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Le vere cause del crac

di Luciano Gallino - 22/10/2008

  
 
La colpa del crack non è dei manager, ma dalla politica e delle istituzioni che lasciano briglia sciolta a “mercato”.

Durante la conferenza stampa che ha concluso il vertice europeo della scorsa settimana sulla crisi finanziaria, Nicolas Sarkozy ha affermato che i dirigenti delle banche che hanno provocato lo sconquasso finanziario dovranno pagarla. Vaste programme, avrebbe detto il suo predecessore Charles De Gaulle. A cominciare dai numeri in gioco. Lo sconquasso è stato infatti provocato dalle strategie di mercato d’alcune migliaia di istituzioni finanziarie americane, europee e asiatiche. L’elenco comprende banche di deposito e banche d’affari (sebbene non sempre sia facile distinguerle), fondi speculativi, fondi comuni di investimento, compagnie di assicurazione, buon numero di fondi pensione che negli anni 2000 hanno scoperto il fascino dei mercati dei titoli, e vari altri tipi di enti privati e pubblici. Supponendo che i top manager siano una dozzina per ente, si arriva a una quantità di persone su cui fare indagini fiscali e contabili, civili e penali, dell’ordine di decine di migliaia. Aspettiamo di vedere chi e come ci metterà mano, a tali indagini.

Vastità del programma a parte, accusare della crisi i dirigenti delle istituzioni finanziarie, come han fatto autorevoli personaggi anche prima di Sarkozy, è del tutto fuorviante per cercar di capire le cause del disastro, quando non si tratti di un vero e proprio depistaggio. Non c’è dubbio che tra i dirigenti delle istituzioni finanziarie vi siano stati dei disonesti, e che sarà giusto colpirli. Ma bisognerebbe cercar di evitare di ripetere la commedia del 2000-2003, quando in Usa crollarono Enron e WorldCom, Adelphia Communications e Tyco International, e in Europa, tra gli altri, Vivendi e Parmalat. Il presidente Bush definì "mele marce" i dirigenti coinvolti, presto condannati a pene severe, e fece passare di corsa la legge Sarbanes-Oxley del 2002, che accresceva le responsabilità dei manager e doveva restaurare la fiducia nel sistema. Il fatto è che il marcio stava nella legislazione fino ad allora in vigore, assai più che nelle persone. Alcuni dirigenti avevano sì commesso delle frodi, ma fino a qualche giorno avanti erano stati oggetto di lodi iperboliche per le loro capacità manageriali. Da esse, si diceva, era nato un nuovo modello di impresa giuridico-telematica, un nesso iperflessibile di contratti e comunicazioni che generava profitti fantasmagorici. Un modello che nel caso Enron si fondava, tra l’altro, sulla modifica per dubbie vie della legislazione di una ventina di stati Usa al fine di consentirle di operare come un fulmine senza freni sul mercato dell’energia.

La situazione odierna è molto simile. Chi ha deviato tra i dirigenti va colpito. Ma incomparabilmente più grave è il guasto insito nelle leggi che hanno favorito, incentivato, premiato il comportamento di decine di migliaia di dirigenti che si sono limitati ad applicarle e, comprensibilmente, a sfruttarne ogni remota piega. Sono in primo luogo leggi Usa, e visto che perfino il presidente Bush ha ammesso che la crisi è partita da loro, su di esse occorre soffermarsi. Il cammino verso il disastro odierno è segnato da due principali leggi. La prima, la legge Gramm-Leach-Bliley del 1999, aboliva la legge Glass-Steagall del ‘33 e permetteva da capo ogni sorta di attività speculative tanto alle banche commerciali che alle banche di investimento � una delle cause del crollo del ‘29. Il primo firmatario, il senatore Phil Gramm, che avrebbe lasciato il Senato nel 2003 ed è oggi consigliere economico di McCain, era considerato uno dei più attivi portavoce degli interessi di Wall Street che si siano mai visti nel Congresso Usa. Un anno dopo Gramm colpiva ancora. Poco prima della pausa natalizia, con il presidente uscente Clinton ormai privo di effettivo potere, il Congresso stava discutendo una legge finanziaria che distribuiva tra un’infinità di soggetti quasi 400 miliardi di dollari. Il testo della legge era smisurato: circa 10.000 pagine. Il senatore Gramm riuscì all’ultimo momento a introdurre un emendamento di 262 pagine denominato Commodity Futures Modernization Act (Cfma). Il presidente Clinton lo firmava, trasformandolo in legge, il 21 dicembre 2000.

Il Cfma sottraeva quasi per intero i prodotti finanziari derivati alla regolazione ed alla sorveglianza sia della Commissione Titoli e Borsa (la famosa Sec), sia della meno nota Commissione per il Commercio dei Titoli Future. In tal modo apriva la porta alla demenziale moltiplicazione dei derivati finanziari trattati al di fuori delle borse. Dal 2000 a fine 2007, va ricordato, essi sono balzati, come valore nominale ovvero di sottoscrizione, da 100 trilioni a 600 trilioni di dollari, una cifra equivalente a 11 volte il Pil mondiale. Al riguardo, il presidente (1987-2006) della Federal Reserve Alain Greenspan ebbe a dichiarare in più di un’occasione che si era dinanzi a un nuovo sistema finanziario, che da un lato migliorava in misura super il livello di vita dei paesi che lo adottavano, dall’altra rendeva evidente che per raggiungere sicurezza e solidità la regolazione finanziaria doveva ormai affidarsi all’auto-sorveglianza delle istituzioni private. Come più di un commentatore ha scritto, in tal modo la custodia del pollaio veniva affidata alle volpi.

Ci si può chiedere perché mai dovremmo preoccuparci, noi della Ue, di un paio di leggi Usa. Due semplici risposte vengono alla mente. Anzitutto il sistema finanziario sortito da quelle leggi, ora sconvolto da una crisi senza precedenti, è stato magnificato per anni, sino ad un paio di mesi fa, come un modello di straordinaria modernità ed efficienza, che si doveva assolutamente trasferire nei nostri paesi. In tal senso si sono adoperati politici e imprenditori, associazioni di categoria ed economisti, quotidiani economici e banchieri. Non sembra, per fortuna, che vi siano riusciti del tutto. Ma resta vero che la legislazione e la normativa delle autorità di sorveglianza hanno fatto in questi anni, seppur con differenze di rilievo da un paese all’altro, lunghi passi in direzione d’una estesa adozione di quel modello. Per evitarlo, e imboccare la strada inversa, bisogna conoscerlo.

La risposta numero due è che un certo numero di trilioni di dollari di derivati non registrati dal mercato borsistico e quindi invisibili alle autorità di sorveglianza, sono stati presumibilmente acquistati anche da istituti finanziari della Ue, Italia compresa, per essere poi scambiati e rivenduti attraverso mille canali. Fino a ieri sono stati anch’essi glorificati quali capolavori di gestione del rischio, parti geniali della matematica finanziaria. V’è da sperare che il loro peso di mele marce non si riveli eccessivo per gli istituti finanziari e i risparmiatori. Ma forse potrebbe bastare per convincere qualche attore in più, in sede politica ed economica, che cacciare qualche dirigente va pure bene, ma solo una radicale reimpostazione delle regole del sistema finanziario mondiale ci porranno al riparo da catastrofi anche peggiori di quella attuale.