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L'essere umano cerca nell'Altro il fondamento e il possesso di se stesso

di Francesco Lamendola - 21/10/2008

 

L'esperienza dell'essere è una esperienza costitutiva e originaria dell'essere umano.
Egli ha coscienza di essere e ha coscienza di una quantità di altri enti che lo circondano: e ciò gli dà non solo la consapevolezza, ma anche l'esperienza, che alla base della realtà, sia esterna che interna a lui, vi è l'essere piuttosto che il non-essere.
Si tratta di un'esperienza positiva, cui egli perviene non per via d'astrazione o per sottrazione di cose o concetti erronei; ma per via d'intuizione immediata e della stessa struttura logica, affettiva, emozionale della propria realtà, del proprio modo di esistere.
Senonché, nel medesimo tempo in cui afferra la costitutività del proprio essere, egli avverte anche una mancanza, una insufficienza, un vuoto, derivanti proprio dalla struttura del suo modo di essere; per cui si può dire che, da quando l'uomo - poppante - si afferra al capezzolo della madre, fino all'ultimo istante della vita, una corrente sotterranea, di cui egli - il più delle volte - è inconsapevole, lo sospinge verso quella pienezza, verso quella completezza e verso quella perfezione che sente, oscuramente, inerire alla struttura originaria dell'essere, ma che a lui mancano.
In genere, questa ricerca si rivolge verso uomini e cose, talvolta verso ideali: l'uomo cerca nell'altro il fondamento e il pieno, armonioso possesso di se se stesso, cioè del proprio essere. Tuttavia, per quanto s'immerga nel possesso delle cose, dei suoi simili o degli ideali che lo hanno affascinato, mai vi trova tutta intera quella sensazione di pace, di equilibrio, di assolutezza che aveva sperato; mai si sente intimamente appagato, se non in attimi fugaci, che cedono il posto a un rinnovato sentimento di indigenza e di incompletezza.
La maggior parte delle delusioni e delle amarezze che si generano nei rapporti umani hanno origine da qui. L'uomo cerca nell'altro quello che non vi può trovare; e, invece di offrire e ricevere dall'altro un aiuto in vista dello sforzo comune verso la compiutezza del proprio essere, si lascia andare ad amare recriminazioni e diviene pietra d'inciampo nei confronti del suo simile, senza aver potuto progredire di un passo nemmeno egli stesso.
Sarebbe pertanto necessario che, nell'accostarsi alle cose, alle persone e agli stessi ideali, ciascun essere umano ricordasse sempre che egli dovrebbe cercare in essi un trampolino verso l'ulteriore ricerca dell'origine, del fondamento, dell'essere; e non illudersi che vi potrà trovare la sostanza di quanto va cercando e che lo tortura con il pungolo del desiderio.
Se egli si pone di fronte agli altri enti con la consapevolezza che nessun ente può offrire a un altro ente la risposta ultima che ciascuno va inseguendo; se, per dirla in altri termini, egli fosse consapevole che l'oggetto della sua ricerca è, in definitiva, una risposta alla sua domanda di senso, allora, forse, comprenderebbe che nessun ente può esaudire e soddisfare una tale domanda, perché la risposta  trascende di gran lunga la natura stessa degli enti e appartiene solo al fondamento sul quale essi riposano: cioè sull'Essere in quanto tale, sull'Essere che fonda e costituisce originariamente l'essere, parziale e relativo, degli enti.
L'umana inquietudine, che è la spia di questo nostro andare alla ricerca, e quindi anche della nostra lacuna ontologica, va quindi interpretata come una richiesta di senso, che grida dal fondo della persona e non sa rassegnarsi a quella lacuna, a quella ferita originaria.
Siamo tutti feriti, perché siamo tutti incompleti; ma la nostra incompletezza è frutto della nostra illusone di separatezza dall'Essere: ecco che, quando oltrepassiamo tale illusione, con un atto di ritorno consapevole verso l'Essere, la ferita si sana e noi ritroviamo l'armonia - sia pure in via provvisoria, essendo pur sempre appesantiti dalle scorie della contingenza.

Ha scritto in proposito il filosofo spiritualista Armando Rigobello (in L'estraneità interiore, Editrice Studium, Roma, 2001, pp. 63-65):

la configurazione fenomenologica della soggettività si situa (…) tra una richiesta di assolutezza di senso da un lato, e l'avvertimento della precarietà dall'altro. L'avvertimento  della precarietà, della fragilità soggettivistica, del limite è conseguente al confronto tra l'esigenza di assolutezza e le effettive condizioni in cui si svolge la nostra esistenza concreta.
La dinamica che investe la soggettività è caratterizzata dal reciproco condizionarsi dei due livelli, quello della richiesta di senso e quello dell'avvertimento di un limite, ma anche da una qualche consapevolezza di un Assoluto significante. Questi presupposti non sono semplici proposizioni conoscitive, danno luogo ad un vario, a volte imprevedibile intreccio di vicende. È la vita della soggettività, in tutta la sua complessa articolazione, che viene messa in moto da ciò che è condizione della sua stessa possibilità Questo, in fondo, richiama quanto Platone aveva adombrato nel mito di Amore figlio di Poros e di Penia, e che si trascrive, in termini di spiritualità cristiana, nell'inquietum cor nostrum di Agostino: una interiorità ed una vicenda di vita a due dimensioni, un'autenticità nella differenza. (…) Gli elementi di questo modello e di tale schema sono la differenza di piani, il richiamo dialettico tra pienezza esigita e mancanza sperimentata, la connessione tra avvertimento, presagio, constatazione, superamento; una dinamica alterna, di intima consapevolezza dialettica, ma situata in una consapevolezza analitica. L'analitica dell'esistenza si intreccia con una dialettica come lotta per il senso. (…) La situazione di precarietà  e di limite, come la richiesta di senso,  sono criteri di interpretazione dei contenuti  coscienziali che non si presentano in alternativa, ma costituiscono chiavi compossibili di lettura. Un atto di disperata richiesta di certezza si muove in un radicale senso della precarietà,  e viceversa l'avvertimento del limite  presuppone una nostalgia di pienezza.

Da ciò scaturisce il concetto di estraneità interiore, coniato da Rigobello.
La mancanza, il senso del limite e del bisogno, è una esperienza della nostra vita interiore, della nostra coscienza. Al tempo stesso, noi percepiamo che proprio all'interno di quest'ultima si verifica una lacerazione, una spaccatura fra ciò che vorremmo essere e ciò che effettivamente siamo; fra la nostalgia di assoluto che ci assilla e il senso di insufficienza e, talvolta, di squallore, di cui siamo consapevoli, e che è la nostra condizione originaria.

Ora, tornando al discorso precedente, è chiaro che se noi cerchiamo di riempire quel senso di vuoto, se noi cerchiamo di placare quel desolante sentimenti di squallore e di solitudine, gettandoci fra le braccia di un altro essere umano, come noi povero e bisognoso (o, magari, anche di più), e altrettanto inconsapevole della reale natura di quel senso di vuoto, non solo non troveremo aiuto e conforto, ma, presto o tardi, vi troveremo delusione e amarezza, che verranno ad aggravare la nostra indigenza originaria.
Il fatto è che vi sono due modi di porsi di fronte all'esperienza dell'estraniamento interiore, così come a tutte le situazioni di crisi (nel significato etimologico della parole greca, ossia di passaggio e di cambiamento).
La si può vivere come una condanna, una maledizione e una tortura perenne, contro la quale nulla possiamo fare - dal momento che essa è originaria e costitutiva del nostro essere -, tranne tentare di stordirci con una ricerca di emozioni «forti», in modo da distrarre il cuore e la mente e immergerci il più possibile nel contingente e nel relativo; oppure la si può cogliere come una rivelazione preziosa e come una entusiasmante possibilità di ri-orientare il corso dei nostri pensieri, dei nostri affetti e della nostra stessa vita.
Chi sceglie la prima strada tende a iterare sempre gli stessi errori, le stesse delusioni e le stesse amarezze, con cupa e dolorosa monotonia; a meno che non riesca a spegnare definitivamente in sé stesso l'avvertimento del limite; ma è, questa seconda possibilità, un qualcosa che non si vorrebbe augurare a nessuno, perché coincide con la distruzione di quanto di più bello e vivo e forte alberga nella nostra natura.
Chi ha messo a tacere la propria inquietudine, ha murato entro di sé proprio la porta mediante la quale si può accedere a quei livelli più elevati di esistenza, nei quali è dato colmare, gradualmente e parzialmente, ma sempre più gioiosamente, quel penoso senso di vuoto e di inadeguatezza che caratterizza la vita dell'interiorità non ancora risvegliata.
L'altra strada, quella di cogliere l'avvertimento del disagio e della mancanza di senso, come una preziosa opportunità di trasformazione e di rinascita, va nella direzione opposta: non ci chiede di sacrificare la parte migliore di noi stessi, ma di elevarla e purificarla, spostandola su piani alti di consapevolezza, dove si comincia a trovare la risposta a quella domanda di senso e l'appagamento a quella sete divorante dell'anima.
È una strada, almeno all'inizio, molto più ripida e faticosa, tale da scoraggiare chi non possieda una volontà ferma, un cuore puro e una certa dose di coraggio e, particolarmente, di sprezzo della solitudine.
Perché è una strada solitaria, oltre che ardua, che nessuno può percorre al nostro posto; e della quale dobbiamo trovare noi stessi, da soli, il punto di partenza.

Ma, in realtà, non saremo del tutto soli.
Dove vi è un essere umano il quale, con animo puro e con tenace perseveranza, decide di mettersi in gioco, voltando le spalle alle strade più facili, per trovare la risposta alla domanda di senso che sale dalle profondità del proprio essere, là vi è anche una forza amorevole che lo sorregge, che lo sostiene e che lo guida nei passaggi più pericolosi e che lo conforta e lo consola nei momenti di scoraggiamento.
Non esistono strumenti scientifici per rilevare la presenza di una tale forza, né incontrovertibili argomenti di ordine logico in base ai quali se ne possa dedurre la necessità e l'esistenza; tanto meno il suo attivo intervento in nostro favore, allorché ne abbiamo maggiormente bisogno. Nessuno la può mostrare o localizzare o misurare; nessuno la potrebbe descrivere, se non con un linguaggio inadeguato e balbettante.
E, tuttavia, è possibile farne esperienza; è possibile sperimentarla entro di sé, nella concretezza della propria vita, nel silenzio della propria coscienza.
La si può chiamare in diverse maniere: e, di fatto, le diverse tradizioni spirituali la indicano con nomi differenti; ciò è secondario.
Quello che conta, è che essa esiste ed è attiva, sollecita, benevola: è impossibile invocarla, o rivolgerle anche solo un pensiero, senza riceverne un beneficio, anche se questo non sempre viene riconosciuto come tale, almeno sul momento.
Si tratta, infatti, per chi abbia intrapreso questo cammino, di acquisire anche una diversa prospettiva sulle cose e sul giudizio che noi tendiamo a darne.
Per la mentalità ordinaria, il male è male, e basta; e tutto ciò che diminuisce il nostro io ci appare come un male, dunque come qualcosa da evitare.
Per chi, invece, abbia cercato di mettersi nella prospettiva dell'assoluto, un male presente e contingente può essere occasione di un bene futuro o, comunque, di un bene più grande di quello che, in apparenza, si è perduto. Però, ciò si rivela solo quando si sia vinto almeno in parte il potente istinto dell'attaccamento al piccolo ego e alle cose, per fare spazio al nostro vero Sé e alla vastità e bellezza del progetto cosmico di cui siamo parte.
Quando ci si inoltra ancora un poco più avanti sul sentiero, allora si comincia a comprendere che il nostro vero io si espande solo quando abbiamo messo a tacere il piccolo io; che la nostra vita interiore si arricchisce solo quando quella esteriore si è impoverita; che tutto ciò che, secondo la mentalità ordinaria, appare come una perdita, è, dal punto di vista di ciò che conta veramente, un guadagno; o, quanto meno, una possibilità di guadagno, ossia di superamento e di vittoria sulle forme illusorie che ci vorrebbero trattenere verso il basso.
Ma, per arrivare a intuire questo, bisogna avere il coraggio di vivere il nostro vuoto originario sino in fondo; di gridare ad alta voce la nostra mancanza; di lasciare che il nostro senso di impotenza appaia in piena luce, senza tentare di mascherarlo con orpelli di vario genere, piccole menzogne e maschere ipocrite.
Perché - è stato detto una volta - chi vorrà essere grande, dovrà farsi piccolo; e chi vorrà salvarsi, finirà per perdere se stesso.