglia sostiene in media 229 euro di spesa per il servizio idrico integrato. In media.

Se analizziamo nel dettaglio l’andamento delle tariffe sul territorio nazionale, c’è da confrontarsi con un quadro più che allarmante. Le tariffe variano nettamente da regione a regione: Agrigento, per citarne una, è la città in cui l’acqua è più cara (445 euro annui), con tariffe 4 volte più costose di Milano che, con una spesa annua di 106 euro, risulta invece la città meno cara. Differenze elevate anche all’interno della stessa regione: sempre in Sicilia, tra Agrigento e Catania la differenza di spesa annua per il servizio idrico raggiunge i 269 euro. Per quel che riguarda gli sprechi, sembra che questi crescano assieme alla bolletta.

Ma in generale, dal rapporto, risulta che il 35% dell’acqua immessa nelle tubature sia persa. Il problema è particolarmente accentuato nelle regioni meridionali (49%) con evidenti e notevoli “criticità” come il caso dell’acquedotto pugliese, dove alla seconda spesa più elevata corrisponde una percentuale di perdita d’acqua ben superiore alla media. “Al Governo e al Parlamento chiediamo il blocco delle tariffe dell’acqua fino a tutto il 2009”, ha detto il responsabile nazionale delle politiche dei consumatori, Giustino Trincia, che ha consegnato l’indagine al ministro dello sviluppo economico Claudio Scajola. “E’ indispensabile, inoltre - ha aggiunto - l’istituzione di un’Autorità di regolazione del settore idrico con reali poteri d’intervento per mettere fine alla scandalosa jungla di tariffe, contratti e bollette”.

“Privato è bello!” è questa la filosofia di un governo che ha iniziato una sapiente opera di demolizione dello Stato. Si cerca di convincere gli elettori che la pubblica amministrazione sia una macchina costosa ed inefficace. Un peso nella corsa italiana al progresso. S’invocano privatizzazioni in un mercato che la politica, a qualsiasi livello, non ha saputo gestire, si consente ai privati di instaurare nuovi trust sulle ceneri di monopoli pubblici, il tutto nel tentativo di persuadere l’opinione pubblica che questo porterà a grossi risparmi, a nuovi posti di lavoro, ad una maggiore funzionalità del sistema.

La litania la conosciamo. Il problema è che i tempi sono cambiati e non c’è margine d’errore. Fino a pochi anni fa l’idea di restare “a pane e acqua” appariva un’ipotesi di estrema povertà; oggi, visti i tempi, anche questa possibilità sembra destinata a rivelarsi un lusso, riservato ad una sempre più sparuta cerchia di fortunati. Il pane ormai è un lusso: anche l’acqua diventerà roba da ricchi?