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Una pagina al giorno: la scoperta d'un corpo femminile, di Dacia Maraini

di Francesco Lamendola - 21/10/2008

 

   

Così descrive la «scoperta» del corpo dell'altra, nel romanzo Lettere a Marina, Dacia Maraini (Bompiani Editore, Milano, 1981, pp. 29-34):

Cara Marina
prima ancora di conoscerti quando Fiammetta mi parlava di te il tuo nome mi faceva pensare a un acciottolato appena coperta da un'acqua fresca e lucente un fondo pietroso su cui le onde scivolano e cascano mollemente. Poi da quando ti ho conosciuta in quel fondo marino sono sbucate fuori delle ombre inquietanti. Ricordo una volta che staccavo un riccio da uno scoglio sott'acqua e improvvisamente vidi sgusciare fuori da una fenditura scura un'anguilla gigantesca  impetuosa e furente. Mi tirai indietro appena in tempo.  Sai che le anguille di mare sono feroci e possono mordere  hanno una bocca grande e robusta piena di denti.
Dunque quella sera in casa di Alda e Bice abbiamo parlato di amore di cosa sia l'amore per un'altra donna. Alda raccontava di come si era innamorata di Bice durante un viaggio in Inghilterra  in cui si erano trovate senza soldi a dormire in un ostello della gioventù.  Fiammetta raccontava del suo amore per Valerio durato dieci anni  e poi dell'improvviso invaghimento per Riccarda sua compagna di lavoro.
Tu stavi zitta. Mi guatavi. È la parola giusta mi puntavi gli occhi addosso  come per capire se ero commestibile. Non se cercavi l'amore certo  avevi gli occhi prensili. Dopo due anni di spine con Rita  come mi hai raccontato poi e sei mesi di sospensione  cercavi un corpo dentro cui sistemarti.
Io pure ero in sospeso. Marco si aggirava dentro le stanze interne  sempre più silenzioso e sorridente innocuo.  Qualche volta la notte mi svegliavo con la voglia di abbracciarlo. Una voglia così forte che mi dava i crampi al ventre. Anche se non lo vedevo  più ormai. Era andato a vivere con Bruna aveva lasciato Miriam. Ogni tanto mi telefonava per dirmi che mi amava. Non so perché forse per tenermi nella speranza che lui sarebbe tornato un giorno o l'altro - questa è la sua tecnica amorosa: l'attesa l'incertezza che fa agonizzare l'amore appassionato e poi il tradimento  la sincerità mista alle menzogne - aveva bisogno continuamente di sentirsi addosso due occhi innamorati.
Da mesi ero e mi consideravo libera. Cominciavo a provare gusto nello svegliarmi la mattina disponibile a nuovi incontri senza legami e impegni prestabiliti. Non dovevo dar conto a nessuno  dei miei movimenti potevo andare dove volevo chiudermi in casa e dormire o uscire vestendomi a festa e guardarmi in giro in cerca di avventure.
Ero in quello stato d'animo quando ho sentito i suoi occhi passeggiare sulle mie braccia nude.  Presagivo la tempesta? Forse no. Ma quella marina chiara di acque trasparenti mi attirava. Così è successo che quando Fiammetta ha detto che sabato sarebbe andata in campagna e ci ha invitate abbiamo detto sì tutte due contente di rivederci per riprendere quel gioco di sguardi curiosi.
Sei venuta a prendermi sotto casa con la tua sgangherata Erre 4 color uovo marcio e siamo partite. Non avevamo nessuna fretta di arrivare e ci siamo fermate due volte: a prendere le sigarette a M. e poi lungi la strada in un viottolo terroso perché hai detto  che la macchina si era troppo scaldata c'era la spia dell'olio accesa.
L'odore di erba medica di margherite bruciate dal gelo il leggero tepore del sole ricordo tutto con precisione le pecore che se ne stavano sparse sul costine dei monti i mosconi dalle ali verdi che frullavano sopra la testa tu che mi parli di Rita di tuo marito il quieto e gentile Ivano  di tua madre che ti rifiutava sempre e sempre ti seduceva con nuove astuzie e malizie. Non finivamo mai di parlare. E io pensavo che avevi un'intelligenza proprio come il tuo nome acquosa nitida con un fondo di razionalità pietrosa in mezzo a cui scivolano mille rivoli di invenzioni e divertimenti
Siamo arrivate da Fiammetta alle otto. Abbiamo mangiato verdure cotte sulla brace nella casa fredda.  Poi Fiammetta se n'è andata a dormire e noi ci siamo preparate un giaciglio per terra sul tappeto con i cuscini del divano  e sopra il sacco a pelo aperto.
Faceva freddo ma ciascuna se ne stava dalla sua parte senza toccarsi.  Avevamo spento la luce. Tu parlavi di qualcosa che non ricordo. Io ti rispondevo pensando ad altro. Avevo sonno. Ma ero intrigata da te. E un pensiero vagante come un serpentello voglioso mi girava nelle viscere il pensiero di sedurti di cominciare io il gioco.
Così ho allungato una mano verso la tua mano. Il sangue a valanghe nelle orecchie negli occhi ero travolta da una colata di emozioni. Il buio quel giaciglio improvvisato quello stare caldi nella stanza gelida. Il tuo corpo chiuso dentro la vestaglia marocchina era un mistero che dovevo assolutamente scoprire.
Forzare una situazione di tensione rompere l'indugio spiccare la prima scintilla in quel momento ero disposta ad affrontare qualsiasi rischio per andare in fondo a quel languore turbinoso. Ho sempre amato il momento della seduzione quel momento in cui tutto è possibile in cui basta una parola per creare un legame o per romperlo. Mi piaceva scoprire andare a vedere strappare le ultime resistenze a costo di trovarmi a faccia a faccia con l'orrore.
In quel torpore buio fra coperte vestaglie camicie da notte calzettoni di lana sciarpe cuscini  ho scoperto il tuo corpo pezzetto per pezzetto con la gioia del sacrilegio. La pelle leggere il fiato sospeso i capelli lunghi  che mi scivolavano sulle guance sul collo. Era una esperienza strana liquida.
Solo quando mi sono  mi sono trovata davanti il tuo sesso sciolto dall'emozione  e dal desiderio ho avito un momento di panico.  Ecco l'ultima resistenza è caduta e mi trovo davanti cosa? me stessa. Una mese stessa fonda e buia e che non conosco e forse non voglio conoscere.  Mia madre mi guarda dall'interno di quel buio dissacrato con due occhi ciechi disperati e io sono sconvolta  da una apprensione violenta che mi chiude i sensi.  Devo farlo mi dico devo esaurire questa meravigliosa scoperta  devo tuffarmi in questa orchidea marina a costo di svegliare l'anguilla che dorme a costo di morire di paura.
Ho chiuso gli occhi ho fermato i pensieri e ti ho cullata sulla mia lingua. «Essere donne significa questo» dice Chantal «sapere  riconoscere amare penetrare  le altre donne come se stesse con amore e tenerezza».
Da quel momento sono entrata in un mare pieno di correnti contrarie: dovevo amare per conoscerti ma dovevo conoscerti per amare e tutte e due le cose erano fatte con diligenza e allegria. Mi sono impegnata  in quest'impresa come un San Giorgio sul suo cavallo alato e sono partita con elmo corazza spada bandiera per entrare nel mondo degli amori femminili.
Tu eri la marina splendente che mi trovavo davanti nel momento giusto per fare un bagno purificatore. Eri generosa e fervida. Avevi una intelligenza corallina che mi affascinava.  Avevi gli stessi gusti miei per i romanzi russi per le poesie della Dickinson le opere di Verdi le chiacchierate notturne  i dolci fatti in casa le insalate miste gli uccelli i gatti. Da quel momento avremmo vissuto vicine parlando insieme leggendo insieme camminando insieme mangiando insieme.
La stranezza di un seno dentro la mia mano. La stranezza di una guancia liscia sotto le labbra,  la stranezza di quei capelli lunghi neri che a ogni abbraccio mi cascavano sugli occhi sul naso. Era bello mettere una gamba fra le tue infilare la testa sotto la tua ascella morderti il seno  carezzarti il sedere. Solo di una cosa avevo paura. Il momento in cui mi sarei trovata a tu per tu con il tuo sesso.  Che pure era dolcissimo profumato una piccola vongola rosata  colta nel profondo del mare che si apriva sotto le mie dita curiose.
Uno spettro lunare usciva da quella vongola innocente dandomi il batticuore. Il tuo sesso improvvisamente non era più quel frutto marino quel muscolo che respira dentro una cavità ombrosa  ma qualcosa d'altro un ingombro di macerie le rovine di una mia casa d'infanzia le statue nel giardino  di una delle amanti di mio padre la cappella umida  e scostata del collegio l'ostia dal sapore di carta che rigiravo sulla lingua  trasformandola in un pezzo vivo del corpo di Cristo  le mani voluttuose di mia made un letto disfatto  un vestito a foglie rotonde lilla che mettevo  quando avevo tre anni un rubinetto che gocciola  nel dormiveglia e non so che altro  un turbinio di cose rimosse e perdute che tornavano dandomi l'affanno
In fondo al tuo sesso aperto c'era mia madre, ecco forse era lì tutto l'orrore in una rimossa lontanissima tentazione di incesto. Il tuo corpo era diverso staccato  da me riconoscibile e io potevo abbracciarlo e carezzarlo. Così mi dicevo. Ma pure quando  me lo trovavo vicino alla faccia non riuscivo a non pensare  che si trattava del cuore carnoso e sanguigno di una madre che avevo amato e perduto in qualche sogno lontanissimo e questa consapevolezza mi annichiliva.
E però mi ribellavo  a quelle che Chantal chiamava «le proibizioni del padre che ci rendono complici e abiette». Mi ribellavo baciandoti lì dove mi sentivo più annullata  esplosa e persa in mille frammenti.

Questo brano, così come il romanzo cui appartiene, risente fortemente della particolare atmosfera culturale degli anni Settanta e dei primi anni Ottanta del Novecento; e, in particolare, di certe frange estreme del movimento femminista, le quali teorizzavano la ripulsa dal maschio e la totale liberazione sessuale mediante la pratica del lesbismo.
Il romanzo Lettere a Marina, apparso nel 1981, quando l'Autrice (nata a Firenze nel 1936) aveva  quarantacinque anni, si colloca in questa cornice, ma va oltre certe mode giovanili del momento, perché in esso, come ebbe a dire lei stessa, aveva messo molte cose che le stavano a cuore, e le era costato quattro anni di lavoro.
È un insieme di lettere che la protagonista, reclusa volontaria in un luogo di mare, scrive - ma forse non farà mai leggere - alla sua amante, con la quale ha condiviso una passione furiosa in fondo alla quale, come risulta anche dal brano sopra riportato, ella ha trovato il ricordo della madre e il rimpianto per quell'incesto non consumato, che si è portata dietro sin dall'infanzia, come un segreto tormentoso e inconfessabile, ma anche dolcissimo.
Tuttavia, in quelle lettere, la protagonista riversa tutta se stessa, rivivendo con distaccata lucidità, eppure anche - strano connubio - con intensa partecipazione emotiva, il ricordo del padre e quello degli amori passati (maschili); il ricordo della severa educazione in collegio e le emozioni di un viaggio esotico in America Centrale; i sogni carichi di minaccia  e il piacere per la lettura e per la musica di Verdi. Ma i sogni, soprattutto i sogni: con una insistenza allusiva e quasi ossessionante, che ricorda quella della Vita Nuova di Dante Alighieri.
È una storia d'amore, ma è anche una confessione e un tentativo di scendere al fondo di se stessa, di ritrovare il filo smarrito della propria infanzia, delle paure e dei turbamenti adolescenziali che accompagnano ancora la giovane donna di oggi; ed è - nonostante un certo compiacimenti erotico e decadentistico alla Baudelaire, certo non privo di una ingenua volontà di scandalizzare i benpensanti - un tentativo di far chiarezza con il proprio io segreto, di restituire la coscienza alla luce piena della verità interiore, senza inganni e senza alibi.
Ed è, quest'ultimo, l'aspetto a nostro avviso maggiormente apprezzabile di un libro che, per altri versi, appare datato e un po' stucchevole, sia nei contenuti che nello stile; con quella pretesa di modernità per il solo fatto di abolire le virgole, ma non i punti (quasi settant'anni dopo Ungaretti!): quando Giuseppe Berto, ad esempio, aveva spinto ben oltre la propria audacia, fino a scrivere, tutto d'un fiato, Il male oscuro senza neppure un a capo.
La Maraini era sulla cresta dell'onda fin da quando, ragazza prodigio, aveva raggiunto una precoce celebrità grazie a L'età del malessere (vincitore, nel 1963, del premio internazionale Formentor per le opere inedite), opera, peraltro, molto sopravvalutata, ma in compenso resa popolarissima, nel 1968, anche dalla trasposizione cinematografica, girata dal regista Giuliano Biagetti e interpretata dalla ninfetta  più deliziosa che il mercato del grande schermo offrisse in quel momento, la francese Haydée Politoff.
Quando scriveva le Lettere a Marina, Dacia Maraini, figlia del celebre orientalista e scrittore Fosco Maraini e compagna di vita dello scrittore Albero Moravia, militava attivamente nel movimento femminista e nel collettivo La Maddalena di Roma, scrivendo anche, in collaborazione con Piera degli Esposti, il saggio Storia di Piera, sempre nell'ottica di épater les bourgeois.
Tuttavia, come abbiamo detto, vi sono, in quel libro, alcune pagine che travalicano il momento storico contingente (che, oggi, nella società delle veline rampanti e delle soubrette in carriera, ha quasi il valore di una rarità archeologica) e raggiungono un livello espressivo più alto, imponendosi per una particolare sincerità agrodolce, per una certa atmosfera di straziante e tuttavia golosa lucidità introspettiva, che ricorda, a tratti, un certo sadismo surreale alla André Pieyre de Mandiargués, mescolato con il realismo brutale e l'erotismo un po' banale che tanto piacciono - ma segretamente, beninteso - proprio a quel pubblico borghese che, in teoria, avrebbe dovuto rimanere scandalizzato.
Si prenda, ad esempio, una espressione come cercavi un corpo dentro cui sistemarti: vorrebbe esprimere la dolcezza, ma anche la prepotenza di un parassita che s'insedia in un altro organismo, per succhiarne il calore e gli umori vitali. Ha una sua efficacia, nuda ed essenziale.
La frase Il tuo corpo chiuso dentro la vestaglia marocchina era un mistero che dovevo assolutamente scoprire, invece - e sia detto con tutto il rispetto per il lavoro di uno scrittore - sembra proprio pescata dal magazzino delle frasi fatte in stile mediocremente giornalistico; meglio dimenticarla.
Ma c'è di peggio. La frase il tuo sesso.  Che pure era dolcissimo profumato una piccola vongola rosata  colta nel profondo del mare che si apriva sotto le mie dita curiose pare uscita da Il delta di Venere di Anaïs Nin, ma senza la sua patina di autoironia: il che la rende non solo banale, ma anche, e irrimediabilmente, kitsch.
Pur con questi limiti, si tratta di una pagina apprezzabile, se non altro per la tesa volontà di chiarezza interiore da cui è pervasa.
Chi legge il libro per la prima volta, tuttavia, deve sapere che, se la sua intenzione è quella di cercarvi una parola di verità sul fenomeno dell'amore, probabilmente resterà deluso. Dopo aver chiuso il volume, ne sappiamo esattamente quanto prima, forse un poco di meno. Perché difficilmente possiamo allontanare il dubbio che, in quel libro, amore e invaghimento (per usare un termine dell'Autrice) siano confusi con la massima disinvoltura. Anzi, che non si tenti nemmeno di comprendere cosa sia l'amore, al di là del turbamento sensuale, dell'afflusso di sangue nelle orecchi e di tutto l'armamentario tolto, più o meno di peso, dalle poesie di Saffo.
Del resto - è la stessa Autrice a confessarlo - è l'amore che la protagonista di Lettere a Marina stava inseguendo, o non piuttosto il fantasma della madre, della regressione nell'utero materno? Una interpretazione dell'eros - anzi, di quella particolare forma dell'eros che è l'omosessualità -  che sarebbe piaciuta al regista Franco Brusati di Dimenticare Venezia (ma il film è del 1979: possibile che sia stato quest'ultimo ad influenzare il romanzo?). Che, però, non ci sentiamo affatto di condividere, anche per l'abuso di cultura psicanalitica (una merce già in svendita permanente) a buon mercato: come dire, uno sconto su di un prodotto che è già in saldo.